ETIOPIA – Tra i missionari cappuccini marchigiani

In Etiopia il tempo sembra fissato per sempre. Eppure, dalla capitale, Addis Abeba, al vicariato di Soddo, la gente, umile e serena, continua la ricerca di costruire un futuro migliore… con l’aiuto dei missionari.

C’è una signora molto nervosa tra i passeggeri dell’aereo che sta scendendo su Addis Abeba. Ha gli occhi chiusi e tiene le mani conserte sulle ginocchia. Avvolta in un silenzio che sembra quello di una preghiera, un filo di pianto le riga la guancia, segnata da una sola ruga lunga e superficiale. Sono sette anni che non torna nel suo paese e, da sette giorni, non dorme per l’emozione. Solleva le palpebre e ruota impercettibilmente il collo irrigidito per la stanchezza. Dal finestrino si scorgono spruzzi di luci, misti a zone di buio fondo; due viali illuminati si stagliano su quel nero imperlato e, come due serpenti, si irradiano intorno a una corona di regina intarsiata di giornie e dolori.
Laggiù, ad aspettare la signora, si è radunata tutta la sua famiglia. Quando finalmente escono dall’aeroporto, abbracciati e sereni, le loro facce sono investite da un forte odore di erba fresca, di valle distesa tra le montagne che si apre nella mattina dai colori tersi, in mezzo ai quali si stempera l’ansia di una lunga attesa. Trascorreranno insieme il natale ortodosso; dopodiché, lei toerà a Roma a lucidare pavimenti in qualche appartamento del centro.
Ma non c’è tempo per rattristarsi. Il sole sta sorgendo. In lontananza si dirada la foschia intorno ai rilievi, qualche indistinto rumore proveniente da un orto, il fabbro che riprende a martellare e, in fondo alla via impolverata, il primo tintinnio di una borraccia di latta che gli studenti del «Centro Romagna» usano per mettervi la colazione.

Odore di polvere

Nel Centro Romagna, un grande edificio di cinque piani, i cappuccini hanno costruito le aule per l’asilo e la scuola, fino all’ottava classe. Al suono della campanella che annuncia la ricreazione, tutti si riversano nel piazzale antistante il portone per giocare al ritmo di musiche tradizionali. I maglioni celesti della divisa si mescolano ai sorrisi, al battere delle mani e al trambusto dei piedi che segnano il selciato in un ampio girotondo.
Ma le donne che scendono la collina, alla periferia di Addis, non sanno nulla della tenerezza di quel gioco, portano da una vita e sulle spalle tutta la sofferenza di un fascio di erba e legna. Ritornano in città con il materiale necessario per riparare le loro casupole, per preparare un giaciglio o, semplicemente, per accendere il fuoco. Quando si arriva nelle vie del centro, l’odore di polvere che rotola dalle colline e impregna le vesti si mescola a quello della benzina delle auto che sfrecciano davanti all’ambasciata americana, fortificata come se stesse per essere attaccata. Lungo le vie, accanto alle case in costruzione, la vita brulica tra i banchetti dei piccoli commercianti, mentre una sottile e incessante fila di mendicanti marcia verso la cattedrale ortodossa.
Nel giardino che circonda la chiesa alcuni pregano il Cristo esposto, altri bivaccano e parlottano sotto i piccoli oleandri, da dove sbucano le mani rinsecchite di chi chiede un po’ di spiccioli. Anche nella parrocchia di San Salvatore, i cappuccini cercano di venire incontro alle esigenze delle famiglie. Hanno così organizzato un incontro pubblico per decidere una linea di intervento e cornordinare gli aiuti dall’Italia, proprio per rendere più dolci le festività natalizie: solo che le richieste d’intervento sono più numerose delle mosche che si appiccicano intorno agli occhi dei bambini.
Un lavoro quotidiano, in risposta ai problemi della povertà, viene svolto da padre Tommaso Bellesi che ha creato e ora gestisce il «Centro San Giuseppe», una sorta di Caritas etiope che segue più di 5.000 casi di persone indigenti. L’assistenza garantita dai cappuccini va dalla distribuzione di vestiti e pasti al finanziamento di piccole attività economiche, fino alla copertura delle spese mediche, comprese quelle relative a interventi chirurgici e alle tasse scolastiche. Tra loro ci sono anche malati di Aids, orfani, lebbrosi, disabili fisici e mentali che, ogni giorno, formano una processione cenciosa e dannata davanti agli operatori del Centro per chiedere una scodella, un farmaco o un paio di scarpe ortopediche.
È un’umanità che lascia sgomenti, che sconvolge la mente del visitatore, la cui anima è turbata da mille interrogativi che sorgono dai cunicoli della storia, dominata dalla precarietà dell’esistenza, che qui si fa sentire con forza: al mattino, respiri e ti sfami, ma non sai se al tramonto sarai ancora vivo o se dovrai lasciare per strada un occhio, un figlio o tutt’e due.
Al pomeriggio, il Centro chiude e la città si riprende i suoi diseredati. Intoo alla grande piazza dove il passato regime comunista massacrava gli oppositori, la polizia dell’odierno governo multipartitico non li fa girare. E allora se ne vanno in periferia, a mucchietti intorno agli incroci, fermi davanti alla fermata dell’autobus che non prenderanno mai. Un viso intagliato nella pietra scura guarda fiero la sera che scende sui negozietti di semi e di tessuti, ritagliando bizzarri giochi di ombre e di luce. E, tra quella massa grigia di storpi e affamati, ogni tanto si infila a zig-zag un monaco ortodosso con il suo candido mantello.

