DOSSIER ZAMBIAIl treno della globalizzazione
La business community zambiana, formata da uomini e donne d’affari, dipinge il paese come un cantiere aperto, dove le possibilità sono molte e i progressi tangibili. Ma dietro al 5% di crescita del Pil, si impongono altri numeri, con cui 9 milioni di zambiani su 10 devono fare i conti.
«Benvenuti in Zambia, paradiso degli investitori. Lusaka Stock Exchange, un motore della crescita economica. Diventa azionista oggi!». La borsa di Lusaka vuole fare colpo su chi conta. Per questo ha comprato lo spazio pubblicitario sopra le casupole del controllo-passaporti all’aeroporto di Lusaka. Le valigie arrivano subito, i carrelli sono lì, pronti. Al tavolo dei finanzieri si aspetta pochissimo e la domanda «qualcosa da dichiarare?» è più che altro una formalità. Di militari, neanche l’ombra. Pochi e defilati i poliziotti.
Fuori, nel parcheggio e tra le aiuole, i taxi blu sono a disposizione per portarti in centro. Lungo il percorso dall’Airport road alle vie commerciali che sfociano nella centralissima Cairo road, c’è una sfilata di cartelloni pubblicitari. Fondi pensione, servizi finanziari e assicurazioni offrono alti rendimenti e un futuro tranquillo a chi rientra nell’esclusivo club di chi ha soldi.
PARADISO DEGLI INVESTITORI
E ci sono anche le pubblicità dei telefonini, della fresca birra Mosi e della Parmalat, mentre la Chilanga Cement esibisce un possente operaio culturista, pronto a cementificare tutto il paese. Questi cartelloni sono l’emblema di un’economia dinamica, in costruzione, di un’Africa che non vuole arrivare in ritardo, ma competere e sedersi al banchetto dell’economia globale.
Sono più di 10 anni che nel paese c’è un’economia di mercato. La business community zambiana, formata da uomini e donne d’affari, dipinge il paese come un cantiere aperto, dove le possibilità sono molte e i progressi sono tangibili. E anche remunerativi.
Girando il paese questa verità viene fuori, come la faccia luminosa della luna. Il prodotto interno lordo annuale è di oltre 4 miliardi di dollari. Secondo i calcoli dell’ultima legge finanziaria, nel 2004 il Pil ha quasi replicato la crescita dello scorso anno pari al 5%, un tasso che desterebbe l’invidia di molti governi del nord del mondo, e che non sembra destinato a scendere.
«Negli ultimi anni l’economia è migliorata. Stanno arrivando più investitori stranieri e prodotti di alta qualità, che competono con quelli locali» dice Sherry Thole, direttore generale della banca Intermarket, accogliendoci nella sala consigliare ovale al primo piano della Farmers House. Il palazzo è in pieno centro. La sala è piacevolmente climatizzata e attraverso il vetro fumé si intravvede scorrere il traffico polveroso.
È dal 1991 che in Zambia è stata introdotta un’economia di mercato, ci spiega. Prima c’era un sistema socialista. Poi le imprese statali sono state smantellate da un massiccio programma di privatizzazioni e i gruppi stranieri, sudafricani in primis, sono quelli che riescono a cogliere meglio le opportunità di investimento. Inoltre, i tassi di interesse sono scesi e ora consentono alle imprese di ottenere prestiti a costi ragionevoli.
Faustine Kabwe, fiscalista e consulente di livello internazionale, è ottimista circa le prospettive di crescita del suo paese e dell’Africa in generale. «Investire in Africa – dice – è estremamente profittevole». Ovviamente anche lui parla dell’economia emersa; di quella misurabile dalle statistiche. Di quella che si quota al Lusaka Stock Exchange (Luse).
I settori che oggi trainano l’economia sono il turismo (ne è un esempio il boom che sta attraversando la città di Livingstone, l’ex capitale che ora sembra rivivere una seconda primavera); l’agricoltura con il fiorente business dei fiori per l’esportazione; e anche le miniere di rame che beneficiano del recente recupero dei prezzi.
Stando alle classificazioni settoriali dell’ufficio di statistica, nel biennio 2003-2004, il settore costruzioni ha evidenziato una crescita di oltre il 30%, seguito dall’industria estrattiva e del cemento (+17%), dal comparto manufatturiero (+12,7%), mentre il settore turistico, alberghi, bar e ristoranti inclusi, è salito del 12%. Fanalino di coda, con un più 2,2%, sono i servizi sociali e alla persona.
L’ECONOMIA INFORMALE
Ma la luna ha anche una faccia oscura, che in questo caso è molto più grande di quella che brilla. Dietro a questo 5% di crescita del Pil, si impongono infatti altri numeri che danno presto l’idea della difficile realtà con cui 9 milioni di zambiani su 10 devono fare i conti.
Il tasso di disoccupazione oscilla tra il 60 e l’80% e il costo della vita raddoppia ogni 5 anni. I contrasti restano forti, perché l’economia di mercato è riuscita ad apportare i suoi benefici solo a pochi.
