Il programma di lotta all’Aids, promosso dalla diocesi di Lusaka, coinvolge migliaia di volontari.
Legato il foulard rosso sulla testa, sistemata la grossa borsa grigia sulla spalla, Mami Monica saluta la nipotina e si incammina lungo la strada polverosa. Questa mattina percorrerà a piedi 10 km, sotto la canicola africana, per portare aiuto alle persone che assiste nel suo quartiere. Questo non è per lei un giorno eccezionale, ma la normalità. Ormai da anni ripete gli stessi gesti due o tre volte alla settimana.
Mami Monica è una delle 75 caregivers (assistenti volontari) che a Kafue partecipano al Community Home Based Care Program (programma di assistenza domiciliare comunitario). Vi collabora dal 1993, quando, dopo la morte del marito si è trasferita a Kafue, dove oggi vive con la famiglia. Abita nel Chawama compound, un quartiere povero ma dignitoso, con piccole case di mattoni, circondate dagli alberi di mango, non ammassate ma disposte ordinatamente.
I l Community Home Based Care Program dell’arcidiocesi di Lusaka nasce ufficialmente nel 1994 per dare una struttura di cornordinamento a tutti i progetti nati spontaneamente sul territorio per combattere il dilagante problema dell’Hiv. Già alla fine degli anni ’80, infatti, all’interno di alcune comunità erano nati i primi gruppi di volontari che nel 1992 iniziarono le prime attività assistenziali. Due anni dopo, i responsabili sentirono l’esigenza di unificare gli sforzi, dando vita ad un unico grande progetto.
Oggi il programma è una realtà consolidata che conta sessanta sedi e coinvolge circa 3.500 volontari, offrendo assistenza domiciliare a 12 mila persone.
Il Community Home Based Care Program prevede 5 aree d’intervento: assistenziale, medica, formativa, amministrativa e assistenza agli orfani. Ogni area ha un suo supervisore.
«Il nostro obiettivo – afferma Kennedy Mpandamwike, responsabile del programma – è quello di fornire alla persona un’assistenza olistica (holistic care), ovvero un intervento che non mira soltanto alla cura fisica e materiale della persona, ma anche a quella spirituale e psicologica».
Un aspetto importante del programma è quello della prevenzione. È stato infatti attivato un progetto sul cambiamento delle abitudini, che prevede una formazione sulla sessualità responsabile. Le varie sedi sono legate alle realtà parrocchiali dell’arcidiocesi e sono gestite da un manager agent e da un cornordinatore.
L’organizzazione opera sul territorio attraverso dei volontari, i «caregivers». Ogni volontario assiste tre o quattro pazienti che visita regolarmente due o tre volte alla settimana. I volontari devono necessariamente operare nella zona in cui abitano. «È bello pensare che una persona si prenda cura di chi gli vive accanto – afferma Kennedy Mpandamwike -; questo ci permette di contare su persone che conoscono approfonditamente le situazioni in cui sono chiamati ad operare».
Il programma prevede la distribuzione gratuita di cibo e di medicine: le medicine per i malati di Tbc sono finanziate dall’Organizzazione mondiale della sanità. I volontari sono seguiti nella loro attività dai vari responsabili che organizzano momenti periodici di verifica. Alcuni di questi incontri prevedono attività di formazione con psicologi e religiosi.
Il personale del programma non è interamente volontario ma vi sono anche medici e infermieri stipendiati. A loro, però, è chiesto, prima di essere assunti, di svolgere tre mesi di volontariato in modo da iniziare a conoscere le dinamiche dell’organizzazione. L’intero progetto è finanziato da donazioni provenienti da varie Ong, come Cafod, Cristian Aid, Comice Relief (Inghilterra), Misereor (Germania), Catholic Relief Service (Usa) e Irish Aid (Irlanda).
A rriviamo alla casa di Mami Monica percorrendo la strada principale che collega Lusaka a Kafue. Poche centinaia di metri dopo il centro della città svoltiamo a sinistra imboccando una strada sterrata.
Mami Monica ci attende davanti alla porta di casa e ci invita ad entrare. Insieme a lei c’è Moses, un altro volontario. Ci accomodiamo nel piccolo salotto. Alle pareti sono appese le foto della sua numerosa famiglia (3 figli, 6 figlie e 24 nipoti), accanto al poster di Ronaldo.