Il «palo» della cultura

Quando si esce da Addis Abeba, si entra in un altro mondo. L’unica strada per raggiungere il sud è asfaltata solo nei primi cento chilometri, poi si trasforma in una pista piena di buchi, che incrocia ogni tanto il letto di un fiume in secca. Lo sterrato attraversa valli e gole che si aprono sull’altopiano, in un dislivello (rispetto alla capitale) di circa 700 metri di altitudine. Lungo il tragitto, si incontrano i segni vivi dell’economia e della cultura di questo paese: venditori di collane, qualche contadino che zappa la terra, piccole chiese copte, sepolcri recintati, capanne di paglia, greggi di pecore e mandrie di buoi.
Colpiscono i pastori di dromedari, sparsi sotto i sicomori e avvolti in un logoro mantello che lascia scoperto solo il viso: maschere di un tempo antico, bocche spolpate con i denti storti e marci sotto due occhi infuocati. Sono immobili, con il bastone in mano nel bassopiano sferzato dal vento e limitato tutt’intorno da una caligine turchese, che avanza sulla sabbia a piccoli banchi.
Nonostante il tempo sembri fissato per sempre, il popolo si muove. Ai lati del cammino, scorrono due fiumi di persone: donne, uomini e bambini si dirigono al mercato o rientrano da scuola, vivono la loro storia nella polvere, socializzano sulla strada, con le suole rotte o scalzi e affaticati, con i morsi della fame, con poche monete racimolate che ballonzolano nella tasca, mentre un asino carreggia due sacchi di pietre per una casa nuova.
Dopo sette ore di viaggio e 400 chilometri, si giunge a Soddo, fulcro della regione del Wolayta, dove i tetti di lamiera brillano tra la vegetazione, sommandosi ai tradizionali tukul di paglia e legno.
A Soddo, sede del vescovo Domenico Marinozzi, uno tra i missionari della prima ora, i cappuccini hanno fondato e amministrano l’altra metà della missione in Etiopia: asili, scuole di formazione, piccole attività economiche, presidi sanitari, parrocchie, seminari, centri culturali, pozzi per l’approvvigionamento idrico.
Nella comunità di Konto, attiva sin dal 1969 (anno in cui la missione arrivò in questa zona), il giorno inizia presto. Dalla piccola chiesa si sentono il suono del tamburo e i canti delle novizie che accompagnano la messa, celebrata in lingua amarica. L’aria è fresca e trasparente e si lascia invadere dolcemente dai primi caldi raggi del sole.
Intanto, dai villaggi arrivano i piccoli scolari che, per tradizione, iniziano le lezioni con l’alzabandiera, mettendosi in fila davanti ai vessilli dell’Etiopia e del Wolayta, intonando un canto e una preghiera.
In un altro padiglione della comunità, gli studenti più grandi occupano le aule della scuola dei mestieri, finanziata dalla Confartigianato della provincia di Ancona. Sono circa 50, cornordinati da un insegnante italiano in pensione, venuto quaggiù come volontario. Studiano la teoria, ma fanno anche molta pratica nei laboratori per diventare falegnami, fabbri e meccanici con l’auspicio che, un giorno, possano avviare una attività in proprio.
A poca distanza da Konto, padre Gino Binanti ha aperto da qualche anno il «Wolayta Tuussaa», un centro culturale per i giovani. Nella lingua locale tuussaa indica il palo che regge la capanna, sul quale non solo convergono i tronchi che costituiscono il tukul, ma la famiglia lo usa per appendervi i ritratti degli antenati. Significa, dunque, fondamento. E la cultura è, in un certo senso, la base di tutto; senza di essa non c’è sviluppo.
Da qui nasce l’intuizione di padre Gino: aggregare i giovani attraverso lo sport e altre attività culturali ed educative (come la musica) al fine di non disperdere il patrimonio delle tradizioni popolari. Può sembrare bizzarro adoperarsi per cose immateriali, come la cultura, in un luogo dove si muore di fame; invece, il compito missionario del Tuussaa è preziosissimo.
In primo luogo perché, privati delle proprie radici, i giovani che scelgono di trasferirsi nella grande città sono spesso carne da macello per sfruttatori senza scrupoli; poi, creare le condizioni affinché i giovani possano esprimere il loro talento significa basare lo sviluppo sulla coscienza delle proprie risorse ed energie creative. Al momento, al Tuussaa si danno appuntamento un’apprezzata squadra di calcio e un gruppo musicale, che porta in giro per la regione il suo repertorio di canti e balli.
con occhi di silenzio
Ma padre Gino vorrebbe fare di più. Il suo progetto, ancora in fase embrionale, è di costituire un museo etnografico e una biblioteca in modo da proporsi come associazione specializzata nel turismo e formare, quindi, guide competenti in un settore che potrebbe fungere da volano per la depressa economia locale. In un altro ambito cruciale nonché di emergenza umanitaria, quello sanitario, opera la clinica di Dubbo, distante alcuni chilometri da Konto.
Inaugurata nel 2000, frutto della collaborazione tra un gruppo di benefattori marchigiani, consorziati in una fondazione per dare continuità al servizio, e il Cuamm (Centro universitario aspiranti missionari medici) mette a disposizione un reparto di chirurgia e una pediatria, quest’ultima con venti posti letto.
Per coprire le spese di degenza, si chiede una piccola somma; mentre per quanto riguarda i pazienti visitati mensilmente le stime parlano di 5.000; alcuni provengono addirittura dalla frontiera con la Somalia. Il personale della clinica, formato da medici italiani volontari e infermieri etiopi, deve misurarsi con la malaria, la tubercolosi, l’epatite virale, il glaucoma e soprattutto l’Aids che, per vergogna e disinformazione, viene nascosto come se fosse una colpa divina, finché il virus non si manifesta in tutta la sua virulenza.
Anche il parto rappresenta un pericolo per la vita. Per raggiungere la clinica, molte mamme affrontano a piedi uno spostamento di 5-6 ore, compromettendo seriamente l’esito dell’operazione. In assenza di mezzi di trasporto, il malato viene trasportato dai suoi parenti su una barella fatta in casa, percorrendo diversi chilometri. È davvero un popolo in cammino.
A Boditti (una piccola comunità, sempre nel comprensorio di Soddo) è sorto un calzaturificio, con macchinari giunti dalle Marche, che attualmente non naviga in buone acque, ma che presto si riprenderà alla grande. Le suore della comunità in cui il laboratorio è stato costruito lo sperano con tutto il cuore, perché il popolo che si raduna intorno alle parrocchie chiede quotidianamente un aiuto. E, quando si sparge la voce di un nuovo censimento per individuare i bambini e le famiglie da inserire nel progetto di adozione a distanza, vengono a frotte dai villaggi più sperduti.
L’adozione a distanza è un programma di assistenza che i cappuccini hanno avviato da molti anni e che riguarda circa 6.000 bambini. Per loro significa ricevere una benedizione, in quanto in Etiopia la guerra e le carestie hanno prodotto molti orfani e lasciato piaghe insopportabili. Drammatica è la realtà dei ragazzi di strada, ai quali i frati stanno cercando di dare una degna sistemazione con un’iniziativa che sta partendo a Borkoshé, piccola comunità non lontana da Soddo. Bambini con le croste ai piedi, i lineamenti delicati mortificati in un’espressione imbronciata del viso, rassegnata, quasi da vecchi, con capelli e pelle imbiancati dalla polvere.
Per entrare a far parte del sistema di solidarietà, grazie al quale riceveranno una famiglia italiana disposta ad «adottarli» nelle spese scolastiche e in quelle concrete di tutti i giorni, si mettono in fila silenti, accompagnati da un adulto, guardando fissi nel vuoto, con occhi che contengono solo la fame e il loro nome.

Il natale dei poveri

Tutta l’Etiopia si prepara per festeggiare il natale. Le entrate dei bar e dei negozi sono adoate con piccole luci a intermittenza. In tutte le comunità cristiane intorno a Soddo, il popolo si incontra per il rito della santa notte. Un gruppo di catecumeni, stanziato sui monti che delimitano la valle del fiume Omo, sta scendendo sulla spianata per raggiungere la chiesa di Bale, percorrendo a piedi un sentirnero di sei ore.
Nelle parrocchie dei cappuccini, i giovani hanno preparato varie scenette: un teatro povero e popolare che si ispira al vangelo, in attesa della celebrazione della Parola. Come a Embeccio, la grande chiesa costruita da poco dove, tra l’altro, si raccoglie una laboriosa comunità agricola. Dopo lo spettacolo, una folla con i gomiti sbucciati, qualche toppa sugli indumenti, sommessa ma anche istintivamente viva e sincera, entra in chiesa e inizia a pregare. Da ogni altare si diffonde il canto di una corale; lungo le strade i pubblici ufficiali escono dai loro piccoli e spartani presidi, appoggiano il kalashnikov sul muro e si siedono sotto un fascio evanescente di una lampadina, mentre un presepe essenziale luccica dentro la sua grotta, buia come la notte.
Al mattino, gli altoparlanti della chiesa ortodossa mandano la musica e le parole del predicatore che invita a partecipare alla processione. Anche i movimenti protestanti iniziano alle prime luci dell’alba a sfilare per le vie di Soddo, invasa dai veli bianchi, con i quali le donne si adoano nei giorni di festa. Sulle strade dissestate sembrano aghi mobili sulla terra rossa, disseminati alla rinfusa, muovendosi in ogni direzione, sotto una luce che appiattisce ogni spessore, leviga ogni spigolo, rende tutto comunione e armonia.
Dopo aver partecipato alla processione, Manina, una studentessa, è ritornata a casa per il pranzo con la famiglia. Il pavimento è ricoperto di foglie di granoturco, la sorella più piccola è impegnata nell’antica cerimonia del caffè, che sarà servito molte volte, visto che la casa è aperta ai parenti e a tutto il vicinato. Non esiste la regola dei regali; ci si incontra e si sta insieme, come del resto è d’uso fare anche gli altri giorni. Nella sua stanza, Manina ha i libri in inglese con i quali sta preparando il prossimo esame di economia all’università.
Nella sala da pranzo accende la televisione e, da Addis Abeba, giunge un servizio sui mercati che pullulano di manufatti e scorte alimentari; alcune industrie pubblicizzano i loro prodotti di cosmesi da cartelloni arrugginiti e sbiaditi, piantati lungo il viale che conduce all’aeroporto, da dove la signora delle pulizie aspetta il suo volo per ritornare a Roma.