La Thole, sui quaranta, donna raffinata, studi universitari, una carriera che l’ha vista lavorare nella Banca centrale e nel colosso finanziario britannico Barclays, è tra questi pochi. Lo è anche Kabwe, con una vita tra Londra, Lusaka e New York. Entrambi fanno parte della classe dirigente del paese, di quelli che hanno un posto prenotato sul treno della globalizzazione.
Ma la gente comune sta fuori, aggrappata alle carrozze: per vivere si arrangia, giorno per giorno. Si chiama economia informale. Per incontrarla basta uscire da Farmers House e percorrere Cairo Road, la strada che nei disegni coloniali doveva unire Il Cairo a Città del Capo. A ogni angolo c’è qualche donna avvolta nel chitenge (il vestito tradizionale), che vende pomodori, manghi, o altre piccole cose.
Al City Market, il mercato coperto di Lusaka, sciami di giovani ragazzotti smerciano sacchetti di plastica, con su stampata l’effigie di Rambo. Mentre c’è anche chi passa la giornata in un colorato chiosco di legno, dove affitta il suo telefono cellulare. Vicino alla ferrovia o lungo le strade si incontrano le donne spaccasassi. Loro per vivere spaccano pietre per fare la ghiaia. Sono l’ultimo anello di quella catena che è la fiorente industria delle costruzioni.
Ma anche chi trova un posto di lavoro sicuro, non può stare tranquillo. Henry Mwango un tempo era impiegato all’Olivetti. Aggiustava macchine da scrivere ed era felice. Poi l’azienda ha chiuso i suoi uffici in Zambia e lui si è trovato solo a fronteggiare il grande salto tecnologico verso il personal computer. Non ce l’ha fatta. Da più di dieci anni è disoccupato.
La maggior parte delle famiglie vive con un reddito estremamente basso. I soldi che entrano sono spesi in gran parte per mangiare, poi viene il resto. E spesso i primi a fae le spese sono i bambini. «Non ho i soldi» è la risposta di Susan Mwandu per spiegarci perché non riesce a mandare a scuola tutti i suoi 9 figli. Lei deve occuparsi anche della madre malata, due nipoti e il marito disoccupato. I pochi euro al giorno della sua attività di venditrice di pomodori non bastano.
DAL SOGNO SOCIALISTA DI KAUNDA
ALLE PRIVATIZZAZIONI DI CHILUBA
La storia economica dello Zambia, come paese libero dal dominio coloniale britannico, comincia 40 anni fa. Le condizioni generali non potevano essere più favorevoli: lotta per l’indipendenza breve e poco cruenta, prezzi del rame altissimi, consistenti aiuti inteazionali.
In questa situazione il padre della nazione, Kenneth Kaunda, poté fare pesanti investimenti nell’educazione e nel sociale. Kafue con la sua industria chimica che garantiva occupazione per tutti era una città modello. Vivibile e ordinata. Le miniere statali nel Copperbelt, oltre a dare lavoro, costruivano ospedali, strade, e scuole per la popolazione.
Ma il «sogno socialista» di Kaunda non durò molto. Negli anni ‘70 i prezzi delle materie prime, tra cui il rame (vitale per lo Zambia), crollarono, mentre le tensioni geopolitiche inteazionali spingevano il petrolio alle stelle.
L’impatto fu devastante per tutti i paesi dell’Africa, impegnati in quegli anni nella titanica impresa di diversificare la propria economia, per coniugare l’indipendenza politica con quella economica. In Zambia, le politiche di spesa pubblica continuarono, alimentandosi con deficit sempre maggiori. Alla fine degli anni ‘80 il debito pubblico era salito a livelli insostenibili.
Nel 1991 con l’avvento del multi-partitismo, il nuovo presidente, il sindacalista Frederick Chiluba, diede avvio a un aggressivo e controverso piano di privatizzazioni. Il paese si è aperto così ai capitali e alle merci straniere. Sotto le pressioni del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, miniere, industria del cemento e altri pezzi dell’apparato parastatale furono ceduti ai privati. In qualche caso vi furono delle vere e proprie liquidazioni.
Quel che ne seguì fu un rapido aumento della disoccupazione e un allargamento del divario tra poveri e ricchi. Oggi gli impianti chimici di Kafue sono pressoché improduttivi, mentre nei compound di Ndola e Kitwe, nel Copperbelt, i servizi sociali e pubblici di una volta non sono che un miraggio.
PRIVATIZZAZIONI SOTTO LA LENTE
Nel 1992 nasceva la Zambian Privatisation Agency (Zpa), l’ente per le privatizzazioni. Da allora più di 250 società pubbliche sono state cedute. Ma l’attività della Zpa va avanti e rimane ancora un lungo elenco di aziende in vendita: telecom, azienda elettrica, poste, alcuni tratti di ferrovia, assicurazioni…
È la Zpa che dà il via libera a ogni transazione e che affida a esperti (avvocati o altri professionisti) i negoziati con i privati. Il governo decide invece quali società pubbliche vendere e in che tempi. Dopo i negoziati, il team di esperti fa una raccomandazione che la Zpa generalmente approva, tenendo conto del prezzo, competenze e altri fattori.
