Nel 1999 il 20% della popolazione era infetta; solo l’1% può accedere alla cura antiretrovirale; 1 milione i bambini orfani a causa della malattia. La generazione tra i 25-40 anni è decimata.
Malata di tubercolosi, magrissima, Rose, 42 anni, non mangia perché non riesce a deglutire, spesso vomita. La figlia abita vicino, ma non va mai a trovarla. Si vergogna. Della tubercolosi? No! La tbc è probabilmente solo una complicazione dell’abbassamento delle difese immunitarie dovuto all’Hiv. In altre parole, dell’Aids, la nuova «peste» che sta devastando l’Africa meridionale, portandosi via piano piano tutte le risorse migliori.
Gli stati dell’Africa australe contano le più alte percentuali di infezioni da Hiv/Aids al mondo. Lo Zambia è uno dei paesi più colpiti. Il 42% delle donne in età fertile sono sieropositive, con alto rischio in caso di gravidanza. Il 90% dei bimbi sieropositivi contrae il virus dalla madre.
Fino al 1999 il 20% dell’intera popolazione dello Zambia era sieropositivo; oggi la percentuale è scesa al 16%: l’abbassamento è dovuto all’incremento dei morti, ma anche alla minore incidenza dell’infezione, grazie al molto lavoro di prevenzione fatto in questi anni, sia sul piano dell’informazione che su quello della prevenzione più strettamente medica.
Ma il rischio persiste, anche per tutti coloro che necessitano di sangue, perché i sistemi di trasfusione sono poco sicuri.
In Zambia la gente è abituata a convivere con la morte. L’età media della popolazione è 42 anni. Si muore per dissenteria, per un’eia, un’appendicite, di parto, per quelle che in Europa sono semplici indisposizioni e per complicazioni alle quali gli ospedali locali, per carenza di attrezzature o farmaci, non riescono a far fronte. La radiografia è rotta, il paziente muore. Il liquido della flebo entra in circolo troppo velocemente, il paziente muore.
Il 10% dei bambini non arriva a un anno; il 17% muore prima dei cinque, soprattutto per malaria (428 casi su mille) e tubercolosi (180 casi su mille). I bambini che riescono a sopravvivere spesso soffrono di patologie legate alla malnutrizione.
È l’emergenza sanitaria, alla quale lo Zambia deve fare fronte con 756 medici governativi (uno ogni 13.200 abitanti nelle città e uno ogni 40 mila nelle aree rurali; in Italia ce n’è uno ogni 100 abitanti) e 10.500 tra infermieri e paramedici (1 ogni 10 mila abitanti). Una delle tante conseguenze della povertà.
L’altissimo debito estero, oltre 7 miliardi di dollari, continua infatti a sottrarre fondi alle strutture sanitarie e sociali. Il bilancio del Ministero della salute per il 2003 è stato di circa 83 milioni di euro all’anno, 8 euro a persona.
Conseguenze sociali
Stigma e discriminazione non permettono a chi è sieropositivo di condurre una vita «normale». La generazione dei 25-40enni, quindi la fascia attiva e più colpita, è decimata, con conseguenze devastanti sui minori.
Negli ultimi anni il numero degli orfani in Zambia è aumentato a dismisura: oggi i minorenni che hanno perso uno o entrambi i genitori sono oltre un milione: il 10% del totale della popolazione. Di questi, circa 630 mila sono rimasti orfani a causa dell’Aids, che colpisce in particolar modo le persone fra i 25 e i 40 anni.
Più del 50% dei bambini senza genitori ha meno di 15 anni. Fra i bambini che frequentano la scuola, gli orfani sono il 48%.
Nel paese non esistono strutture destinate a ospitare i bambini che hanno perso i genitori: fino a pochi anni fa, erano i nonni o gli zii a farsi carico di loro, accogliendoli in famiglia. Oggi questo passaggio non è più «automatico»: il numero degli orfani continua a crescere e spesso le reti parentali non riescono a sostenere da sole tutti i bambini che si ritrovano senza genitori. Ci sono nonni che, ritrovandosi con cinque o più nipoti orfani, riescono ad accogliee in casa solo due o tre, lasciando «sulla strada» gli altri.