Paolo Brunacci




005-Così sta scritto – Amen! Amen! (5)

Esdra benedisse il Signore, Dio grande,
e tutto il popolo rispose:

’Amên! ’Amên!
(Ne 8,6)

In questo e nel prossimo numero esaminiamo una breve parola che incontriamo spesso nel Nuovo Testamento (NT), passata in seguito nella liturgia e a cui non prestiamo la dovuta attenzione: è la parola aramaica ’amên: appena due sillabe, un soffio che si dissolve prima ancora di pronunciarlo, ma carica di significato e di memoria storica e affettiva.
È una parola che ha pregato anche Gesù, per cui ogni volta che la pronunciamo, dovremmo «dirla» con labbra e cuore circoncisi, perché preghiamo in aramaico come Gesù, come sua Madre, come gli apostoli e con loro stabiliamo un rapporto spirituale ed emotivo, che raggiunge le profondità stesse della fede. Chi dice ’amên è una cosa sola con il Signore Gesù.
In un certo senso è come visitare i Luoghi della memoria, andando in Palestina e respirando l’aria che lui respirava, vedendo il cielo che lui guardava, camminando per le strade che lui percorreva, sperimentando il deserto che lui ha sperimentato, attraversando il lago di Tiberiade come lui lo ha attraversato tante volte. Come magica è la Palestina, perché ci parla di lui, se la visitiamo con cuore puro, così le lingue che Gesù parlava (aramaico ed ebraico certamente, greco probabilmente, latino forse qualcosa) ci introducono nel suo mondo interiore, nella sua cultura, nell’anima del suo pensiero: c’immergono nella sua personalità.
La piccola parola ’amên è una chiave per accedere al suo cuore del Verbo incarnato e all’anima della sua divina umanità, perché Gesù la pronunciava nella preghiera, cioè in quel rapporto così particolare che solo lui poteva instaurare con il Padre suo. Il nostro cuore dovrebbe scoppiare di commozione emozionata e il nostro ’amên dovrebbe esprimere tutta la nostra intima gioia.
San Girolamo (347-420) testimonia che, nel suo tempo (iv-v sec. d.C.), nelle basiliche romane la parola ’amên «rimbombava come un tuono», fino a fae tremare le colonne.
Oggi invece assistiamo a liturgie tisicucce e malferme di salute, dove ’amên è buttato all’aria o biascicato senza voce, quasi di nascosto, come se fosse un affare privato e non un solenne e austero atto pubblico di fede. Quest’uso superficiale è il segno che la vita di fede, di cui la liturgia è specchio, può scadere in ritualità vuota, in formule vocali distratte senza passione e vitalità.

Uno dei problemi che si poneva la scienza biblica fino al secolo scorso riguardava la ricerca delle parole precise pronunciate da Gesù: era la questione delle ipsissima verba (le stesse/precise parole) dette da Gesù.
Sappiamo che i vangeli non sono un diario né la cronistoria della vita di Gesù: essi sono scritti occasionali, motivati dalle necessità delle comunità cristiane dove sono nati con lo scopo di introdurre alla fede in Gesù, creduto messia e Dio, oppure di rafforzarla in coloro che già credevano in lui.
Potremmo dire con una frase sintetica che i vangeli sono catechismi scritti da credenti per altri credenti. Essi riflettono la fede e la teologia delle comunità di riferimento degli autori. Non sono stati scritti a tavolino, ma hanno avuto un processo di elaborazione lento e complesso, intanto che nella chiesa del 1° secolo si diffondevano le lettere di Paolo e si diversificavano le comunità ecclesiali sia in Palestina che nel mondo greco.
Cercare nei vangeli le precise/identiche parole che Gesù avrebbe detto potrebbe essere una perdita di tempo, perché nessuno andava dietro a Gesù col registratore. Nella forma definitiva come li possediamo oggi, i vangeli furono messi per iscritto a cavallo tra il 65 e il 100 d.C., cioè dopo circa 35-65 anni dalla morte di Gesù.
Due evangelisti, Marco e Luca, non erano nemmeno apostoli (Luca nemmeno ebreo); mentre agli apostoli Matteo e Giovanni fa capo la riflessione della scuola di pensiero che da essi prende origine e che si sviluppa a partire dalla loro predicazione. I vangeli sono storici, ma non al modo nostro. Essi lo sono al modo degli antichi e quindi dobbiamo essere noi a indagare i testi per scoprie il senso.
Non sappiamo con esattezza matematica che cosa Gesù abbia detto, quali discorsi abbia fatto e quali parole abbia pronunciato in questa o quella occasione. Sappiamo che gli apostoli e altri predicatori, singoli o in gruppo, uomini e donne, hanno diffuso il suo insegnamento oralmente.
Successivamente, nelle varie comunità circolavano elenchi di «detti» o «fatti» (parabole e discorsi, miracoli o azioni) a uso dei predicatori o della liturgia che si svolgeva nelle case. Nella seconda metà del 1° secolo, quattro amici di Gesù mettono in ordine (Lc 1,3) quello che hanno sentito di lui e quello che hanno trovato già scritto su di lui, per aiutare le rispettive comunità a «fare memoria» del Signore Gesù, specialmente durante la liturgia, quando accanto alle letture giudaiche dell’AT si sentì l’esigenza di aggiungere anche la proclamazione di ciò che Gesù ha insegnato e operato durante la sua vita terrena (At 1,1), come compimento delle profezie. Sono i quattro vangeli e più in generale, tutto il NT. Ora le scritture si leggono a partire da lui: ai discepoli di Emmaus, infatti, «cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro le scritture» (Lc 24,27).
In questo lungo processo formativo delle scritture, che esprimono la fede della chiesa primitiva e danno fondamento «apostolico» al nostro credere, scoprire che Gesù nella sua breve vita (trentasei anni circa) certamente pronunciò innumerevoli volte la piccola parola aramaica ’amên come sigillo di tutti i suoi momenti di preghiera personale o pubblica quando frequentava in giorno di sabato la sinagoga di Nazaret o di Cafaao o il tempio a Gerusalemme «secondo il suo solito» (Lc 4,16), dovrebbe essere per noi ancora oggi, specialmente oggi, a distanza di 20 secoli, motivo di grande emozione.

Abbiamo talmente occidentalizzato l’uomo Gesù e anche la sua personalità divina, che abbiamo dimenticato che era ebreo, orientale e non aveva la pelle bianca. Egli era un figlio del sole e del vento, un figlio del deserto con la pelle olivastra e il portamento di un palestinese del sec. i d.C., con la gente parlava aramaico, mentre nel Tempio e in sinagoga pregava e leggeva in ebraico (Lc 4,16-17).
Gesù era un giudeo osservante. Sicuramente, entrando e uscendo dalla sua casa di Nazaret o da quella di Pietro a Cafaao, toccava e baciava sulla porta d’ingresso la mezuzah (stipite), piccolo astuccio contenente alcuni versetti di Esodo e Deuteronomio, in base a Dt 6,7: «Ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per la via, quando ti coricherai e quando ti alzerai».
Gesù portava i capelli lunghi, arricciati alle tempia, per ricordarsi sempre che Dio è il Signore e creatore fino agli estremi confini della terra. Durante la preghiera in sinagoga o nel tempio di Gerusalemme, metteva sul capo il tallìt gadòl (grande mantello), dai quattro angoli del quale pendevano gli tzitziòt (al sing. tzitzìt), cioè le frange fatte con un filo azzurro di lana o di lino con alcuni nodi, che avevano lo scopo di ricordare tutti i comandamenti, secondo le prescrizioni di Nm 15,37-41: «Li guarderete, vi ricorderete dei comandamenti del Signore, li metterete in pratica e non devierete dietro il vostro cuore o i vostri occhi» (cf Dt 22,12; cf Lc 8,44). Quattro verbi che racchiudono tutta la vita del credente: guardare, ricordare, praticare, non deviare.
Sempre, durante la preghiera, indossava anche i filattèri o tefillìn (da tefillàh = preghiera), scatolette di legno contenenti versetti biblici e che si legavano in fronte («in mezzo agli occhi»), sul braccio sinistro («sul tuo cuore») e sulla mano, secondo la prescrizione di Dt 6,4-9 (cf Mt 23,5).
I vangeli ci dicono inoltre che Gesù pregava spesso e, quando non poteva pregare di giorno, perché assediato dalla folla, pregava di notte o al mattino presto. La preghiera era il suo respiro.
Se leggendo il vangelo di Luca, si segnassero tutti i passi dove Gesù prega o è in atteggiamento di preghiera, si scoprirebbe che Lc scrive un vero e proprio «vangelo della preghiera». Vi troviamo, infatti, almeno nove testi diretti, in cui si afferma che Gesù prega personalmente (Lc 5,16; 6,12; 9,18.28.29;11,1; 22,32.41.44), altri in cui invita a pregare e altri in cui qualcuno prega per lui.
Alla luce di questo breve, ma esauriente e necessario contesto, nella rubrica del prossimo numero, ci sarà più facile comprendere il significato di ’amên, questa piccola-grande parola, sintesi sublime di preghiera, senza morire di stupore.