«Non è facile trovare il tempo di assistere queste persone e per noi donne è ancora più dura, ma è una cosa che sentiamo dentro» ci confida Monica. Lei infatti, come la maggior parte delle donne di Kafue, è costretta a lavorare per poter sfamare la famiglia. Gestisce un piccolo banchetto al mercato del compound, dove vende legumi e pomodori.
Moses ci racconta del particolare legame che con il tempo si riesce ad instaurare con il paziente e i suoi familiari. «Quando vai da loro, gli dai la luce» ripete.
Seguiamo i due caregivers lungo la strada che porta verso Cassengere, il compound vicino a Chawama, dove si trova la casa della prima assistita: si chiama Rosebanda. L’abitazione è formata da un’unica piccola stanza, coperta da un tetto di lamiera, che rende l’aria soffocante. Ad attenderci sulla porta troviamo il marito e una vicina di casa. Entriamo nella stanza e troviamo la paziente seduta sul letto. È malata di Tbc e da alcuni giorni non riesce a mangiare. La Tbc ha attecchito facilmente nel suo corpo debilitato dall’Aids.
Monica si siede accanto a lei e le tiene la mano. Ad un tratto la donna comincia a piangere: la sua unica figlia, che vive a Lusaka, si rifiuta di venirla a trovare. L’Aids è ancora troppo spesso visto come uno stigma, una colpa, un qualcosa di cui vergognarsi. Monica cerca di consolarla sussurrandogli alcune parole all’orecchio. Non comprendiamo il senso di queste parole, ma il suo sguardo e le carezze sono quelle di una madre che accudisce il proprio bambino.
Dopo alcuni minuti Monica afferra la borsa ed estrae un pacco di farina arricchita con vitamine e zuccheri e lo consegna al marito della donna. Prima di uscire sostiamo un attimo in silenzio e Moses pronuncia una preghiera per la donna. «Signore ti preghiamo aiuta questa donna, sappiamo che a te nulla è impossibile» sospira a bassa voce.
Oltre a portare cibo e medicinali, insieme al sostegno psicologico, i caregivers aiutano i familiari dei malati nelle faccende domestiche. «Il nostro ruolo – spiega Moses usciti dalla casa – è sempre quello di mettere in contatto queste persone lasciate sole con i parenti. Vedere la famiglia che si riavvicina al malato è una cosa meravigliosa».
R iprendiamo il cammino lungo la strada in salita e arriviamo alla casa del secondo paziente. È assistita da una delle figlie, anch’essa malata di Aids.
Mami Monica e Moses si siedono vicino alla donna e conversano con lei. Quindi la caregiver estrae dalla borsa farina, medicine e un unguento e consegna tutto alla figlia. Dopo aver invocato l’aiuto di Dio, usciamo per continuare il cammino e visitare l’ultima casa.
Vi arriviamo in pochi minuti, ma la donna che dovevamo incontrare sta riposando. Monica decide di proseguire verso casa; ci toerà più tardi. Imbocchiamo un sentirnero in discesa che dalla collina ci riporta verso il nostro pulmino. Salutiamo e ringraziamo Mami Monica e Moses. Prima di lasciarci chiediamo a Moses qual è il significato della parola Chawama. «Cosa buona» risponde sorridendo. Non poteva essere altrimenti.
Nato inizialmente come consultorio, questo progetto, di cui John Hospice fa parte, si è espanso fino alla creazione di ospedali che danno la possibilità ai malati più gravi di ottenere le cure necessarie a una degna sopravvivenza, o a una morte dignitosa, quelle cure che l’home based care non può arrivare a fornire.
Grazie al sostegno di vari donatori, come le fondazioni Elthon John, Bill Clinton, Christian Aid e Comice Relief, possono essere effettuate analisi, come i Cd-4, e somministrate medicine costose, garantendo un miglioramento delle condizioni del paziente.
«Sta molto meglio grazie alle cure, prima di venire qui era irriconoscibile» dice Josef, mentre accarezza i capelli della sua bimba di soli 4 anni, che porta ancora intorno alla bocca i segni devastanti della malattia. Tanti bambini come lei hanno riavuto la possibilità di vivere una vita normale, almeno per un poco. «Ma tra qualche giorno dobbiamo andare via e non ho più soldi per curarla» continua il padre.
L’Aids colpisce senza guardare in faccia nessuno: lo sanno bene i malati, i medici e i volontari al John Hospice; ogni giorno lottano per ridare un volto sereno alla vita e alla morte.
