ETIOPIA – Tra i missionari cappuccini marchigiani
In Etiopia il tempo sembra fissato per sempre. Eppure, dalla capitale, Addis Abeba, al vicariato di Soddo, la gente, umile e serena, continua la ricerca di costruire un futuro migliore… con l’aiuto dei missionari.
C’è una signora molto nervosa tra i passeggeri dell’aereo che sta scendendo su Addis Abeba. Ha gli occhi chiusi e tiene le mani conserte sulle ginocchia. Avvolta in un silenzio che sembra quello di una preghiera, un filo di pianto le riga la guancia, segnata da una sola ruga lunga e superficiale. Sono sette anni che non torna nel suo paese e, da sette giorni, non dorme per l’emozione. Solleva le palpebre e ruota impercettibilmente il collo irrigidito per la stanchezza. Dal finestrino si scorgono spruzzi di luci, misti a zone di buio fondo; due viali illuminati si stagliano su quel nero imperlato e, come due serpenti, si irradiano intorno a una corona di regina intarsiata di giornie e dolori.
Laggiù, ad aspettare la signora, si è radunata tutta la sua famiglia. Quando finalmente escono dall’aeroporto, abbracciati e sereni, le loro facce sono investite da un forte odore di erba fresca, di valle distesa tra le montagne che si apre nella mattina dai colori tersi, in mezzo ai quali si stempera l’ansia di una lunga attesa. Trascorreranno insieme il natale ortodosso; dopodiché, lei toerà a Roma a lucidare pavimenti in qualche appartamento del centro.
Ma non c’è tempo per rattristarsi. Il sole sta sorgendo. In lontananza si dirada la foschia intorno ai rilievi, qualche indistinto rumore proveniente da un orto, il fabbro che riprende a martellare e, in fondo alla via impolverata, il primo tintinnio di una borraccia di latta che gli studenti del «Centro Romagna» usano per mettervi la colazione.
Odore di polvere
Nel Centro Romagna, un grande edificio di cinque piani, i cappuccini hanno costruito le aule per l’asilo e la scuola, fino all’ottava classe. Al suono della campanella che annuncia la ricreazione, tutti si riversano nel piazzale antistante il portone per giocare al ritmo di musiche tradizionali. I maglioni celesti della divisa si mescolano ai sorrisi, al battere delle mani e al trambusto dei piedi che segnano il selciato in un ampio girotondo.
Ma le donne che scendono la collina, alla periferia di Addis, non sanno nulla della tenerezza di quel gioco, portano da una vita e sulle spalle tutta la sofferenza di un fascio di erba e legna. Ritornano in città con il materiale necessario per riparare le loro casupole, per preparare un giaciglio o, semplicemente, per accendere il fuoco. Quando si arriva nelle vie del centro, l’odore di polvere che rotola dalle colline e impregna le vesti si mescola a quello della benzina delle auto che sfrecciano davanti all’ambasciata americana, fortificata come se stesse per essere attaccata. Lungo le vie, accanto alle case in costruzione, la vita brulica tra i banchetti dei piccoli commercianti, mentre una sottile e incessante fila di mendicanti marcia verso la cattedrale ortodossa.
Nel giardino che circonda la chiesa alcuni pregano il Cristo esposto, altri bivaccano e parlottano sotto i piccoli oleandri, da dove sbucano le mani rinsecchite di chi chiede un po’ di spiccioli. Anche nella parrocchia di San Salvatore, i cappuccini cercano di venire incontro alle esigenze delle famiglie. Hanno così organizzato un incontro pubblico per decidere una linea di intervento e cornordinare gli aiuti dall’Italia, proprio per rendere più dolci le festività natalizie: solo che le richieste d’intervento sono più numerose delle mosche che si appiccicano intorno agli occhi dei bambini.