Paolo Farinella




SUD AFRICA – Vangelo vs. Stigma

Come ai tempi dell’haparteid, Soweto si mobilita nuovamente, questa volta contro la discriminazione provocata dall’Aids. Con preghiere, danze e, soprattutto, la volontà di tendere una mano con tanti progetti concreti.

«Se siamo stati in grado di rimuovere l’apartheid possiamo sconfiggere anche l’Aids». Queste parole pronunciate dal vescovo anglicano Desmond Tutu, premio nobel per la pace 1984, sono un messaggio di speranza che la chiesa cattolica sudafricana ha fatto suo per giustificare il proprio impegno nella lotta contro il male del secolo.
Regina Mundi, nel famoso quartiere di Soweto, è la chiesa più grande della diocesi di Johannesburg e, negli anni duri della segregazione razziale, è stata un importante centro di resistenza contro l’apartheid. Ancora oggi, se vi capitasse di visitarla, potreste notare i segni della violenza perpetrata dalla polizia che, durante quel periodo e senza nessun rispetto delle cose o delle persone, entrava liberamente nel luogo sacro per arrestare coloro che in esso avevano cercato rifugio.
In questa chiesa, domenica 30 gennaio 2005, si è tenuto un importante evento, organizzato dalla Conferenza episcopale sudafricana sul tema «Celebriamo le comunità di assistenza». L’incontro era stato indetto per pubblicizzare il programma contro i retrovirus (famiglia di virus di cui fanno parte Hiv, virus dell’Aids, vedi riquadro), che già da molti anni la chiesa cattolica ha individuato come la più severa sfida contemporanea che il paese deve affrontare. Ma il cammino verso la vittoria è lungo e insidioso.
Sull’invito della celebrazione era scritto: «La chiesa confronta lo stigma dell’Hiv». Stigma è ancora una parola chiave in Sudafrica. In una nazione in cui il 90% della popolazione si proclama cristiana (seppur appartenente a una delle 5 mila confessioni diverse), lo «stigma», cioè la discriminazione, è un segno evidente che il messaggio di Gesù non è penetrato nei nostri cuori e che come cristiani abbiamo fallito il nostro compito. Stigma è il contrario di vangelo, non è buona novella, ma cattiva notizia.
Non è facile incontrare persone disposte a rivelare apertamente la loro sieropositività, quando le conseguenze da pagare possono essere la possibile perdita della casa e della famiglia, degli amici e del lavoro. Non tutti hanno il coraggio di Nelson Mandela, che convocò una conferenza stampa per rivelare pubblicamente la morte di un figlio a causa dell’Aids.

L a manifestazione si è anche caratterizzata per il suo aspetto multiculturale. Il vescovo di Johannesburg, mons. Buti Thagale, ha voluto che tutta la diocesi fosse coinvolta nell’organizzazione dell’evento e ha anche insistito affinché questo potesse diventare un’occasione per mostrare il ventaglio di retroterra culturale della sua comunità.
Tale ricchezza di colori e culture si poteva notare immediatamente una volta giunti a Soweto grazie agli abiti tradizionali sfoggiati da zulu, sotho, ndebele, indiani e gente di altre etnie. Numerosa e variegata è stata pure la presenza di associazioni e confrateite (Lega delle donne cattoliche, Donne di Sant’Anna e del Sacro Cuore, Figlie di Maria…), tra cui spiccava l’immenso coro diocesano di Santa Cecilia.
La celebrazione eucaristica ha voluto essere un’espressione della diversità di queste culture. Durante la processione iniziale un gruppo di donne seguiva la croce portando anfore di birra tradizionale che, nella cultura africana, è simbolo di festa e celebrazione. Quattro suonatori si muovevano verso il centro dell’assemblea dagli angoli della chiesa, soffiando dentro coi di kudu.
Le parole del canto che accompagnava questa danza rituale dicevano: «Siyanimema nina, madlozi ethu, sichith’utshwala benu, wozani niphuze» che letteralmente si traduce: «Nostri antenati, vi invitiamo, vi versiamo la vostra birra, venite e bevete»; ma nel contesto religioso significa: «O nostri santi, vi invitiamo a stare con noi, con il fragrante profumo dell’incenso». La comunità indiana ha invece eseguito la processione della parola di Dio, mentre la presentazione delle offerte all’altare è stata un riflesso delle varie culture presenti.
Durante l’omelia il cardinale Napier, arcivescovo di Durban ha spiegato il senso della celebrazione dicendo: «Oggi stiamo nuovamente compiendo ciò che eravamo soliti fare al tempo dell’apartheid: abbiamo ripreso a far visita a coloro che hanno bisogno, attraverso il ministero della chiesa, di ascoltare, vedere e specialmente fare esperienza della misericordia e della compassione di Cristo per tutti coloro che soffrono».
La chiesa ha scelto di essere presente per accompagnare ogni persona colpita dal virus. Durante la messa 15 cristiani, tutti sieropositivi, si sono avvicinati all’altare perché la comunità pregasse per loro e per ricevere l’unzione degli infermi dalle mani dei vescovi presenti.
Ci è voluto coraggio per farsi avanti, ma loro erano lì. Cinque vescovi si sono avvicinati, li hanno abbracciati, benedetti e unti. Dopo di loro hanno fatto un passo avanti i dottori, gli infermieri, i volontari, i medici tradizionali e tutte le persone che si dedicano all’assistenza dei malati. Anch’essi hanno ricevuto una benedizione speciale che confermasse e rafforzasse il loro impegno a favore delle persone colpite dal virus.
I vescovi hanno pregato per loro e offerto in dono una copia del vangelo di Luca, conosciuto anche come il «vangelo della guarigione», gesto più che appropriato nel contesto dell’anno della bibbia, indetto qui in Africa.
Circa 10 mila persone hanno partecipato alla messa nella parrocchia di Regina Mundi, anche grazie ai vari televisori e allo schermo gigante installati all’esterno della chiesa che hanno permesso a tutti di seguire la celebrazione.

La chiesa cattolica del Sudafrica può dire, con tutta ragione, che si sta impegnando duramente contro il virus dell’Aids e contro la discriminazione che ne consegue: con oltre 140 programmi di assistenza si pone decisamente all’avanguardia in questa lotta. Anzi, spesso le iniziative della chiesa precedono quelle del governo, che, pur avendo più risorse e possibilità per rispondere a questa emergenza, molte volte lascia inspiegabilmente, i suoi cittadini nell’ignoranza.
Negli ultimi cinque anni, la chiesa ha dato vita a un numero di progetti che cercano di affrontare la problematica dell’Aids da ogni angolatura possibile. Ha appoggiato, per esempio, progetti che riguardano l’assistenza domiciliare, per aiutare i malati una volta che vengono dimessi dalle strutture ospedaliere. Volontari di queste iniziative si mettono a disposizione per visitare i pazienti a casa e sul lavoro, creando così un legame speciale fra il malato, la sua famiglia e le strutture ospedaliere.
Altri progetti riguardano invece gli ospizi per i malati terminali e per coloro che, rifiutati dalle proprie famiglie, non hanno più un tetto sotto cui stare.
Importanti sono pure i «Programmi per il cambiamento comportamentale» (Change Behaviour Programs). Ispirati al motto «meglio prevenire che curare», tali programmi hanno scopo formativo, promuovere, cioè, un cambio di mentalità. E non si tratta di saltuari incontri. Grazie ad essi, giovani e meno giovani possono avere la possibilità di condividere esperienze e ottenere appoggio nelle loro decisioni di astenersi da rapporti sessuali fino al matrimonio o di essere fedeli al proprio partner.
A questi programmi si è aggiunta, a partire dal 2004, un’ulteriore iniziativa, chiamata «Antiretrovirale» (vedi riquadro), che conta già 22 centri specializzati. A ogni incontro si spiegano le condizioni di idoneità al trattamento e come questo funziona. Inoltre, alcune persone che già fanno parte del programma, danno la loro testimonianza sugli effetti positivi sperimentati nella propria vita. Si annotano casi di persone costrette a letto e impossibilitate a muoversi, a amangiare, a volte persino a parlare.
Anche queste persone sono a Regina Mundi per rendere grazie a Dio e condividere la propria gioia con la comunità.