Mami Monica è una delle 75 caregivers (assistenti volontari) che a Kafue partecipano al Community Home Based Care Program (programma di assistenza domiciliare comunitario). Vi collabora dal 1993, quando, dopo la morte del marito si è trasferita a Kafue, dove oggi vive con la famiglia. Abita nel Chawama compound, un quartiere povero ma dignitoso, con piccole case di mattoni, circondate dagli alberi di mango, non ammassate ma disposte ordinatamente.
I l Community Home Based Care Program dell’arcidiocesi di Lusaka nasce ufficialmente nel 1994 per dare una struttura di cornordinamento a tutti i progetti nati spontaneamente sul territorio per combattere il dilagante problema dell’Hiv. Già alla fine degli anni ’80, infatti, all’interno di alcune comunità erano nati i primi gruppi di volontari che nel 1992 iniziarono le prime attività assistenziali. Due anni dopo, i responsabili sentirono l’esigenza di unificare gli sforzi, dando vita ad un unico grande progetto.
Oggi il programma è una realtà consolidata che conta sessanta sedi e coinvolge circa 3.500 volontari, offrendo assistenza domiciliare a 12 mila persone.
Il Community Home Based Care Program prevede 5 aree d’intervento: assistenziale, medica, formativa, amministrativa e assistenza agli orfani. Ogni area ha un suo supervisore.
«Il nostro obiettivo – afferma Kennedy Mpandamwike, responsabile del programma – è quello di fornire alla persona un’assistenza olistica (holistic care), ovvero un intervento che non mira soltanto alla cura fisica e materiale della persona, ma anche a quella spirituale e psicologica».
Un aspetto importante del programma è quello della prevenzione. È stato infatti attivato un progetto sul cambiamento delle abitudini, che prevede una formazione sulla sessualità responsabile. Le varie sedi sono legate alle realtà parrocchiali dell’arcidiocesi e sono gestite da un manager agent e da un cornordinatore.
L’organizzazione opera sul territorio attraverso dei volontari, i «caregivers». Ogni volontario assiste tre o quattro pazienti che visita regolarmente due o tre volte alla settimana. I volontari devono necessariamente operare nella zona in cui abitano. «È bello pensare che una persona si prenda cura di chi gli vive accanto – afferma Kennedy Mpandamwike -; questo ci permette di contare su persone che conoscono approfonditamente le situazioni in cui sono chiamati ad operare».
Il programma prevede la distribuzione gratuita di cibo e di medicine: le medicine per i malati di Tbc sono finanziate dall’Organizzazione mondiale della sanità. I volontari sono seguiti nella loro attività dai vari responsabili che organizzano momenti periodici di verifica. Alcuni di questi incontri prevedono attività di formazione con psicologi e religiosi.
Il personale del programma non è interamente volontario ma vi sono anche medici e infermieri stipendiati. A loro, però, è chiesto, prima di essere assunti, di svolgere tre mesi di volontariato in modo da iniziare a conoscere le dinamiche dell’organizzazione. L’intero progetto è finanziato da donazioni provenienti da varie Ong, come Cafod, Cristian Aid, Comice Relief (Inghilterra), Misereor (Germania), Catholic Relief Service (Usa) e Irish Aid (Irlanda).
A rriviamo alla casa di Mami Monica percorrendo la strada principale che collega Lusaka a Kafue. Poche centinaia di metri dopo il centro della città svoltiamo a sinistra imboccando una strada sterrata.
Mami Monica ci attende davanti alla porta di casa e ci invita ad entrare. Insieme a lei c’è Moses, un altro volontario. Ci accomodiamo nel piccolo salotto. Alle pareti sono appese le foto della sua numerosa famiglia (3 figli, 6 figlie e 24 nipoti), accanto al poster di Ronaldo.
«Non è facile trovare il tempo di assistere queste persone e per noi donne è ancora più dura, ma è una cosa che sentiamo dentro» ci confida Monica. Lei infatti, come la maggior parte delle donne di Kafue, è costretta a lavorare per poter sfamare la famiglia. Gestisce un piccolo banchetto al mercato del compound, dove vende legumi e pomodori.
Moses ci racconta del particolare legame che con il tempo si riesce ad instaurare con il paziente e i suoi familiari. «Quando vai da loro, gli dai la luce» ripete.
