Centocinquant’anni fa, il 1° luglio 1855, si spegneva dopo una lunga malattia il prete roveretano Antonio Rosmini. «Prete roveretano», l’unico titolo di cui egli amava fregiarsi, nonostante discendesse da una delle più nobili e facoltose famiglie trentine.
Uomo dalla cultura enciclopedica, filosofo eccezionale, fine teologo e pensatore politico, amico di alcune delle più belle menti del suo tempo (basti ricordare Niccolò Tommaseo e Alessandro Manzoni), Rosmini ha lasciato un segno indelebile nella storia italiana degli anni che precedettero l’unificazione.
Una figura non sempre capita, quella di Rosmini: fortemente amata da coloro che ebbero la fortuna di lasciarsi affascinare dalla sua mente eccelsa e dal suo grande cuore; ma anche astiosamente rifiutata da chi lo giudicò troppo frettolosamente un giovane e presuntuoso intellettuale.
Gli obiettivi che Rosmini si prefisse, già dall’inizio della sua breve ma straordinaria attività, non erano assolutamente modesti. Ancora giovane studente aveva convinto alcuni amici a unirsi a lui nella redazione di un’enciclopedia cattolica che avrebbe dovuto rappresentare, secondo l’intenzione dei suoi curatori, la risposta cristiana al progetto illuminista di Diderot e D’Alembert. Il progetto fallì, ma l’inquietudine di poter dare all’universo cattolico un’opera di ampio respiro, che potesse rispondere alle sfide sempre più pressanti che venivano da un mondo in costante evoluzione, rimase ben radicata nel pensatore trentino.
La situazione in cui versava l’Italia pre-risorgimentale, accesa dai fuochi della rivoluzione francese, era un laboratorio pressoché unico di fermenti e idee, in cui Rosmini si immerse con decisione. E ben presto comprese come il malessere diffuso che si avvertiva nella penisola e in Europa andava affrontato con strumenti diversi e più radicali di quelli che poteva offrire la politica.
Secondo Rosmini, la gente aveva perso la capacità di pensare «correttamente» e ben poco avrebbe giovato un cambio politico che non fosse accompagnato da una crescita intellettuale, morale e spirituale delle singole persone. Nasce da questa consapevolezza il carisma specifico rosminiano, quella «carità intellettuale», che orienterà i suoi studi fino al giorno della sua morte, e cioè, lo sforzo di instradare i suoi contemporanei alla scuola dell’essere, fondamento della realtà e via che conduce alla contemplazione del mistero di Dio, unica verità.
Questo progetto, che toccherà tutti gli ambiti del pensiero filosofico e teologico, si concretizzerà in un numero straordinario di opere pubblicate, numero reso ancora più incredibile se si pensa che Rosmini morì a soli 58 anni.
Due furono i motori che lo spinsero a quest’opera di rinnovamento del pensiero cristiano. Il primo può essere riassunto nel principio rosminiano di «passività», cioè, nella consapevolezza che per poter aiutare con efficacia l’uomo a correggere la propria mentalità, è necessario creare in se stessi l’attitudine dell’uomo di fede che sempre sottomette alla volontà di Dio i propri interessi e desideri. Il secondo stimolo venne al Rosmini dall’esplicito incoraggiamento dell’allora papa Pio vii a proseguire gli studi che si era prefisso in campo filosofico.
Nonostante le critiche che cercarono di colpire il pensiero, persona e attività di Rosmini, nate in molti casi in ambienti ecclesiali, il pensatore trentino sempre intese la sua opera in comunione stretta con la chiesa, per la quale ebbe durante tutta la vita amore e devozione. Anche quando, con la pubblicazione del famoso trattato Delle cinque piaghe della santa chiesa (1848) Rosmini mise a nudo alcuni problemi che affliggevano la realtà ecclesiale del tempo, l’intento di fondo fu quello di aiutare gli uomini a servire meglio la chiesa, aiutandola a sbloccarsi da quei difetti che la tenevano come «crocifissa», impossibilitata a liberare le sue enormi potenzialità di fare il bene.
Il fine di tutto lo studio rosminiano è eminentemente antropologico. Il centro del suo pensiero è l’uomo, e tutta la sua filosofia deve essere intesa come una vera e propria pedagogia dello spirito umano. Sempre pose bene in chiaro l’inutilità di una filosofia non diretta al miglioramento della condizione umana. In particolare, Rosmini pose l’accento sul concetto di persona, «il pinnacolo della natura umana», il cui valore, dignità e potenzialità indicano il cammino di ricerca della verità che ci può davvero rendere liberi.
L’antropologia rosminiana potrebbe trovare la sua collocazione nella valigia del missionario, dando all’apostolo di oggi una comprensione profonda e un grande apprezzamento della persona, dei suoi valori e dei suoi diritti inalienabili. «Salvata la persona è salvato l’uomo».
Un secolo prima di Maritain, il filosofo trentino ci presenta una figura di persona integrale, un piccolo microcosmo non riducibile a una parte, che ha in sé il germe della totalità, dovuta al dono della razionalità di cui ogni persona è foita e che la rende diritto sussistente, essenza stessa del diritto. Non lo stato, quindi, neppure il capitale o la finanza possono pretendere di essere essenza del diritto, ma la stessa persona umana.
Un messaggio forte per un’epoca in cui troppe persone non sono più considerate come soggetti di diritto, in cui la loro dignità è offesa dal momento della nascita a quello della morte. È anche per questo suo sempre attuale contributo «personalistico» che nella sua enciclica Fides et ratio, papa Giovanni Paolo ii associò il nome di Rosmini a quello di altri significativi autori cristiani, l’attenzione all’itinerario spirituale dei quali «non potrà che giovare al progresso nella ricerca della verità e nell’utilizzo a servizio dell’uomo dei risultati conseguiti» (n. 74).
Ugo Pozzoli
Ugo Pozzoli