Le comunità parrocchiali si stanno interrogando sul «problema orfani» che si pone in questo momento con grave urgenza. Una delle risposte possibili è quella di affidare gli orfani a coppie o vedove che già hanno figli propri, ma che scelgono di «allargare» la loro famiglia. In cambio della loro disponibilità queste persone ricevono dalla parrocchia un contributo per poter sostenere i figli adottivi.
INIZIATIVE PROMOSSE
L’attenzione verso il problema dell’Aids è alta; numerose sono le iniziative sia da parte dello stato, per quanto riguarda le campagne di prevenzione, sia da parte della comunità sociale.
Tali programmi di prevenzione promuovono e incoraggiano l’apertura e il riconoscimento pubblico della malattia, ma c’è ancora molta strada da fare in tal senso. Non è raro che all’interno dello stesso nucleo familiare non si sia a conoscenza della malattia di uno dei membri. Soprattutto nelle zone rurali o nei compound, la malattia è tenuta ancora nascosta, sia per evitare di essere vittime di ghettizzazione, sia perché, dichiarando di essere infetti da tubercolosi (prima e quasi certa conseguenza dell’infezione) e non da Hiv, si è certi di accedere al programma nazionale almeno per la cura della Tbc.
Alle carenze dello stato tentano di supplire le organizzazioni di volontariato e i missionari. Si occupano degli orfani, organizzano scuole comunitarie per garantire l’istruzione di base, aprono ospedali, promuovono campagne di informazione contro l’Hiv, sostengono i care giver, i volontari locali che 2-3 volte a settimana percorrono chilometri a piedi per dare assistenza a domicilio ai malati cronici.
Per fortuna la Zambia ha i suoi angeli custodi (vedi riquadro). Ne abbiamo incontrati due: Astrid Paganini e suor Egidia Di Luca, francescana missionaria, infermiera, presente dal 1960.
Suor Egidia è la responsabile dell’unico ospedale ortopedico, situato nella capitale Lusaka. «Abbiamo cominciato nel ‘95 con 6 posti letto: ora sono 40 – spiega -. Dal 1995 a giugno 2004, sono state effettuate 5.500 operazioni. Ai malati diamo cibo e assistenza, a volte anche il trasporto per riportarli a casa. Per i bambini è tutto gratuito. Facciamo anche le protesi».
Astrid, medico, presente dal 2003 con il marito e i quattro figli, lavora volontariamente nell’ospedale distrettuale governativo di Kafue, a un’ora di strada da Lusaka. Le domandiamo come si difende il paese dall’Aids. «Si promuovono molte campagne di sensibilizzazione, anche le strade sono piene di cartelli informativi, ma non è facile, perché prima di tutto si tratta di un problema culturale. La gente sa che può evitare il contagio con il preservativo, ma lo usa troppo poco. Innanzitutto, perché impedisce la procreazione. Poi perché è difficile associare un atto con una malattia, che magari si manifesta molti anni dopo.
Le conseguenze non sono immediatamente evidenti. A volte chi decide per il test è già all’ultimo stadio e non possiamo fare più nulla. Ma anche verso il test c’è una certa disaffezione. Le donne temono le ire dei mariti che, in caso di sieropositività, le accuserebbero sicuramente di infedeltà coniugale. La morte, poi, in ogni caso, arriva in giovane età. La si accetta con serena rassegnazione. Per la gente sapere che è sopraggiunta a causa dell’Aids o di qualcos’altro è uguale. Anzi, a volte preferisce che l’Aids non venga diagnosticato, perché servirebbe solo a provocare depressione, viste le difficoltà di cura.
Nel paese solo 15 mila pazienti, l’1% di tutti i malati, sono curati con farmaci antiretrovirali, in grado di rallentare la progressione della malattia. Ogni ospedale aderisce a un programma per ridurre la trasmissione del virus da madre a figlio; questo tipo di cura nel 50% dei casi ha successo, ma è molto costosa. Un mese di cura per una persona costa 8 dollari, sempre troppo per una popolazione il cui 75% vive con meno di un euro al giorno.
I tre pilastri su cui si basano le campagne di prevenzione sono: ABC, ovvero A come astinenza; B come be faithful (fedeltà coniugale); in ultima istanza, C come condom. Bisognerebbe cominciare nelle scuole a insegnare la prevenzione; e bisognerebbe utilizzare maggiormente il counseling, servizio di consulenza per le coppie, visto che l’Hiv ha molte implicazioni, non solo legate alla salute, ma anche all’impatto sociale».