I missionari della Consolata, sono stati coinvolti in questi progetti fin dall’inizio. È stato il nostro modo di trasmettere concretamente la consolazione di Dio in questo contesto. Oggi possiamo anche felicemente annunciare che uno dei 22 programmi antiretrovirali si trova nelle nostre missioni in Kwa-Zulu-Natal, in cui sono impegnati i padri Joseph Mang’ongo, Anthony Kazibwe, Germán Giraldo e Tarcisio Foccoli.
Il programma si chiama Zanethemba (letteralmente: vieni con speranza). Con tale progetto riusciamo a tradurre nella pratica la consolazione di Dio e dare nuova speranza a chi l’ha perduta.
Anche a Daveyton (periferia di Johannesburg, nella provincia del Gauteng) stiamo portando avanti un lavoro del genere, collaborando con il centro «San Francesco», non lontano dalla nostra parrocchia, gestito da frati minori.
Ringraziamo il Signore che ci ha fatti strumenti della sua consolazione. Vogliamo ringraziare anche i nostri amici e benefattori che, sostenendoci con le loro preghiere e aiuti materiali, sono diventati compagni di cammino nel nostro servizio.
E continuiamo ad affidarci a Maria Consolata, perché ci accompagni e ci aiuti ogni giorno a condividere l’amore di Cristo, consolazione dei popoli.

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AIDS IN CIFRE

Secondo il Ministero della sanità del Sudafrica, queste sono le cifre della pandemia che colpisce il paese:
– 5 milioni di persone affette da Hiv;
– 1.000 persone al giorno contagiate dal virus;
– 500 mila bisognose di trattamento medico specifico;
– 300 mila moriranno entro il 2005, se non riceveranno cure adeguate;
– 20 mila persone ricevono un trattamento in strutture pubbliche;
– 45 mila sono curate in strutture private.

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I FARMACI ANTI RETRO VIRALI

Il virus Hiv appartiene alla famiglia dei cosiddetti «retrovirus», che derivano il loro nome dal fatto che sono in grado di «retropercorrere», cioè di camminare a marcia indietro sul percorso dell’informazione genetica.
Normalmente questo percorso va dal Dna, che è contenuto nel nucleo della cellula e costituisce il nostro genoma, al Rna, che funziona come molecola intermedia, preposta alla sintesi di proteine. I retrovirus sono formati da Rna che, anziché indurre la sintesi di proteine, si fa «retrotrascrivere» in Dna e viene trasportato nel nucleo cellulare, dove inizia il processo di sintesi di Rna, proprio come se l’Rna virale fosse parte della cellula. Per questo motivo, i farmaci contro l’Hiv sono detti «antiretrovirali».
I protocolli terapeutici usati correntemente utilizzano uno o, più frequentemente, due farmaci di una classe che blocca il processo di «retrotrascrizione» e un farmaco di una classe che blocca un enzima virale, detto proteasi, che è invece coinvolto nel processo di «maturazione» delle proteine virali. L’introduzione di farmaci inibitori della proteasi ha segnato una svolta importante nel campo della terapia per l’Hiv, dato che la somministrazione di una sola classe di farmaci ha di solito come esito un controllo limitato del virus, che ha la capacità di mutare in forme resistenti al trattamento.
Prima della formulazione di questi farmaci, quindi, il trattamento terapeutico dei malati di Aids era molto problematico. A ogni buon conto, il problema della resistenza del virus permane ed assume forme particolarmente significative nei paesi in via di sviluppo, dato che richiede analisi accurate e frequenti, nonché la presenza di uno specialista che sappia interpretare queste analisi per formulare una nuova combinazione di farmaci.
Un pericolo che si corre nei paesi del sud del mondo è quello di cercare di formulare una «pillola magica» contenente diversi farmaci, sperando che questa funzioni per tutti, mentre tale soluzione potrebbe fomentare resistenze a farmaci che potrebbero poi essere difficili da risolvere. Certo, non è molto realistico che, in determinate aree geografiche, si proponga un modello di intervento che prevede analisi costose, l’assunzione di una serie di medicinali a diverse ore del giorno e la supervisione costante del medico. Si deve costruire un’infrastruttura che tenga conto sia della necessità di semplificare formulazione e posologia di prodotti terapeutici, sia della possibilità di resistenze/incompatibilità con determinati farmaci.
Alfredo Garzino Demo
Insitute of Human Virology (University of Maryland)

Jean Louis Ponce




BRASILE Undicesimo capitolo generale Missionari Consolata

Sandali al vento

Con l’11° Capitolo generale i missionari della Consolata hanno esaminato il lavoro degli ultimi tempi e progettato il cammino dei prossimi sei anni, per rispondere alle sfide del mondo attuale e alle attese dei popoli in cui svolgono la loro opera di evangelizzazione.

Zaccaria, dallo sguardo sorridente. C’è pure lui, alto ed esile come un grissino. Partecipa, insieme ad altre 48 persone provenienti da Africa, America, Asia ed Europa, all’11° Capitolo generale di São Paulo (Brasile). È la massima assemblea dell’Istituto Missioni Consolata.
Ogni sei anni i missionari della Consolata, presenti i loro delegati da tutti i paesi dove operano (oggigiorno 22), sostano un mese abbondante a valutare il trascorso sessennio e a programmare quello futuro. Inoltre il Capitolo elegge la nuova direzione generale dell’Istituto, composta da un superiore e quattro consiglieri.
In pullman… Zaccaria appare alquanto spaesato, mentre dal finestrino rincorre la sterminata metropoli paulista, immersa in una fungaia di grattacieli. Approdato tutto solo dalla Costa d’Avorio, si sente troppo smilzo in una nazione dove tutto è «maior do mundo».
Tuttavia, oggi, 11 aprile, apertura ufficiale del Capitolo generale, Zaccaria si rasserena un poco. Con i 48 colleghi (comprese le missionarie della Consolata, anch’esse riunite in Capitolo), dopo il viaggio in autobus, si trova a pregare nel santuario mariano di Nossa Senhora Aparecida. Ma questa «signora» è una «madonnina»: non bella, troppo nana, a pezzi. Si racconta che, nel 1717, sia «apparsa» ad alcuni pescatori addirittura senza testa!
Ma sorride. Forse è l’unica Madonna al mondo che sorrida sempre con smagliante spontaneità. Zaccaria se la gode, perché ride come lui ed è nera quanto lui.
Zaccaria King’aru è un missionario della Consolata kenyano. Appartiene al popolo dei kikuyu, nato a Tuthu nel 1953, esattamente nel villaggio dove il 29 giugno 1902 i missionari della Consolata celebrarono la prima messa in Kenya in onore della loro omonima patrona.
Attualmente padre Zaccaria è il superiore, in Costa d’Avorio, dei 13 missionari della Consolata italiani, congolesi, spagnoli, kenyani e colombiani. Al Capitolo di São Paulo è il loro portabandiera.

