Come ogni America Latina, il Brasile rappresenta due società parallele. Nelle città mostro (San Paolo, 21 milioni di abitanti) si sfiorano, ma non si mescolano mai. I problemi restano lontani: per gli uni, produrre, esportare; per gli altri, mangiare una volta al giorno. Il continente che ha i piedi nell’acqua della foresta umida, con bacini giganteschi alle spalle di ogni metropoli, soffre la sete. Il cacao del nord est diventa legna secca. Migliaia di contadini senza lavoro assediano le città. I fiumi dell’Amazzonia, avvelenati dagli sbarramenti delle dighe, fanno marcire le foreste sepolte sott’acqua e attorno ai grattacieli nessuno beve dal rubinetto. Solo acque minerali. Navi cisterna ogni giorno. Impossibile gustarne il sapore nei ristoranti dove gli stranieri vanno a pranzo. Il cameriere rifiuta la richiesta di acqua brasiliana. "Solo Perrier e San Pellegrino, signore. La nostra clientela beve così".
Un mattino i giornali annunciano la buona notizia. L’occhio di un satellite scopre che le favelas di Rio e San Paolo hanno smesso di allungarsi. La buona notizia è che nei terreni attorno possono crescere i palazzi dei nuovi quartieri giardino. La cattiva notizia è che le favelas si spostano verticalmente verso discariche sterminate dove dal mattino alla sera donne e ragazzi frugano per recuperare qualcosa da vendere o qualcosa da mangiare, scarti che l’appetito del popolo delle acque straniere non ritiene ormai commestibili. Quattro milioni di vagabondi sopravvivono nella capitale industriale del paese, migliaia di ragazzi con l’Aids vagano sui marciapiedi impestati da cinque milioni di automobili. Per fortuna, c’è la maggior concentrazione di elicotteri privati del mondo. Nessuna persona sensata va al lavoro in automobile, ripetono i vacanzieri di Campos do Jordao. Autostrade cittadine a sei corsie paralizzate dal mattino alla sera. Appuntamenti che gonfiano ritardi imbarazzanti, ma nessuno si imbarazza: "Siamo a San Paolo…", è il sorriso del signore arrivato un’ora dopo. Nel cucinone di don Julio Lancellotti, prete di strada, la cena è un po’ di verdura. La sua rete di Case della Vita raccoglie adolescenti alla deriva col sangue avvelenato dall’Aids. Sono tornati stanchi da un pomeriggio di preghiera che i preti amici di don Julio hanno organizzato attorno alla cattedrale per ricordare cinque barboni uccisi e bruciati da squadre della morte. Per la magistratura sono poliziotti in libera uscita. Non muoiono solo barboni: quattro ragazzi al giorno restano senza vita nelle discariche. Sempre colpi d’arma da fuoco. Le ragazze e i ragazzi di don Julio stasera hanno gli occhi che si chiudono sulla minestra. Magliette colorate, pettinati con cura, dita sporche di biro. Con il prete guardiamo Porta a Porta, parla il Socci che distribuiva miracoli nelle dirette di Excalibur: sta ricordando di aver presentato un anno fa il libro del cardinale Ratzinger: "Dallo spiritualismo profondo e costruttivo. In America Latina è facile fare della sociologia dimenticando la dottrina della chiesa". Anche don Julio allarga l’orecchio. Sospira e alza gli occhi verso la tavola ormai vuota. "Di questi ragazzi, due o tre moriranno i prossimi mesi. Facile, dice il signore della Tv di Roma".
Il mondo della disperazione e della ricchezza esibita a volte si toccano. Il condominio dove abita il signor Daniel Dantas la cui professione consiste nel mettere d’accordo affari e politica, sembra un gigantesco mobile dai cassetti aperti in modo diverso: terrazze più larghe, terrazze più corte. Vogliono dire piscine piccole e piscine grandi. Ne è orgoglioso. Chiacchieriamo mentre una figlia bambina nuota nella vasca e il cameriere serve il caffè. Sposto i rami delle piante verdissime che separano la terrazza dalla realtà e mi affaccio su una favelas della quale non vedo la fine: su e giù per le colline di Morumbi. "Paraisopolis", spiega Dantas con allegria. "Città del paradiso. Centomila abitanti, forse di più. Qualcuno vuole costringerli ad andare via. L’altra sera sono bruciate due strade. Povera gente, mi spiace, ma un posto così bello sepolto da lamiere e cartoni, è una vergogna che dovremo risolvere". Ascolta le nostre chiacchiere Carmita, figlia grande. "Lavora anche il sabato", sorriso del padre orgoglioso. Spiega che il posto è nuovo: sta per essere aperto lo shopping centre più "in" della città, Villa Daslu. Proprio "villa" perché la proprietaria è italiana: Eliana Tronchesi. "È lo show room delle meraviglie". Entro in un cortile abbracciato dalle logge di un palazzo rinascimento fiorentino. Attraverso salotti dove, per distrazione, al posto dei libri la biblioteca accoglie giornielli di Bulgari, tanti Armani, creme di bellezza americane, abiti appena sfilati a Parigi. Al piano di sopra salotti per uomini. Naturalmente, tutto falso: dai tappeti all’architettura che ricorda le colonne di Pompei, Califoia. Prezzi: da capogiro. Col prezzo di un orologio don Julio potrebbe mantenere per mesi i suoi venti ragazzi. C’è sempre una graziosa padrona di casa che offre il caffè, o una tartina, due dita di champagne, sulle poltrone delle stanze infilate a binocolo, una dopo l’altra. Non vorrei si pensasse ad una villa modello Fiesole. Se l’architettura ha brutalizzato nella banalità l’armonia fiorentina, la dimensione spaventa. Villa Daslu è lunga come Versailles. Sul tetto del magazzino, in fondo a un cortile secondario, due piattaforme aspettano gli elicotteri delle signore che hanno fretta. Ecco la città del futuro: falso rinascimento assediato da una disperazione disperata. Vite e lingue diverse, babele nelle stesse strade.
Fra quarant’anni, avverte un rapporto Onu, metà della popolazione del mondo sarà urbanizzata. San Paolo, o Città del Messico, mostri invivibili, si moltiplicheranno a macchia d’olio ovunque. Le differenze sociali esploderanno. Immondizie, agenti armati attorno alle zone rosa. Fuori, gli stracci, milioni di stracci. Nel 1933 Levi Strauss, professore all’università di San Paolo, aveva previsto la follia di cento chilometri di palazzi: avrebbero distrutto la foresta dell’altopiano trasformando il rio Pinheiro dove Levi Strauss, Braudel e il nostro Ungaretti andavano a pescare, in una fogna che ammorba ricchi e poveri: vapori nauseabondi. "Li respireranno assieme, notabili e diseredati in qualcosa finalmente uguali".
Maurizio Chierici