Il governo ha diviso lo Zambia in distretti sanitari, a ognuno dei quali destina mensilmente dei soldi. C’è un ufficio distrettuale dove sono situate la direzione generale e la logistica. In ogni distretto ci sono alcuni health centers, che funzionano come i medici di base. Rappresentano il primo gradino del sistema sanitario al quale ci si deve sottoporre obbligatoriamente. Solo se non si è riusciti a risolvere il problema lì, si ricorre all’ospedale.
Una «piaga» dello Zambia è la cosiddetta «fuga dei cervelli». Medici e infermieri sono attratti dagli stipendi più elevati offerti dai paesi circostanti e anche dall’Europa. Chi rimane, o è professionalmente meno bravo, o comunque è meno motivato.
L’ospedale dove opera Astrid è l’unico in un distretto di 240 mila abitanti. Vi lavorano 110 persone tra personale sanitario e non. La struttura è sorta nel settembre 2003 per volere di don Antonio Novazzi e della comunità. Accoglie, in quattro reparti distinti, uomini, donne, bambini e puerpere. Nonostante questo, il 50% delle donne ancora partorisce in casa con l’aiuto di altre donne. Ci sono: laboratorio, radiologia, sala operatoria, cappella per i funerali, perché sarebbe molto più oneroso per i familiari trasportare i morti altrove.
Facendo di necessità virtù, don Antonio ha avviato una falegnameria, dove vengono costruite bare e vendute a costo simbolico, così che tutti possano avere una sepoltura dignitosa. Lavorare in questa terra significa anche questo.
BOX 1
WILLY AMISI
Il giorno della laurea erano in 84, ora in Zambia sono rimasti solo in 12. Gli altri colleghi hanno lasciato il paese, preferendo Europa e Stati Uniti.
Epidemiologo, 33 anni, madre congolese e padre zambiano, sorriso aperto, il dott. Amisi ha fatto gli studi superiori in Belgio, dove ha trascorso l’adolescenza al seguito del padre diplomatico. Ha una laurea in medicina, conseguita all’Università dello Zambia in 6 anni anziché nei 7 di corso, una specializzazione in epidemiologia, ottenuta in Giappone grazie a una borsa di studio.
«Dopo aver visto tanti paesi e conosciuto diverse realtà, ho deciso di tornare a esercitare la professione di medico in Zambia». Se gli si chiede il perché, il suo sorriso diventa più luminoso: «Devo essere onesto: questa è la mia patria e questo è il mio paese, mi sembra giusto stare qui. Ma soprattutto qui ho possibilità che altrove i miei colleghi non hanno».
Il suo stipendio è molto più basso di quello di un medico che eserciti in un ospedale europeo, ma qui egli ha la possibilità di fare ricerca. Inoltre è membro della Southen Africa Hiv Clinic and Society, associazione professionale che decide sui protocolli di trattamento dei malati di Aids, terapie e distribuzione delle medicine nella zona dell’Africa meridionale, membro di vari comitati e associazioni sanitarie nazionali.
«Lo so – dice sempre senza malizia -, forse un discorso del genere mi fa sembrare un imperatore. Una volta laureato ho fatto un anno di inteato presso l’ospedale universitario di Lusaka. Avevo scelto: avrei esercitato in una realtà statale o comunitaria. Volevo avere contatto con la gente che quotidianamente si rivolge a un ospedale. La situazione sanitaria dello Zambia è grave, moltissimi sono i malati di Aids e coloro che arrivano in ospedale quando è troppo tardi o che non arrivano affatto. Il mio lavoro vuole soprattutto basarsi sulla prevenzione. È mia ambizione portare la salute prima che la gente si ammali. In Africa non basta curare; bisoga fare in modo che sempre meno persone si ammalino».
Poi il volto di Willy Amisi si oscura un poco: «Ho scelto il mio paese perché credo fermamente che altrove non potrei stare bene come qui, perché credo che il mio destino mi voglia qui; ma vedo in Zambia tanti problemi che stentano a trovare una soluzione. Mancano farmaci, strutture, infermiere, ma si assiste a grandi sprechi. C’è chi ha grandi automobili e chi non può pagare le medicine, chi muore perché non c’è il farmaco che lo curi. Amo la politica privata e far sapere la mia opinione, ma non amo i partiti e la politica politicante, non è quella che farà il futuro dello Zambia».