Seguiamo i due caregivers lungo la strada che porta verso Cassengere, il compound vicino a Chawama, dove si trova la casa della prima assistita: si chiama Rosebanda. L’abitazione è formata da un’unica piccola stanza, coperta da un tetto di lamiera, che rende l’aria soffocante. Ad attenderci sulla porta troviamo il marito e una vicina di casa. Entriamo nella stanza e troviamo la paziente seduta sul letto. È malata di Tbc e da alcuni giorni non riesce a mangiare. La Tbc ha attecchito facilmente nel suo corpo debilitato dall’Aids.
Monica si siede accanto a lei e le tiene la mano. Ad un tratto la donna comincia a piangere: la sua unica figlia, che vive a Lusaka, si rifiuta di venirla a trovare. L’Aids è ancora troppo spesso visto come uno stigma, una colpa, un qualcosa di cui vergognarsi. Monica cerca di consolarla sussurrandogli alcune parole all’orecchio. Non comprendiamo il senso di queste parole, ma il suo sguardo e le carezze sono quelle di una madre che accudisce il proprio bambino.
Dopo alcuni minuti Monica afferra la borsa ed estrae un pacco di farina arricchita con vitamine e zuccheri e lo consegna al marito della donna. Prima di uscire sostiamo un attimo in silenzio e Moses pronuncia una preghiera per la donna. «Signore ti preghiamo aiuta questa donna, sappiamo che a te nulla è impossibile» sospira a bassa voce.
Oltre a portare cibo e medicinali, insieme al sostegno psicologico, i caregivers aiutano i familiari dei malati nelle faccende domestiche. «Il nostro ruolo – spiega Moses usciti dalla casa – è sempre quello di mettere in contatto queste persone lasciate sole con i parenti. Vedere la famiglia che si riavvicina al malato è una cosa meravigliosa».
R iprendiamo il cammino lungo la strada in salita e arriviamo alla casa del secondo paziente. È assistita da una delle figlie, anch’essa malata di Aids.
Mami Monica e Moses si siedono vicino alla donna e conversano con lei. Quindi la caregiver estrae dalla borsa farina, medicine e un unguento e consegna tutto alla figlia. Dopo aver invocato l’aiuto di Dio, usciamo per continuare il cammino e visitare l’ultima casa.
Vi arriviamo in pochi minuti, ma la donna che dovevamo incontrare sta riposando. Monica decide di proseguire verso casa; ci toerà più tardi. Imbocchiamo un sentirnero in discesa che dalla collina ci riporta verso il nostro pulmino. Salutiamo e ringraziamo Mami Monica e Moses. Prima di lasciarci chiediamo a Moses qual è il significato della parola Chawama. «Cosa buona» risponde sorridendo. Non poteva essere altrimenti.
BOX 1
JOHN HOSPICE
Al John Hospice si va per morire, ma si va anche per imparare a vivere. Per 4 mesi, uomini, donne e bambini vengono accolti nell’ospedale per affrontare serenamente la malattia in ogni stadio della sua evoluzione. I pazienti vengono curati e assistiti nello spirito che anima il progetto Kara Counselling.Nato inizialmente come consultorio, questo progetto, di cui John Hospice fa parte, si è espanso fino alla creazione di ospedali che danno la possibilità ai malati più gravi di ottenere le cure necessarie a una degna sopravvivenza, o a una morte dignitosa, quelle cure che l’home based care non può arrivare a fornire.
Grazie al sostegno di vari donatori, come le fondazioni Elthon John, Bill Clinton, Christian Aid e Comice Relief, possono essere effettuate analisi, come i Cd-4, e somministrate medicine costose, garantendo un miglioramento delle condizioni del paziente.
«Sta molto meglio grazie alle cure, prima di venire qui era irriconoscibile» dice Josef, mentre accarezza i capelli della sua bimba di soli 4 anni, che porta ancora intorno alla bocca i segni devastanti della malattia. Tanti bambini come lei hanno riavuto la possibilità di vivere una vita normale, almeno per un poco. «Ma tra qualche giorno dobbiamo andare via e non ho più soldi per curarla» continua il padre.
L’Aids colpisce senza guardare in faccia nessuno: lo sanno bene i malati, i medici e i volontari al John Hospice; ogni giorno lottano per ridare un volto sereno alla vita e alla morte.
Michele Luppi