Dopo 37 giorni di sessioni, incontri, dibattiti e gruppi di studio, l’11° Capitolo generale chiude i battenti tra il sollievo comune.
Il 16 maggio padre Zaccaria fa le valigie, per ritornare in Costa d’Avorio. Non è un problema raccogliere poche camicie e canottiere. Più difficile, invece, è districarsi fra la congerie di relazioni, schede, comunicati e mozioni che il Capitolo ha prodotto. «Troppa carta!» mormora tra sé il missionario maneggiando una pila di fotocopie.
Ma, dovendo informare i confratelli sui lavori e le scelte del Capitolo, padre Zaccaria passa in rassegna con cura l’intera documentazione acquisita e si sofferma pure a rileggerla. Anche perché è interessante.
Recita, per esempio, la relazione dell’Italia: «Bisogna essere testimoni della missione ad gentes, che supera la questione degli aiuti economici. Nostro compito specifico è invitare la chiesa locale e la società civile a respirare un’aria di mondialità e a destare in tutti una sana inquietudine per il regno di Dio. Se la chiesa è rannicchiata sui propri problemi e paralizzata da schemi del passato, dobbiamo offrire le vivaci esperienze delle giovani chiese, e non solo raccontare avvenimenti patetici, tali da suscitare facili emozioni per elemosinare denari. L’animazione missionaria è ben altro!».
A proposito di soldi (ma non solo), ecco quanto si scrive dal Tanzania: «Ringraziamo la Provvidenza, che ci giunge attraverso vari canali: parenti, amici, benefattori e associazioni varie. È spesso un coro di generosa solidarietà, a volte del tutto inattesa. Forse la missione non può che avere che questo unico cespite sicuro: la Provvidenza. Riconoscenza, sobrietà, responsabilità e fedeltà amministrativa devono essere le caratteristiche con cui noi, missionari, riceviamo e doniamo. Ma anche disceere, valutare bene ed essere pronti, eventualmente, a ridimensionare il nostro stile di realizzare la missione…».
Quanto al Kenya (paese cui Zaccaria è, ovviamente, molto attento), le diocesi di Maralal e Marsabit sono ancora un campo d’avanguardia, con aree di primissima evangelizzazione. Il problema di tanti idiomi e il disagio di vivere in zone impervie non facilitano il lavoro missionario. Ciononostante, si auspica un rinnovamento della pastorale, che coinvolga maggiormente la popolazione locale.

Varie volte, durante il Capitolo, è risuonato il termine «pandemia», assai più eloquente del pur grave «epidemia». Oggi la pandemia per antonomasia si chiama Aids e furoreggia in Africa. «Aids che per molti è una parola-tabù, da non pronunciarsi mai» ha denunciato in assemblea padre Zaccaria. «Aids che ha ucciso 500 persone nel mio villaggio natale e sei fratelli nella mia stessa famiglia» ha precisato un altro capitolare africano, raggelando l’uditorio.
Nell’Africa subsahariana dove operano i missionari della Consolata, dall’Etiopia all’Uganda, dal Congo al Mozambico, l’Aids produce il deserto: scompare la generazione degli adulti (la più valida economicamente e culturalmente), lasciando alle spalle solo vecchi e bambini orfani, sovente sieropositivi.
Dal Sudafrica si è udita, forse, la voce più sconsolata. In media, ogni giorno, un migliaio di persone contrae il virus Hiv-Aids. Nel 2004 oltre 400 mila individui sono deceduti. Però (ed è un’assurdità!), nonostante la forte pressione internazionale per usufruire di farmaci a basso costo, «il governo sudafricano, ottenutili, non ha approvato alcuna terapia, quale ad esempio gli antiretrovirali durante il parto». Perché?…
La relazione dal Sudafrica (a suo tempo caratterizzato dall’odiosa discriminazione razziale, imposta ai neri dai bianchi) ha impressionato anche per il clima di insicurezza e paura che regna in varie parti del paese: a tal punto che alcune abitazioni sono munite di «recinti ad alta tensione elettrica» per respingere i malintenzionati.
Intanto l’anziano e saggio Nelson Mandela raccomanda a tutti «un piano di ricostruzione e sviluppo che nasca dall’anima».

Data la diversità culturale, padre Zaccaria ha ascoltato con interesse soprattutto gli interventi riguardanti le nazioni dell’America. Nazioni socialmente travagliate. Fa testo l’Argentina (un tempo granaio del mondo), dove ieri si moriva anche di fame, mentre oggi si sopravvive alla «buena de Dios». Oppure il Venezuela, che vede crescere spudoratamente il divario fra ricchi e poveri.
Per i missionari della Consolata la scelta dei bisognosi è sempre stata una priorità. E bisognosi sono, specialmente, i popoli indigeni. In Argentina e Venezuela la loro scoperta (o riscoperta) qualifica la missione.
Gli aborigeni latinoamericani sono stati il cavallo di battaglia in tante campagne di sensibilizzazione. L’ultima in ordine di tempo è stata «Nos existimos»: ha riguardato i contadini poveri, gli emarginati urbani e gli indios di Roraima (Brasile). Ebbene, con quale gioia, il 16 aprile, i capitolari hanno salutato l’omologazione dell’area indigena Raposa/Serra do Sol di Roraima! Esultanti specialmente i padri Antonio Feandes e Laurindo Lazzaretti, nonché fratel Carlo Zacquini, operanti in loco…
E la Colombia? Da decenni, con i suoi 25 mila morti ammazzati all’anno, è dilaniata da un tasso di violenza superiore persino a quello dell’Iraq. Eppure non mancano spiragli di luce, come la Scuola di riconciliazione e perdono «Espere». È un antidoto efficace al clima di odio instauratosi nella nazione per motivi politici. «Gli effetti positivi di questa scuola – ha affermato padre Piero Trabucco, ex superiore generale – potrebbero suggerire al nostro Istituto di favorire l’iniziativa ovunque svolgiamo un’azione missionaria».
Dunque, riconciliazione e perdono, però non disgiunti da verità e giustizia.
Poiché i missionari della Consolata sono intercontinentali, padre Zaccaria ha accolto con stupore l’analisi sul Nordamerica (Stati Uniti e Canada). Qui la multiculturalità è, nello stesso tempo, dono e fardello. In ogni caso assurge a sfida che i missionari, sia di cultura inglese che francese, vogliono affrontare con coraggio.
E coraggioso è stato padre Leonard De Pasquale, superiore del Nordamerica, nell’affermare che «gli Stati Uniti esportano la loro ideologia di democrazia in un modo non accettabile da tutti i cittadini. Di conseguenza molti si sono opposti all’aggressione degli Usa all’Iraq, come pure alla politica di controllo e dominio del mondo».

Valigia in mano e borsa a tracolla, padre Zaccaria King’aru lascia Rua Itá 381 – São Paulo, sede dell’11° Capitolo generale. Poiché assai difficilmente vi rimetterà piede, il missionario, prima di andarsene definitivamente, si volta a guardare per l’ultima volta… e incontra sulla facciata dell’edificio l’altorilievo della Consolata: bislungo, sproporzionato, impassibile. Non sorride questa Madonna; anzi, non ha neppure volto. Ma è volutamente incompiuta.
E forse, proprio per questo, è eloquentissima. Senza manto, indosserà e il sari indiano e il pareo tanzaniano e il ruana colombiano. Senza sguardo, avrà gli occhi verdi della mamma canadese, quelli a mandorla della coreana o le pupille estasiate dell’etiope.
Consolata e consolatrice, sorella e madre di tutte le genti.

Box 1

«Il nostro stile
di vita e missione»

È il titolo del documento ufficiale prodotto dall’11° Capitolo generale. Consta di due parti. La prima offre una sintesi articolata sul come i missionari della Consolata:
– sono discepoli di Cristo,
– vivono l’appartenenza al proprio istituto,
– manifestano la comunione,
– prestano servizio missionario,
– dispensano i misteri di salvezza,
– amministrano i beni materiali,
– sono organizzati.

L a 2a parte (assai diversa dalla prima) comprende alcune «schede» con proposte operative attinenti a:
– santitá di vita come orizzonte della missione,
– comunitá multiculturale e interculturale,
– comunione e collaborazione con altre forze,
– attenzione all’ad gentes degli areopaghi,
– giustizia, pace e integritá del creato,
– dialogo interreligioso,
– formazione di base e permanente,
– fratelli missionari consacrati,
– animazione missionaria e vocazionale,
– mezzi di comunicazione sociale
– sfida dell’Aids.