Finora il bilancio economico delle privatizzazioni è contrastato. Talvolta l’azienda da cedere era talmente malgestita che era difficile trovare un compratore, ma in altri casi la fretta ha portato a delle vere e proprie svendite. Il caso più eclatante di regalo fu quello del cemento: la Chilanga Cement. Ora l’industria cementifera è controllata dal colosso francese Lafarge, che comprò nel 2000 dalla CDC Capital Partners, che a sua volta aveva comprato a un prezzo stracciato. Ora Lafarge detiene un’importante fetta del settore cementifero dell’Africa australe. Altra svendita fu quella della compagnia dello zucchero. Adesso è in mano ai sudafricani.
Menzione a parte meritano le miniere di rame, pilastro dell’economia zambiana. Esse furono cedute in ritardo a causa delle loro implicazioni sociali, ma soprattutto per i delicati equilibri politici che celavano. Quando vennero vendute, però, era veramente il momento sbagliato. I prezzi del rame erano vicini ai minimi storici.
Anche i più convinti assertori dell’economia di mercato ora lo riconoscono e fanno luce sulle pressioni degli organismi inteazionali. La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale erano creditori del governo e non avevano più intenzione di concedere ulteriori finanziamenti. Visto che il bilancio pubblico era in perdita, era necessario che il governo trovasse in fretta altre risorse per ripagare i propri debiti. La vendita dei giornielli di famiglia venne presentata come l’unica strada percorribile.
I PREZZI VOLANTI
I prezzi in Zambia sono un’entità fluttuante, sfuggente. Oggi con un’inflazione al 20% (in Italia è attorno al 2%) non può che essere così. Una decina di anni fa la situazione era anche peggiore.
La percezione del costo della vita dipende, però, da quanto si guadagna. Nel paese delle cascate e delle miniere, la gamma è molto ampia. Si va dalle diverse migliaia di euro al mese del funzionario dell’Unione europea ai 35 euro che un casual worker si deve far bastare per la moglie e i sei figli a carico. Un insegnante si prende 50 euro.
C’è poi una grande differenza tra chi guadagna in kwacha, la moneta nazionale, e chi in valuta estera. Chi ha dollari, euro o rand sudafricani non deve preoccuparsi più di tanto dell’inflazione.
Proprio l’incremento vertiginoso dei prezzi ha fatto diventare le monete di metallo una rarità: sono letteralmente sparite dalla circolazione. Di metallo sono rimasti solo i gettoni telefonici, ormai minacciati anch’essi di estinzione dal diffondersi dei cellulari. Gira soltanto carta, molta carta. Per comprarti un biglietto dell’autobus devi tirar fuori un malloppo di bigliettoni. Si va dal pezzo da venti ai tagli da cinquecento, mille, diecimila e cinquantamila kwacha. Un euro sono seimila kwacha, un dollaro circa quattromila.
Ma quanto costa la vita? Ancora una volta dipende. A Lusaka se hai la Visa, o l’American Express puoi andare nei centri commerciali Arcades o Shoprite. Altrimenti vai negli affollatissimi City Market e Soweto Market, per le strade o nei piccoli mercatini dei quartieri popolari. Qui si può contrattare.
La maggior parte delle persone in Zambia vive con quei 35-50 euro al mese, circa 200-250 mila kwacha. Con un reddito così, beni come un computer (20 mesi di lavoro), un set di mazze da golf (10 mesi), gioco della playstation (2 mesi), scarpe da calcio (1 mese), sono inaccessibili.
Quello che si può fare con un reddito così è affittarsi una casa in un compound. A Lusaka costa circa 50 mila kwacha al mese. Il resto viene speso per mangiare. Nshima (polenta) e fagioli sono l’alimento base. Con quello che avanza si possono mandare i figli a scuola. Ma non al prestigioso Baobab college, dove un trimestre costa oltre mille dollari. Ossia quattro milioni di kwacha. •
BOX 1
Spaccapietre
SPACCAPIETRE
Strade affollate, clacson che suonano, voci, e là, in mezzo alla gente, nella confusione, riesci a scorgere, quasi fossero celate da una tenda invisibile che le nasconde dallo sguardo dei curiosi, loro, quelle donne che con pazienza e dignità, ogni giorno, spezzano con un movimento sincronizzato le pietre che la loro terra regala o, a seconda dei punti di vista, loro sottraggono ad essa.
Sono centinaia le donne di Lusaka che si guadagnano il pane quotidiano con questo strano mestiere, spaccano pietre, in diversi formati, per venderle ai costruttori, 2.000 kwacha a sacchetto, (circa mezzo euro) così sfamano le loro famiglie, così passano le loro giornate, sotto un sole cocente, tra la polvere, colpendo ritmicamente con un martelletto le grandi pietre grigie, quel grigio che ricopre tutto e che contrasta con il colore della loro pelle, dei loro vestiti, dei loro sogni.
Elena Martelli
Danilo Masoni