SUD AFRICA – Vangelo vs. Stigma
Come ai tempi dell’haparteid, Soweto si mobilita nuovamente, questa volta contro la discriminazione provocata dall’Aids. Con preghiere, danze e, soprattutto, la volontà di tendere una mano con tanti progetti concreti.
«Se siamo stati in grado di rimuovere l’apartheid possiamo sconfiggere anche l’Aids». Queste parole pronunciate dal vescovo anglicano Desmond Tutu, premio nobel per la pace 1984, sono un messaggio di speranza che la chiesa cattolica sudafricana ha fatto suo per giustificare il proprio impegno nella lotta contro il male del secolo.
Regina Mundi, nel famoso quartiere di Soweto, è la chiesa più grande della diocesi di Johannesburg e, negli anni duri della segregazione razziale, è stata un importante centro di resistenza contro l’apartheid. Ancora oggi, se vi capitasse di visitarla, potreste notare i segni della violenza perpetrata dalla polizia che, durante quel periodo e senza nessun rispetto delle cose o delle persone, entrava liberamente nel luogo sacro per arrestare coloro che in esso avevano cercato rifugio.
In questa chiesa, domenica 30 gennaio 2005, si è tenuto un importante evento, organizzato dalla Conferenza episcopale sudafricana sul tema «Celebriamo le comunità di assistenza». L’incontro era stato indetto per pubblicizzare il programma contro i retrovirus (famiglia di virus di cui fanno parte Hiv, virus dell’Aids, vedi riquadro), che già da molti anni la chiesa cattolica ha individuato come la più severa sfida contemporanea che il paese deve affrontare. Ma il cammino verso la vittoria è lungo e insidioso.
Sull’invito della celebrazione era scritto: «La chiesa confronta lo stigma dell’Hiv». Stigma è ancora una parola chiave in Sudafrica. In una nazione in cui il 90% della popolazione si proclama cristiana (seppur appartenente a una delle 5 mila confessioni diverse), lo «stigma», cioè la discriminazione, è un segno evidente che il messaggio di Gesù non è penetrato nei nostri cuori e che come cristiani abbiamo fallito il nostro compito. Stigma è il contrario di vangelo, non è buona novella, ma cattiva notizia.
Non è facile incontrare persone disposte a rivelare apertamente la loro sieropositività, quando le conseguenze da pagare possono essere la possibile perdita della casa e della famiglia, degli amici e del lavoro. Non tutti hanno il coraggio di Nelson Mandela, che convocò una conferenza stampa per rivelare pubblicamente la morte di un figlio a causa dell’Aids.
L a manifestazione si è anche caratterizzata per il suo aspetto multiculturale. Il vescovo di Johannesburg, mons. Buti Thagale, ha voluto che tutta la diocesi fosse coinvolta nell’organizzazione dell’evento e ha anche insistito affinché questo potesse diventare un’occasione per mostrare il ventaglio di retroterra culturale della sua comunità.
Tale ricchezza di colori e culture si poteva notare immediatamente una volta giunti a Soweto grazie agli abiti tradizionali sfoggiati da zulu, sotho, ndebele, indiani e gente di altre etnie. Numerosa e variegata è stata pure la presenza di associazioni e confrateite (Lega delle donne cattoliche, Donne di Sant’Anna e del Sacro Cuore, Figlie di Maria…), tra cui spiccava l’immenso coro diocesano di Santa Cecilia.
La celebrazione eucaristica ha voluto essere un’espressione della diversità di queste culture. Durante la processione iniziale un gruppo di donne seguiva la croce portando anfore di birra tradizionale che, nella cultura africana, è simbolo di festa e celebrazione. Quattro suonatori si muovevano verso il centro dell’assemblea dagli angoli della chiesa, soffiando dentro coi di kudu.
Le parole del canto che accompagnava questa danza rituale dicevano: «Siyanimema nina, madlozi ethu, sichith’utshwala benu, wozani niphuze» che letteralmente si traduce: «Nostri antenati, vi invitiamo, vi versiamo la vostra birra, venite e bevete»; ma nel contesto religioso significa: «O nostri santi, vi invitiamo a stare con noi, con il fragrante profumo dell’incenso». La comunità indiana ha invece eseguito la processione della parola di Dio, mentre la presentazione delle offerte all’altare è stata un riflesso delle varie culture presenti.