Benedetta Musumeci
BOX 2
Angeli custodi
Astrid Medema è nata in Olanda 38 anni fa. Sposata con il milanese Franco Paganini, madre di 4 figli, medico dal 1992, con un corso di formazione per lavorare negli ospedali rurali del Sud del mondo, è in Zambia dal settembre 2003, dopo una precedente esperienza nel 1995. Conta di fermarsi nel paese per 2-3 anni.
Un bell’impegno per una madre di quattro figli.
«Ancora prima di scegliere di fare medicina, sapevo di voler andare nel Sud del mondo. L’ho messo subito in chiaro quando ho incontrato mio marito. E lui mi ha capito. Ai figli qualche volta mancano l’Italia, i nonni, la televisione… ma si sono integrati bene. Vanno a scuola con i ragazzi del posto, hanno i loro amici».
Cosa significa essere medico in un paese del Sud del mondo?
«Mi piace molto il mio lavoro e sono convinta di essere molto più utile qui che in Europa. È dura, perché il carico di lavoro è enorme. Siamo solo due medici nell’ospedale e facciamo un po’ di tutto, dalla logistica alla contabilità. Poi c’è l’aspetto psicologico. Ci sono situazioni per le quali non ti senti all’altezza. Vedi persone che muoiono quando sai che in altri paesi si potrebbe salvarle. Allora ti senti addosso una grande responsabilità. A volte ti scoraggi, perché mancano i mezzi; tante volte mi è capitato di piangere perché non ce l’ho fatta. A forza di rapportarsi alla morte, si diventa più duri, più cinici. Altrimenti non si potrebbe continuare a lavorare. Ma se uno sceglie medicina, dovrebbe venire qui a svolgere il suo lavoro. Qui se non ci sei tu, non c’è nessun altro».
Suor Egidia Di Luca è in Zambia da 44 anni. È arrivata nel febbraio 1960 quando aveva appena 19 anni. È originaria di San Cipriano d’Aversa (CE) e dal 1958 appartiene alla congregazione delle suore francescane missionarie di Assisi. Partita da Venezia in nave con due consorelle, è giunta a Beira in Mozambico dopo 19 giorni di navigazione. Un viaggio lungo e disagevole e pochissime informazioni sulla destinazione.
L’impatto con l’Africa è stato duro?
«Non conoscevamo la lingua; eravamo in una casetta nella foresta, senza luce, con pochi farmaci e tantissima gente che veniva a farsi curare. Di giorno eravamo infermiere e di notte sarte, per vestire i bambini, quasi tutti nudi. Ci sono stati anche momenti brutti. In un periodo venivamo continuamente attaccate: rubavano, ci tagliavano i fili del telefono… Quella volta ho rischiato l’esaurimento e sono tornata in Italia per un po’. In Italia ho avuto un incidente gravissimo: quattro mesi di ospedale e un anno per riprendermi. Mi sconsigliavano di tornare in Africa, ma questa è la mia casa».
Grazie al diploma di infermiera, dal 1995 suor Egidia gestisce l’unico ospedale ortopedico dello Zambia, che si trova nella capitale. «Quando mi sono ripresa dall’incidente, sono ripartita. Arrivata qui, ha cominciato a farsi strada l’idea dell’ospedale. Abbiamo acquistato un edificio dell’ex presidente Kaunda e poi, un po’ alla volta, l’abbiamo fatto ristrutturare. Le prime operazioni i medici le facevano in ginocchio, per terra. Poi le cose sono migliorate. Abbiamo avuto molti contributi dall’estero».
Una vita lontana dal paese di origine e dai propri cari, mai pentita?
«Ora che sono anziana (64 anni, ndr) sento di più la fatica, ma non mi sono mai pentita della scelta. Quando ho deciso di partire avevo 19 anni e i miei genitori non erano d’accordo. Il distacco è stato difficile; ero molto legata a mamma e papà. Quando la nave si è staccata dal porto sembrava che mi si spezzasse il cuore. Mio padre mi guardava impietrito. Poi, nel tempo, è passata. Ho trascorso quasi tutta la vita in Zambia, con tanta soddisfazione, anche perché la gente mi ha sempre voluto bene. Questo ospedale è tutta la mia vita».
Ro.Go.
Romina Gobbo