Un lavoro quotidiano, in risposta ai problemi della povertà, viene svolto da padre Tommaso Bellesi che ha creato e ora gestisce il «Centro San Giuseppe», una sorta di Caritas etiope che segue più di 5.000 casi di persone indigenti. L’assistenza garantita dai cappuccini va dalla distribuzione di vestiti e pasti al finanziamento di piccole attività economiche, fino alla copertura delle spese mediche, comprese quelle relative a interventi chirurgici e alle tasse scolastiche. Tra loro ci sono anche malati di Aids, orfani, lebbrosi, disabili fisici e mentali che, ogni giorno, formano una processione cenciosa e dannata davanti agli operatori del Centro per chiedere una scodella, un farmaco o un paio di scarpe ortopediche.
È un’umanità che lascia sgomenti, che sconvolge la mente del visitatore, la cui anima è turbata da mille interrogativi che sorgono dai cunicoli della storia, dominata dalla precarietà dell’esistenza, che qui si fa sentire con forza: al mattino, respiri e ti sfami, ma non sai se al tramonto sarai ancora vivo o se dovrai lasciare per strada un occhio, un figlio o tutt’e due.
Al pomeriggio, il Centro chiude e la città si riprende i suoi diseredati. Intoo alla grande piazza dove il passato regime comunista massacrava gli oppositori, la polizia dell’odierno governo multipartitico non li fa girare. E allora se ne vanno in periferia, a mucchietti intorno agli incroci, fermi davanti alla fermata dell’autobus che non prenderanno mai. Un viso intagliato nella pietra scura guarda fiero la sera che scende sui negozietti di semi e di tessuti, ritagliando bizzarri giochi di ombre e di luce. E, tra quella massa grigia di storpi e affamati, ogni tanto si infila a zig-zag un monaco ortodosso con il suo candido mantello.
Il «palo» della cultura
Quando si esce da Addis Abeba, si entra in un altro mondo. L’unica strada per raggiungere il sud è asfaltata solo nei primi cento chilometri, poi si trasforma in una pista piena di buchi, che incrocia ogni tanto il letto di un fiume in secca. Lo sterrato attraversa valli e gole che si aprono sull’altopiano, in un dislivello (rispetto alla capitale) di circa 700 metri di altitudine. Lungo il tragitto, si incontrano i segni vivi dell’economia e della cultura di questo paese: venditori di collane, qualche contadino che zappa la terra, piccole chiese copte, sepolcri recintati, capanne di paglia, greggi di pecore e mandrie di buoi.
Colpiscono i pastori di dromedari, sparsi sotto i sicomori e avvolti in un logoro mantello che lascia scoperto solo il viso: maschere di un tempo antico, bocche spolpate con i denti storti e marci sotto due occhi infuocati. Sono immobili, con il bastone in mano nel bassopiano sferzato dal vento e limitato tutt’intorno da una caligine turchese, che avanza sulla sabbia a piccoli banchi.
Nonostante il tempo sembri fissato per sempre, il popolo si muove. Ai lati del cammino, scorrono due fiumi di persone: donne, uomini e bambini si dirigono al mercato o rientrano da scuola, vivono la loro storia nella polvere, socializzano sulla strada, con le suole rotte o scalzi e affaticati, con i morsi della fame, con poche monete racimolate che ballonzolano nella tasca, mentre un asino carreggia due sacchi di pietre per una casa nuova.
Dopo sette ore di viaggio e 400 chilometri, si giunge a Soddo, fulcro della regione del Wolayta, dove i tetti di lamiera brillano tra la vegetazione, sommandosi ai tradizionali tukul di paglia e legno.
A Soddo, sede del vescovo Domenico Marinozzi, uno tra i missionari della prima ora, i cappuccini hanno fondato e amministrano l’altra metà della missione in Etiopia: asili, scuole di formazione, piccole attività economiche, presidi sanitari, parrocchie, seminari, centri culturali, pozzi per l’approvvigionamento idrico.
Nella comunità di Konto, attiva sin dal 1969 (anno in cui la missione arrivò in questa zona), il giorno inizia presto. Dalla piccola chiesa si sentono il suono del tamburo e i canti delle novizie che accompagnano la messa, celebrata in lingua amarica. L’aria è fresca e trasparente e si lascia invadere dolcemente dai primi caldi raggi del sole.