Durante l’omelia il cardinale Napier, arcivescovo di Durban ha spiegato il senso della celebrazione dicendo: «Oggi stiamo nuovamente compiendo ciò che eravamo soliti fare al tempo dell’apartheid: abbiamo ripreso a far visita a coloro che hanno bisogno, attraverso il ministero della chiesa, di ascoltare, vedere e specialmente fare esperienza della misericordia e della compassione di Cristo per tutti coloro che soffrono».
La chiesa ha scelto di essere presente per accompagnare ogni persona colpita dal virus. Durante la messa 15 cristiani, tutti sieropositivi, si sono avvicinati all’altare perché la comunità pregasse per loro e per ricevere l’unzione degli infermi dalle mani dei vescovi presenti.
Ci è voluto coraggio per farsi avanti, ma loro erano lì. Cinque vescovi si sono avvicinati, li hanno abbracciati, benedetti e unti. Dopo di loro hanno fatto un passo avanti i dottori, gli infermieri, i volontari, i medici tradizionali e tutte le persone che si dedicano all’assistenza dei malati. Anch’essi hanno ricevuto una benedizione speciale che confermasse e rafforzasse il loro impegno a favore delle persone colpite dal virus.
I vescovi hanno pregato per loro e offerto in dono una copia del vangelo di Luca, conosciuto anche come il «vangelo della guarigione», gesto più che appropriato nel contesto dell’anno della bibbia, indetto qui in Africa.
Circa 10 mila persone hanno partecipato alla messa nella parrocchia di Regina Mundi, anche grazie ai vari televisori e allo schermo gigante installati all’esterno della chiesa che hanno permesso a tutti di seguire la celebrazione.
La chiesa cattolica del Sudafrica può dire, con tutta ragione, che si sta impegnando duramente contro il virus dell’Aids e contro la discriminazione che ne consegue: con oltre 140 programmi di assistenza si pone decisamente all’avanguardia in questa lotta. Anzi, spesso le iniziative della chiesa precedono quelle del governo, che, pur avendo più risorse e possibilità per rispondere a questa emergenza, molte volte lascia inspiegabilmente, i suoi cittadini nell’ignoranza.
Negli ultimi cinque anni, la chiesa ha dato vita a un numero di progetti che cercano di affrontare la problematica dell’Aids da ogni angolatura possibile. Ha appoggiato, per esempio, progetti che riguardano l’assistenza domiciliare, per aiutare i malati una volta che vengono dimessi dalle strutture ospedaliere. Volontari di queste iniziative si mettono a disposizione per visitare i pazienti a casa e sul lavoro, creando così un legame speciale fra il malato, la sua famiglia e le strutture ospedaliere.
Altri progetti riguardano invece gli ospizi per i malati terminali e per coloro che, rifiutati dalle proprie famiglie, non hanno più un tetto sotto cui stare.
Importanti sono pure i «Programmi per il cambiamento comportamentale» (Change Behaviour Programs). Ispirati al motto «meglio prevenire che curare», tali programmi hanno scopo formativo, promuovere, cioè, un cambio di mentalità. E non si tratta di saltuari incontri. Grazie ad essi, giovani e meno giovani possono avere la possibilità di condividere esperienze e ottenere appoggio nelle loro decisioni di astenersi da rapporti sessuali fino al matrimonio o di essere fedeli al proprio partner.
A questi programmi si è aggiunta, a partire dal 2004, un’ulteriore iniziativa, chiamata «Antiretrovirale» (vedi riquadro), che conta già 22 centri specializzati. A ogni incontro si spiegano le condizioni di idoneità al trattamento e come questo funziona. Inoltre, alcune persone che già fanno parte del programma, danno la loro testimonianza sugli effetti positivi sperimentati nella propria vita. Si annotano casi di persone costrette a letto e impossibilitate a muoversi, a amangiare, a volte persino a parlare.
Anche queste persone sono a Regina Mundi per rendere grazie a Dio e condividere la propria gioia con la comunità.
