Cos’è un enclave? Un territorio, un villaggio, una ristretta area completamente chiusa, dove si sono rifugiati gli ultimi serbi e non-albanesi che, dopo i bombardamenti del 1999, non hanno accettato di essere cacciati dalla propria terra e scappare in Serbia o altrove. Sono alcune decine di migliaia. Dati ufficiosi parlano tra 80 e 100 mila i serbi e non albanesi rimasti, di cui la stragrande maggioranza di essi è concentrata a Mitrovica e nella sua provincia confinante con la Serbia.
Nelle enclave vivono barricati, circondati da mezzi militari della Kfor (Forza militare di pace in Kosovo, guidata dalla Nato) e spesso da filo spinato, in una condizione di prigionieri e assediati. Nessuno può uscire, se non sotto scorta militare in autobus collettivi e solo per emergenze, pena il rischio di venire ammazzati.
«Qui, chi non impazzisce non è normale» c’era scritto sul muro di una scuola dell’enclave serba di Gracanica… prima che fosse distrutto anche il muro.
Come era la vita… prima del 1999? Ce lo racconta un ex operaio della fabbrica Zastava, Milko. Sono frammenti di avvenimenti e verità, nascoste o falsificate per «formare» una opinione pubblica occidentale consenziente alla «necessità della guerra umanitaria».
«Il nostro vicino di casa era albanese. Per oltre 30 anni abbiamo vissuto da buoni vicini e amici, in tutte le vicende della vita quotidiana. Anche prima del ’99, quando gli estremisti albanesi facevano protestare per maggiori diritti e più autonomia, ogni loro famiglia era obbligata a partecipare in qualche modo alle manifestazioni, sotto le minacce dell’Uck (Esercito di liberazione del Kosovo) che a quei tempi era clandestino, ma commetteva numerose aggressioni e attacchi, soprattutto contro quegli albanesi che si mostravano indifferenti o distaccati di fronte a tali proteste.
Di fatto nessuno di loro poteva esimersi dal farle, altrimenti gli ammazzavano gli animali, bruciavano i campi o, peggio, attaccavano casa o persone, se sapevano che erano addirittura contrari. Così, per non incorrere in questo, anche i nostri vicini facevano scioperi della spesa o non mandavano a scuola i bambini, non pagavano le bollette e altre cose.
Ma l’accordo tra noi era che, in quei periodi, gli facevamo noi la spesa, badavamo ai campi o alle bestie, se bisognava portarle fuori, gli procuravamo medicine o altre piccole commissioni o fabbisogni giornalieri. Questo per dare l’idea di come era la vita di tutti i giorni; e ciò valeva anche tra le altre famiglie del villaggio. Amici e buoni vicini per 30 anni.
Con l’intensificarsi delle violenze e degli assalti, la mia famiglia fuggì profuga in Serbia, ma io rimasi, vivendo nei boschi intorno alla casa, sperando che non la bruciassero. Ma una sera aspettai il mio amico al suo ritorno dai campi, cercando il momento in cui nessuno ci potesse vedere, piché se si sapeva che un albanese parlava con un serbo, rischiava di essere ucciso dall’Uck. Avevo pensato di regalargli la mia mucca prima che venisse rubata dai terroristi.
Quella sera, lo chiamai, ma lui non mi salutò più; mi guardava come fossi un fantasma, uno sconosciuto. Il fratello, che era venuto dall’Albania, mi insultò e minacciò, urlandomi che avrebbero ammazzato tutti i serbi e che sarei dovuto andarmene via subito se non volevo morire. Ma non è stato tanto questo, lui non era un mio amico; è stato guardare negli occhi una persona con cui hai vissuto accanto per 30 anni ed essa faceva finta di non conoscermi. So che forse era per paura o terrore di essere considerato amico dei serbi, per paura di quelli dell’Uck, per salvare la propria famiglia, la propria casa, la terra… Ma in quel momento, quella sera, in quel sentirnero sulle nostre terre, sui nostri campi, che ogni sera percorrevamo insieme per tornare dalle nostre famiglie… quella sera ho pianto.
Ho compreso fino in fondo che nulla sarebbe più potuto tornare come prima, mai più. Non solo perché si stava vivendo una situazione spaventosa, non solo perché quello è stato il tradimento di 30 anni di amicizia, ma perché è stato un tradimento nell’anima. Eravamo sempre stati amici, i bambini cresciuti insieme, feste fatte insieme, aiuti reciproci e questo non lo si potrà più dimenticare.
Ma non si potrà più tornare come prima. Ci hanno traditi, forse per paura del terrore dell’Uck, forse per opportunismo, per prendersi le nostre case e terre, forse, forse, forse… Ma nulla e nessuno potrà cancellare cosa è successo e cosa ci hanno fatto. Noi non lo dimenticheremo mai e neanche i nostri figli».
Sono tornati i tempi drammaticamente descritti dal poeta serbo V. Petkovic Dis (1880-1917) all’inizio del Novecento:
«… I tempi neri della distruzione sono arrivati.
Sono gonfiati la feccia, il vizio, la malvagità.
Il marcio puzzo del declino si è levato.
Tutti gli eroi e i poeti sono morti.
Le tane, i covi e i canali sono scoperchiati,
i sotterranei sono elevati al sole del giorno.
Tutti subdoli, tutti maledetti, tutti piccoli…».
Enrico Vigna