N el sessennio 2005-2011 la direzione generale dei missionari della Consolata sarà composta dai padri:
– Aquiléo Fiorentini, superiore generale
– Stefano Camerlengo, vicesuperiore e primo consigliere
– Francisco de Asís Jesús López Vásquez, secondo consigliere
– António Manuel de Jesus Feandes, terzo consigliere
– Matthew Ouma, quarto consigliere

C omplessivamente i missionari della Consolata sono un migliaio. Provengono da Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Congo, Corea del Sud, El Salvador, Eritrea, Etiopia, Inghilterra, Italia, Kenya, Mozambico, Polonia, Portogallo, Spagna, Tanzania, Usa, Uganda, Uruguay, Venezuela. Operano, in comunità inteazionali, in questi stessi stati (esclusi Cile, El Salvador, Eritrea, Polonia, Uruguay). Ma sono presenti anche a Gibuti.

Francesco Beardi




LETTERE – Al santo padre Giovanni Paolo II

Cari fratelli di Missioni Consolata,
sono un poeta vostro abbonato e vi mando questa poesia, scritta per il Santo Padre. Fatene quello che volete. Se credete opportuno, pubblicatela pure.
In unione di amore, preghiera e missione,
Gian Claudio Vassarotto (TO)

La ringraziamo di cuore, sig. Vassarotto, per il suo affetto alla nostra rivista e ai nostri missionari e con vero piacere pubblichiamo la sua poesia.

AL SANTO PADRE

Ricevo con lo sguardo del cuore
il tuo Calvario abbracciato alla croce
sfolgorante d’amore del Figlio di Dio.

Il tuo sacro mare di dolore
in cui sfociavano limpidi di speranza
gli immensi fiumi dei patimenti umani.

La tua vecchia giovane passione
in cui si specchia il cammino del futuro
di tutti gli araldi del Cristo Risorto.

Il mistero luminoso
della tua preghiera profetica crocifissa
dagli ululati del peccato dei lupi della storia.

Ora contemplo con gli occhi dell’anima
il tuo abbraccio di luce
nel cielo infinito della Trinità.
Gian Claudio Vassarotto

Gian Cluadio Vassarotto




LETTERE – Agli esperti di pastorale giovanile

Cari missionari,
il bellissimo dossier di gennaio 2005 fa capire che oggi, chi vuole davvero educare ed evangelizzare le giovani generazioni deve guardarsi non solo dalle derive autoritarie, ma anche da lassismo, edulcorazione, accondiscendenza, da quel complesso di atteggiamenti molto ambigui che lo scrittore Valerio Volpini chiamava «giovanilismo».
Troppo spesso accade che, pur di centrare l’obiettivo di coinvolgere i ragazzi, suscitare partecipazione e interesse, ottenere il loro consenso, i responsabili della pastorale giovanile e uffici diocesani per la scuola, trascurino di dire cose importanti o, peggio ancora, se la prendano con coloro che quelle cose hanno il coraggio di dirle e il rischio di annoiare, deludere, turbare, inasprire, accettano di correrlo fino in fondo, «a imitazione di Gesù che non ebbe paura» di passare da bestemmiatore presso i farisei e farsi una brutta nomea; non ebbe paura nemmeno degli apostoli, quando lo accusarono di essere troppo esigente o troppo tenero e indulgente…
Bisogna smetterla con certi luoghi comuni e con lo stereotipo dell’educatore «bravo» perché in possesso di strategie pedagogiche «raffinate», metodi didattici «aggioati», capacità di avvalersi delle tecnologie che il mercato ha proclamato «vincenti».
Troppo spesso questo tipo di educatore privilegia la forma a discapito della sostanza, il contenitore a discapito del contenuto, la modeità a discapito della verità…
Cari esperti e superesperti di pastorale adolescenziale e giovanile… ai ragazzi bisogna andare incontro per portarli a Cristo non a Mammona: se non capite questo la vostra esperienza, competenza e cultura, il vostro famoso «saper fare» non sono al servizio di Dio e del suo regno, ma di Satana.
Dovete mettervi bene in testa che se, ad esempio a scuola, s’insegna che la soppressione della vita umana nascente, il divorzio, eutanasia, droga, suicidio sono scelte antiumane e anticristiane, non si fa né proselitismo, né parrocchialismo, né sottocultura religiosa, né dileggio della laicità dello stato; si cerca solo di non tradire le grandi istanze evangeliche della dignità della persona e la santità del vincolo coniugale.
Se qualcuno dice ai giovani che la notte è meglio la passino a letto a dormire, non a scorrazzare in auto da una discoteca all’altra, non è detto che sia un nostalgico del medioevo; ma è solo una persona che non si rassegna ad accettare le stragi del weekend come un fatto normale.
Sostenendo che il piercing è nocivo non si fa terrorismo psicologico: chi è convinto del contrario provi a parlarne con i congiunti dei giovani che sono morti dopo essersi fatti infilare stravaganti aggeggi nei posti più impensati, o con i medici che si sono prodigati senza successo per strappare alla morte il 24ne milanese Marco C., deceduto nel marzo 2003 per un’epatite contratta dopo l’impianto di un «chiodino» sulla lingua…
Dicendo che occorre dare un taglio netto ai consumi, anche a riguardo di strumenti e apparecchiature ad alta tecnologia, non si fa un torto all’economia né al progresso: non si può definire progredita un’Europa dove, ogni anno, vengono buttati via cento milioni di telefoni cellulari; non si possono chiamare sviluppati paesi dove 1 minore su 5 accusa problemi di disagio mentale e depressione, disturbi dell’umore e alimentari a causa di internet e degli Sms: non è conveniente per nessuna economia che l’umanità continui a restar divisa tra popoli produttori di immani quantità di rifiuti e popoli spazzatura.
Dialoghiamo pure coi giovani, confrontiamoci alla pari su tutto…
Il Corriere della Sera è corso all’espressione «Guerra dei lombi» per indicare la portata del contrasto tra la linea del rigore e quella della tolleranza…
Adolescenti, giovani, adulti, tutti dovremmo concentrarci di più sulle guerre e lasciar perdere i lombi: non solo quelle di Bush per il petrolio… ma anche le guerre di cui non parla nessuno o quasi: guerre dei diamanti, coltan, oro, rubini, zaffiri, smeraldi, titanio, niobio, uranio. Le guerre per l’estrazione di quei metalli di cui c’è una richiesta sempre maggiore, non perché è aumentata la popolazione mondiale, ma perché sono aumentate le pretese del mondo dei ricchi…
Sono esplose nuove maniere, per cui quelli che fino a ieri venivano classificati come «capricci» o come «vizi», oggi sono considerate «innocue stravaganze» o qualche volta addirittura elevati al rango di «diritti della persona».
Prima di dire, a proposito di un anello, un giorniello, un’auto, una moto, un televisore, un Pc, un telefono o una qualsiasi altra cosa, «è mio e lo gestisco io», oppure «è un problema suo» o ancora «in fondo non faccio male a nessuno», pensiamoci un po’ su.
Pensiamo al contributo che, col nostro modo di intendere l’informazione, l’educazione, il consumo, possiamo dare al ripristino di condizioni di vita accettabili per tutti o, viceversa, al rafforzamento delle spirali di sopraffazione e di morte.
Luciano Montenigri
Fano (PU)