I missionari della Consolata, sono stati coinvolti in questi progetti fin dall’inizio. È stato il nostro modo di trasmettere concretamente la consolazione di Dio in questo contesto. Oggi possiamo anche felicemente annunciare che uno dei 22 programmi antiretrovirali si trova nelle nostre missioni in Kwa-Zulu-Natal, in cui sono impegnati i padri Joseph Mang’ongo, Anthony Kazibwe, Germán Giraldo e Tarcisio Foccoli.
Il programma si chiama Zanethemba (letteralmente: vieni con speranza). Con tale progetto riusciamo a tradurre nella pratica la consolazione di Dio e dare nuova speranza a chi l’ha perduta.
Anche a Daveyton (periferia di Johannesburg, nella provincia del Gauteng) stiamo portando avanti un lavoro del genere, collaborando con il centro «San Francesco», non lontano dalla nostra parrocchia, gestito da frati minori.
Ringraziamo il Signore che ci ha fatti strumenti della sua consolazione. Vogliamo ringraziare anche i nostri amici e benefattori che, sostenendoci con le loro preghiere e aiuti materiali, sono diventati compagni di cammino nel nostro servizio.
E continuiamo ad affidarci a Maria Consolata, perché ci accompagni e ci aiuti ogni giorno a condividere l’amore di Cristo, consolazione dei popoli.
Box 1
AIDS IN CIFRE
Secondo il Ministero della sanità del Sudafrica, queste sono le cifre della pandemia che colpisce il paese:
– 5 milioni di persone affette da Hiv;
– 1.000 persone al giorno contagiate dal virus;
– 500 mila bisognose di trattamento medico specifico;
– 300 mila moriranno entro il 2005, se non riceveranno cure adeguate;
– 20 mila persone ricevono un trattamento in strutture pubbliche;
– 45 mila sono curate in strutture private.
Box 2
I FARMACI ANTI RETRO VIRALI
Il virus Hiv appartiene alla famiglia dei cosiddetti «retrovirus», che derivano il loro nome dal fatto che sono in grado di «retropercorrere», cioè di camminare a marcia indietro sul percorso dell’informazione genetica.
Normalmente questo percorso va dal Dna, che è contenuto nel nucleo della cellula e costituisce il nostro genoma, al Rna, che funziona come molecola intermedia, preposta alla sintesi di proteine. I retrovirus sono formati da Rna che, anziché indurre la sintesi di proteine, si fa «retrotrascrivere» in Dna e viene trasportato nel nucleo cellulare, dove inizia il processo di sintesi di Rna, proprio come se l’Rna virale fosse parte della cellula. Per questo motivo, i farmaci contro l’Hiv sono detti «antiretrovirali».
I protocolli terapeutici usati correntemente utilizzano uno o, più frequentemente, due farmaci di una classe che blocca il processo di «retrotrascrizione» e un farmaco di una classe che blocca un enzima virale, detto proteasi, che è invece coinvolto nel processo di «maturazione» delle proteine virali. L’introduzione di farmaci inibitori della proteasi ha segnato una svolta importante nel campo della terapia per l’Hiv, dato che la somministrazione di una sola classe di farmaci ha di solito come esito un controllo limitato del virus, che ha la capacità di mutare in forme resistenti al trattamento.
Prima della formulazione di questi farmaci, quindi, il trattamento terapeutico dei malati di Aids era molto problematico. A ogni buon conto, il problema della resistenza del virus permane ed assume forme particolarmente significative nei paesi in via di sviluppo, dato che richiede analisi accurate e frequenti, nonché la presenza di uno specialista che sappia interpretare queste analisi per formulare una nuova combinazione di farmaci.
Un pericolo che si corre nei paesi del sud del mondo è quello di cercare di formulare una «pillola magica» contenente diversi farmaci, sperando che questa funzioni per tutti, mentre tale soluzione potrebbe fomentare resistenze a farmaci che potrebbero poi essere difficili da risolvere. Certo, non è molto realistico che, in determinate aree geografiche, si proponga un modello di intervento che prevede analisi costose, l’assunzione di una serie di medicinali a diverse ore del giorno e la supervisione costante del medico. Si deve costruire un’infrastruttura che tenga conto sia della necessità di semplificare formulazione e posologia di prodotti terapeutici, sia della possibilità di resistenze/incompatibilità con determinati farmaci.
Alfredo Garzino Demo
Insitute of Human Virology (University of Maryland)
Jean Louis Ponce