Intanto, dai villaggi arrivano i piccoli scolari che, per tradizione, iniziano le lezioni con l’alzabandiera, mettendosi in fila davanti ai vessilli dell’Etiopia e del Wolayta, intonando un canto e una preghiera.
In un altro padiglione della comunità, gli studenti più grandi occupano le aule della scuola dei mestieri, finanziata dalla Confartigianato della provincia di Ancona. Sono circa 50, cornordinati da un insegnante italiano in pensione, venuto quaggiù come volontario. Studiano la teoria, ma fanno anche molta pratica nei laboratori per diventare falegnami, fabbri e meccanici con l’auspicio che, un giorno, possano avviare una attività in proprio.
A poca distanza da Konto, padre Gino Binanti ha aperto da qualche anno il «Wolayta Tuussaa», un centro culturale per i giovani. Nella lingua locale tuussaa indica il palo che regge la capanna, sul quale non solo convergono i tronchi che costituiscono il tukul, ma la famiglia lo usa per appendervi i ritratti degli antenati. Significa, dunque, fondamento. E la cultura è, in un certo senso, la base di tutto; senza di essa non c’è sviluppo.
Da qui nasce l’intuizione di padre Gino: aggregare i giovani attraverso lo sport e altre attività culturali ed educative (come la musica) al fine di non disperdere il patrimonio delle tradizioni popolari. Può sembrare bizzarro adoperarsi per cose immateriali, come la cultura, in un luogo dove si muore di fame; invece, il compito missionario del Tuussaa è preziosissimo.
In primo luogo perché, privati delle proprie radici, i giovani che scelgono di trasferirsi nella grande città sono spesso carne da macello per sfruttatori senza scrupoli; poi, creare le condizioni affinché i giovani possano esprimere il loro talento significa basare lo sviluppo sulla coscienza delle proprie risorse ed energie creative. Al momento, al Tuussaa si danno appuntamento un’apprezzata squadra di calcio e un gruppo musicale, che porta in giro per la regione il suo repertorio di canti e balli.
con occhi di silenzio
Ma padre Gino vorrebbe fare di più. Il suo progetto, ancora in fase embrionale, è di costituire un museo etnografico e una biblioteca in modo da proporsi come associazione specializzata nel turismo e formare, quindi, guide competenti in un settore che potrebbe fungere da volano per la depressa economia locale. In un altro ambito cruciale nonché di emergenza umanitaria, quello sanitario, opera la clinica di Dubbo, distante alcuni chilometri da Konto.
Inaugurata nel 2000, frutto della collaborazione tra un gruppo di benefattori marchigiani, consorziati in una fondazione per dare continuità al servizio, e il Cuamm (Centro universitario aspiranti missionari medici) mette a disposizione un reparto di chirurgia e una pediatria, quest’ultima con venti posti letto.
Per coprire le spese di degenza, si chiede una piccola somma; mentre per quanto riguarda i pazienti visitati mensilmente le stime parlano di 5.000; alcuni provengono addirittura dalla frontiera con la Somalia. Il personale della clinica, formato da medici italiani volontari e infermieri etiopi, deve misurarsi con la malaria, la tubercolosi, l’epatite virale, il glaucoma e soprattutto l’Aids che, per vergogna e disinformazione, viene nascosto come se fosse una colpa divina, finché il virus non si manifesta in tutta la sua virulenza.
Anche il parto rappresenta un pericolo per la vita. Per raggiungere la clinica, molte mamme affrontano a piedi uno spostamento di 5-6 ore, compromettendo seriamente l’esito dell’operazione. In assenza di mezzi di trasporto, il malato viene trasportato dai suoi parenti su una barella fatta in casa, percorrendo diversi chilometri. È davvero un popolo in cammino.
A Boditti (una piccola comunità, sempre nel comprensorio di Soddo) è sorto un calzaturificio, con macchinari giunti dalle Marche, che attualmente non naviga in buone acque, ma che presto si riprenderà alla grande. Le suore della comunità in cui il laboratorio è stato costruito lo sperano con tutto il cuore, perché il popolo che si raduna intorno alle parrocchie chiede quotidianamente un aiuto. E, quando si sparge la voce di un nuovo censimento per individuare i bambini e le famiglie da inserire nel progetto di adozione a distanza, vengono a frotte dai villaggi più sperduti.
L’adozione a distanza è un programma di assistenza che i cappuccini hanno avviato da molti anni e che riguarda circa 6.000 bambini. Per loro significa ricevere una benedizione, in quanto in Etiopia la guerra e le carestie hanno prodotto molti orfani e lasciato piaghe insopportabili. Drammatica è la realtà dei ragazzi di strada, ai quali i frati stanno cercando di dare una degna sistemazione con un’iniziativa che sta partendo a Borkoshé, piccola comunità non lontana da Soddo. Bambini con le croste ai piedi, i lineamenti delicati mortificati in un’espressione imbronciata del viso, rassegnata, quasi da vecchi, con capelli e pelle imbiancati dalla polvere.
Per entrare a far parte del sistema di solidarietà, grazie al quale riceveranno una famiglia italiana disposta ad «adottarli» nelle spese scolastiche e in quelle concrete di tutti i giorni, si mettono in fila silenti, accompagnati da un adulto, guardando fissi nel vuoto, con occhi che contengono solo la fame e il loro nome.
Il natale dei poveri
Tutta l’Etiopia si prepara per festeggiare il natale. Le entrate dei bar e dei negozi sono adoate con piccole luci a intermittenza. In tutte le comunità cristiane intorno a Soddo, il popolo si incontra per il rito della santa notte. Un gruppo di catecumeni, stanziato sui monti che delimitano la valle del fiume Omo, sta scendendo sulla spianata per raggiungere la chiesa di Bale, percorrendo a piedi un sentirnero di sei ore.
Nelle parrocchie dei cappuccini, i giovani hanno preparato varie scenette: un teatro povero e popolare che si ispira al vangelo, in attesa della celebrazione della Parola. Come a Embeccio, la grande chiesa costruita da poco dove, tra l’altro, si raccoglie una laboriosa comunità agricola. Dopo lo spettacolo, una folla con i gomiti sbucciati, qualche toppa sugli indumenti, sommessa ma anche istintivamente viva e sincera, entra in chiesa e inizia a pregare. Da ogni altare si diffonde il canto di una corale; lungo le strade i pubblici ufficiali escono dai loro piccoli e spartani presidi, appoggiano il kalashnikov sul muro e si siedono sotto un fascio evanescente di una lampadina, mentre un presepe essenziale luccica dentro la sua grotta, buia come la notte.
Al mattino, gli altoparlanti della chiesa ortodossa mandano la musica e le parole del predicatore che invita a partecipare alla processione. Anche i movimenti protestanti iniziano alle prime luci dell’alba a sfilare per le vie di Soddo, invasa dai veli bianchi, con i quali le donne si adoano nei giorni di festa. Sulle strade dissestate sembrano aghi mobili sulla terra rossa, disseminati alla rinfusa, muovendosi in ogni direzione, sotto una luce che appiattisce ogni spessore, leviga ogni spigolo, rende tutto comunione e armonia.
Dopo aver partecipato alla processione, Manina, una studentessa, è ritornata a casa per il pranzo con la famiglia. Il pavimento è ricoperto di foglie di granoturco, la sorella più piccola è impegnata nell’antica cerimonia del caffè, che sarà servito molte volte, visto che la casa è aperta ai parenti e a tutto il vicinato. Non esiste la regola dei regali; ci si incontra e si sta insieme, come del resto è d’uso fare anche gli altri giorni. Nella sua stanza, Manina ha i libri in inglese con i quali sta preparando il prossimo esame di economia all’università.
Nella sala da pranzo accende la televisione e, da Addis Abeba, giunge un servizio sui mercati che pullulano di manufatti e scorte alimentari; alcune industrie pubblicizzano i loro prodotti di cosmesi da cartelloni arrugginiti e sbiaditi, piantati lungo il viale che conduce all’aeroporto, da dove la signora delle pulizie aspetta il suo volo per ritornare a Roma.
Paolo Brunacci