Luciano Montenigri




LETTERE – Cari presidi, cari professori

Non dubito che la realtà adolescenziale e giovanile in Italia sia quella illustrata nell’ottimo dossier di gennaio 2005; vorrei ricordare che, quantunque in minoranza, esistono dei ragazzi e delle ragazze che il vortice dell’individualismo e del consumismo non è ancora riuscito a risucchiare.
A questa minoranza il mondo dei genitori, insegnanti, medici, sacerdoti, catechisti non può limitarsi a dare benevole pacche sulle spalle e a sussurrare frasi tipo «tenete duro», «non abbiate paura», «non fatevi influenzare», «pregate per i nostri compagni più fragili»…
Gli adulti devono dimostrare concretamente e quotidianamente che, per loro, gli ideali coltivati in gioventù sono validi anche oggi e quel patrimonio di conoscenze tecniche, scientifiche, artistiche, religiose ereditato dalle generazioni passate è in larghissima parte degno di essere trasmesso anche alle generazioni future.
Senza entrare in polemica con alcuno, rimango perplesso quando sento che certi presidi, avendo a che fare con abiti succinti, piercing, tatuaggi degli alunni e con comportamenti troppo disinvolti da parte del personale della scuola, si rifugiano dietro lo slogan «la scuola non è la chiesa, i professori non sono missionari».
Questo tipo di ironia sulla chiesa è sempre molto comoda: la probabilità di una replica, anche blanda, è bassissima; invece rimproverare certe ragazze perché si conciano male, o certi professori o bidelli perché fumano, bestemmiano, usano un linguaggio triviale, non fanno nulla per limitare le conversazioni al cellulare a tempi e modi più dignitosi e consoni al normale svolgimento dell’attività didattica… è maledettamente imbarazzante; c’è sempre la possibilità che qualcuno ne abbia a male e si rivalga da par suo.
Forse non ci si rende conto che, quando per timore di brutta figura, si rinuncia a dire che il piercing è nocivo e i tatuaggi non sono così necessari, che scoprire pancia, spalle, schiena, torace può far venire qualche grave malanno, in realtà se ne fa una ancora più brutta…
Come può la scuola «educare al benessere fisico e spirituale, all’accettazione di sé, alla frugalità e a comportamenti che rispettino l’ambiente» (da anni i ministri della P. I. inondano le scrivanie dei presidi con materiale didattico su tali tematiche), se i suoi dirigenti e docenti non hanno il coraggio di spiegare la differenza tra estate e inverno, tra esibizionismo e decoro, tra ciò che fa bene e ciò che fa male al corpo… per paura delle reazioni che potrebbero avere i colleghi «aperti», i ragazzi «problematici», i genitori «sempre col fucile puntato», il personale non docente «facile ai fraintendimenti»?
Come «educare alla legalità, pace, rispetto dei diritti delle minoranze e di tutte le forme di vita», senza chiarire il concetto che tutto questo passa anche (se non soprattutto) attraverso il rifiuto dell’effimero, superfluo, non essenziale e adozione di stili di vita più sobri, più sani, più razionali?
Cari presidi e cari professori, se per «chiesa» intendete quella clericocentrica (giustamente bacchettata anche da Giovanni Paolo ii), materialista, sprecona o, peggio ancora, compromessa con i potenti e violenti, quella che benedice armi, guerre, stragi e genocidi, allora è un grande bene che la scuola non sia come la chiesa; ma, se per «chiesa» intendete (e non potete non intendere) quella cristocentrica, dei missionari, suore, volontari laici, che ogni giorno rischiano la vita per servire Dio e i fratelli, potete solo augurarvi, per il bene vostro e dei vostri alunni, una sempre maggiore collaborazione e unità d’intenti tra scuola e chiesa.
Giovanni De Tigris
Urbino (PU)

Giovanni de Tigris




Io da che parte sto?

Tempo fa, sulla facciata della cattedrale di Cueavaca (Messico) fu appeso uno striscione che diceva: «Il mondo è diviso in oppressi e oppressori: tu da che parte stai?». Di fronte alle ingiustizie che colpiscono buona parte dell’umanità, l’interrogativo s’impone anche oggi e, soprattutto, invita a uscire dalle nostre ambiguità, per schierarci sempre più al fianco di chi, oggi come 2000 anni fa, è messo in croce da quanti vogliono mantenere l’ordine e la legge, a cui sta più a cuore la legge del sinedrio e dell’impero.
La scelta di campo non è facile, soprattutto quando tali ambiguità si nascondono sotto l’orpello religioso e la fede viene messa a servizio dell’ideologia del potere. Ne è un esempio quanto è capitato negli anni ’60-’70 del secolo scorso in America Latina: regimi militari, guidati da dittatori «cristiani», hanno massacrato, torturato, perseguitato, ucciso vescovi, preti, suore e migliaia di inermi catechisti e laici impegnati… per difendere la cosiddetta «civiltà cristiana».
È la logica di chi pretende d’impersonare l’impero del bene per opporsi all’impero del male. Una logica trionfante, oggi più che mai, non solo oltre oceano, dove, per indicare l’uso strumentale della religione è stato coniato il neologismo theocon (da theological conservative), cioè coloro che mettono la teologia a servizio di un’ideologia conservatrice.

V ari intellettuali, giornalisti, opinionisti e politici nostrani si sono subito definiti «teocon» (teoconservatori); termine poi tradotto, con un italiano più comprensibile, in «atei devoti» e «cristiani atei». (Oriana Fallaci, per esempio, si professa così: «Io sono un’atea cristiana. Sono cresciuta nella filosofia cristiana. Ma non credo in ciò che indichiamo col termine Dio»). Anche tanti credenti, definiti «cristianisti», nutrono le idee dei teocon.
Pur con i dovuti distinguo, tutti hanno in comune l’uso della religione per fini politici: con spirito da crociati, difendono il cristianesimo e la civiltà cristiana, identificati con l’Occidente, contro l’invasione islamica e rimproverano quei cattolici che si mostrano tiepidi nello «scontro di civiltà».
I teocon più seri parlano di «religione civile». Ne è un esempio il nostro presidente del Senato: egli si rammarica che nella Costituzione europea non sia stato inserito il riferimento alle «radici cristiane»; anzi, lo giudica quasi un suicidio; esalta il cristianesimo, i suoi valori, il messaggio evangelico e combatte il relativismo, nichilismo e scetticismo da sembrare un santo padre; per poi proporre una «religione civile» e auspicare una «religione cristiana non confessionale», in cui possano riconoscersi anche i non credenti. «Oggi, noi liberali non dobbiamo limitarci a dire “non possiamo non dirci cristiani” – spiega il presidente, citando Benedetto Croce -. Adesso “dobbiamo dirci cristiani”. E tutti gli europei dovrebbero dirlo. Soprattutto i laici… Oggi, nell’accezione comune, laico vuol dire non credente o addirittura ateo».
Svuotata di ogni trascendenza, la «religione civile» riduce la fede cristiana a ideologia, col compito di compattare la società civile, salvaguardare la cultura e l’identità nazionale, dare supporto etico allo stato ormai orfano di valori: un «supporto d’anima» che non influisce, però, negli orientamenti e scelte concrete di un mondo regolato dall’idolo del mercato.

È una seduzione insidiosa e pervasiva anche per la comunità cristiana. Non sono pochi a pensare che la fede non possa sostenersi senza l’appoggio dei poteri, senza politiche culturali, senza organicità sociale che la presidi e la difenda; senza cioè diventare civiltà cristiana o religione civile.
Sollecitata dalle attese dei politici, riconosciuta, applaudita e a volte ricompensata da Cesare per la sua utilità sociale, la chiesa è tentata di ricostruire un cristianesimo solido e misurabile, di ritornare a essere forza di pressione, anche se numericamente minoritaria, di recuperare gli spazi lasciati vuoti dal crollo delle ideologie.
Cedere a tale tentazione equivale a ridurre la chiesa a una lobby etico-sociale, incapace di essere profezia, «sentinella della libertà, della giustizia e della pace» (Giovanni Paolo ii). Un rinnovato «ethos mondiale», affermava il card. Ratzinger, ora Benedetto xvi, non può nascere a tavolino… da pur nobili auspici intellettuali; ma può sorgere solo da «minoranze creative»: cioè cristiani convinti, uomini e donne che abbiano fatto l’incontro decisivo con Cristo come Salvatore, che si nutrano dei sacramenti amministrati dalla chiesa, nella quale riconoscano «la forza da cui sgorga la vita spirituale».
Parafrasando lo striscione di Cueavaca, possiamo domandarci: «Il mondo si divide in teocon, atei devoti, cristiani atei, cristianisti e cristiani convinti: io da che parte sto?».
Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi