DOSSIER KOSSOVOSerbi del Kossovo, palestinesi d’Europa
Presente e futuro del Kosovo: aspetti politici
Intanto prosperano le mafie d’ogni tipo.
Dalla conoscenza della situazione sul campo emerge un dato di fatto: le divisioni intee alle comunità delle enclavi. All’opera di frammentazione e disgregazione di tali comunità non sono estranee le forze di occupazione: ciò rende loro tutto più semplice; ma tutto è più complicato per chi vuole resistere.
In una situazione di miseria e sfacelo totale dal punto di vista sociale, bastano poche centinaia di euro o banali facilitazioni e agevolazioni, per dividere e spaccare la gente.
Una delle cause che spacca in due le comunità delle enclavi, per esempio, è l’imposizione di rappresentanti indicati dalla Kfor: una parte rifiuta di riconoscere chi non è indicato o eletto direttamente dalla gente (vedi riquadro), altri accettano con rassegnazione per non indispettire gli occupanti e non aggravare ulteriormente la situazione di vita quotidiana.
Le comunità del Kosovo nutrono grande sfiducia anche verso i propri rappresentanti ufficiali presso l’Amministrazione temporanea del Kosovo, come i due Ivanovic (Milan e Ivan) e la stessa Rada Trajkovic, leaders del Consiglio nazionale serbo del Nord Kosovo. In ogni colloquio avuto, nessuno ha mostrato convincimento o adesione a queste figure. Si sente chiaramente l’assenza di una vera e riconosciuta leadership sul campo, che riesca a dare indicazioni e prospettive positive e costruttive, per far uscire il popolo serbo kosovaro da una situazione di annichilimento e totale sconfitta.
Ancora più profonde sono le distanze e l’estraniamento dai partiti politici di Belgrado, la dimostrazione si è avuta con il totale rifiuto a votare nelle elezioni dello scorso anno e nelle precedenti l’affluenza era stata la più bassa storicamente.
Un altro umore palpabile nelle enclavi è la profonda ostilità verso la comunità internazionale, ritenuta colpevole di tutto quanto è successo, più responsabile persino dell’estremista albanese. Questo, tra l’altro, nel 1998 era stato praticamente debellato, sia politicamente che militarmente: ma poi è stato assunto e diretto dalle centrali estere e la partita è stata capovolta, portando il Kosovo nell’abisso sociale e umano in cui è ora.
In ogni dove, qualsiasi persona con cui si parli, lavoratore o contadino, rappresentante di comunità o religioso, risuona lo stesso ritornello: «Siamo soli, ci hanno abbandonato tutti, si sono dimenticati di noi».
Non è una cantilena retorica né una piaggeria, ma una lettura della posta in gioco, fatta da uomini semplici, ma «coscienti e intelligenti» della propria situazione, legata ad eventi e dinamiche inteazionali da cui dipendono il presente e, soprattutto, il loro futuro.
I «Guardiani del Ponte»
La città di Mitrovica è in una situazione molto particolare e diversa, per molti aspetti, dal resto del Kosovo. Prima di tutto, qui si stanno concentrando migliaia di serbi molto determinati, che non vogliono abbandonare la propria terra e vivere da profughi lontani. Anche numericamente rappresentano una realtà non facile da addomesticare. In secondo luogo, la città ha alle spalle una zona ancora controllabile e sicura, che la unisce alla Serbia. Inoltre, la popolazione è molto unita e determinata a resistere fino in fondo ai futuri assalti che verranno.
Secondo l’Osce (Organizzazione sulla sicurezza e la cooperazione in Europa) e l’Unmik, la popolazione riconosce e ha nei «Guardiani del Ponte» una valida e radicata forza di autodifesa. Si tratta di un’associazione di volontariato civile costituita dopo i bombardamenti Nato del 1999, per proteggere la comunità della parte nord di Mitrovica e impedire le incursioni degli estremisti albanesi attraverso il ponte sul fiume Ibar che unisce le due parti della città.
Più volte la Kfor ha cercato di smantellare questa associazione. Ma, nonostante le indagini e tentativi di criminalizzarla, essa è circondata dalla totale solidarietà della popolazione, che la rende impenetrabile alle infiltrazioni di investigatori che vogliono scoprie le strutture intee e il funzionamento.
Alcuni suoi esponenti ufficiali, che si definiscono membri dell’«Associazione dei cittadini di San Dimitrije», hanno dichiarato che l’obiettivo è la protezione dagli attacchi degli estremisti albanesi contro la popolazione civile e l’assistenza umanitaria per i più poveri. Stime ufficiose dell’Osce e dell’Unmik, ritengono che i militanti a tempo pieno siano 400-500, con una capacità di mobilitazione rapida di 4-5000 persone.
Nell’incontro avuto con un esponente dei Guardiani del Ponte, è emersa con lucidità la lettura della situazione e delle prospettive future, insieme alla determinazione, per nulla emotiva, di lottare per la propria sopravvivenza come popolo. La loro coscienza politica (non in senso di partiti) e di identità nazionale indica in Mitrovica quella che sarà l’ultima trincea della resistenza del popolo serbo kosovaro, per impedire l’annientamento nel Kosovo pulito etnicamente.
La loro forza di mobilitazione ha portato al ponte migliaia di persone, notte e giorno, per protestare contro l’arroganza verso la popolazione civile da parte delle truppe Kfor, prima quelle americane, poi quelle tedesche. Dopo giorni di assedio, per non aggravare ulteriormente una situazione già ad altissima tensione, l’Unmik le ha sostituite con un contingente francese.
Altrettanto fondamentale è stata la mobilitazione dei «Guardiani» durante le violenze del marzo 2004, impedendo alle orde degli estremisti albanesi di assaltare la zona nord, in una vera e propria battaglia campale durata tre giorni lungo il fiume Ibar e attorno alla città.
Rischio effetto domino
L’indipendenza entro la metà del 2006 è ormai una scadenza «ufficiosa», neanche più nascosta. Se ne discute in istituzioni locali e inteazionali e tra la gente. A luglio dello scorso anno, lo pseudo-parlamento di Pristina ha votato alcuni emendamenti alla costituzione federale della provincia, tra cui il diritto a indire un referendum per l’indipendenza.
Il problema per tutti è come farla passare e accettare senza combattimenti e altro sangue. Un evento del genere potrebbe risvegliare forti sentimenti patriottici, di dignità e identità nazionali nella stessa Serbia; tali sentimenti potrebbero saldarsi a quelli della resistenza dei serbi kosovari, gettando benzina su una situazione che le forze inteazionali denunciano ad alto rischio conflittuale, capace di far precipitare i Balcani in una nuova spirale di guerra.
Così verrebbero stravolti tutti i disegni di pacificazione armata pianificati in questi anni di occupazione da parte della Nato e delle forze occidentali. Si riproporrebbe uno scenario di «instabilità regionale», autentico rompicapo per la «comunità internazionale». Non è in gioco solo il Kosovo, ma tutta l’area balcanica.
Tale avventura provocherebbe un effetto domino. A nord coinvolge la Serbia meridionale, dove recentemente è stato deciso di dispiegare ulteriori forze dell’esercito serbo, per il susseguirsi di atti provocatori del cosiddetto Esercito di liberazione del Presevo, Medvedja e Bujanovac. Questi «liberatori», oltre a chiedere apertamente la secessione di tali regioni dalla Serbia e l’unificazione col Kosovo albanese, sembrano essersi legati all’Armata nazionale albanese, che a sua volta mira alla costruzione della «Grande Albania».
Anche nella provincia del Sangiaccato, sono ormai migliaia i serbi e i rom che, sotto minacce e violente pressioni da parte degli estremisti albanesi, stanno lasciando la città di Novi Pazar e villaggi circostanti; qui, tra l’altro, dopo numerose e violente dimostrazioni degli estremisti, è stato concordato il ritiro dalla città dell’esercito serbo.
Ma «l’instabilità regionale» coinvolge anche la Macedonia: in molte aree del paese è ancora in vigore il coprifuoco e, da anni, la minoranza albanese cerca la secessione e l’unificazione con il Kosovo e l’Albania.
Un eventuale ribaltamento del «giocattolo Kosovo» potrebbe coinvolgere anche la Grecia, dove dall’anno scorso si è formato un partito della minoranza albanese che rivendica il nord del paese come territorio albanese e predica la separazione.
Non bisogna dimenticare la zona a sud del Montenegro, abitata in grande maggioranza da albanesi. Questi, l’anno scorso, hanno ottenuto una serie di agevolazioni giuridiche, economiche, doganali, linguistiche, evidente riscossione del sostegno dato dall’ex Uck a Djukanovic, attuale presidente montenegrino. Di fatto, per potersi affermare, il presidente ha stipulato patti non solo con la mafia pugliese (come risulta da incriminazioni e mandati di cattura emessi dalla procura di Bari), ma anche con la mafia albanese, indicata dalla Dea (Agenzia antidroga statunitense), come strumento operativo di controllo economico e militare dell’Uck.
Europa-USA: strategie diverse
È evidente che, sotto la cenere di quell’area, la posta in gioco è molto alta e va ben al di là dei diritti della comunità serba e non albanese della regione kosovara. Perciò i negoziati, che in questo 2005 dovrebbero definire lo «status finale» del protettorato Kosovo, contengono aspetti e implicazioni politiche estremamente delicate: esse riguardano i futuri assetti geostrategici di tutta la regione balcanica, cui sono coinvolti pienamente i rapporti tra l’Europa e il gendarme americano, insieme alle loro rispettive mire e interessi.
Per questo appaiono sempre più marcate le contraddizioni tra le strategie Usa da una parte e quelle di Germania e Francia dall’altra. Esse emergono sia negli aspetti politico-amministrativi della regione che nella sponsorizzazione di alleati locali privilegiati. Ma anche negli aspetti di investimenti economici e processi di ricostruzione mire e obbiettivi strategici appaiono diversi.
Non meno diversificati si rivelano gli approcci alla situazione e alle problematiche concrete dal punto di vista militare, come nel caso scoppiato a Mitrovica, nel marzo 2004: dopo giorni di violenza, le leali relazioni instauratesi con il contingente francese, hanno impedito alle forze fasciste albanesi di conquistare la parte nord della città, permettendo alla comunità serba di dispiegare le misure difensive e ricacciare al di là del fiume Ibar gli assalitori.
Il ruolo e le funzioni della Kfor e dell’Unmik, reggenti del «protettorato» Kosovo, sono chiari e precisi agli occhi di tutti: se da un lato sono la garanzia minima all’esistenza fisica delle enclavi, dall’altro rappresentano solo un processo di transizione all’indipendenza, prospettiva ormai pubblica e dichiarata di tutte le forze politiche albanesi kosovare.
In virtù di tale funzione, il rapporto con le comunità serbe e non albanesi è fondato sul concetto di pace armata: o queste accettano lo status quo, seppur illegittimo, o il ricatto di lasciare campo libero alle bande criminali e fasciste albanesi.
È chiaro che i rapporti di forza sul campo non sono solo a sfavore, ma proprio non esistono minimamente; e il fatto di restare a vivere nelle enclavi è una forma di resistenza civile a una situazione di fascismo e razzismo legittimati, in quanto tutto parte da una motivazione fondata sulla base etnica.
Finora la Kfor non ha permesso di distruggere definitivamente le ultime comunità serbe rimaste; ha impedito gli attacchi finali ai due monasteri di Pec e Decani, difendendoli più volte con le armi. Tuttavia, essa resta una forza straniera di occupazione e il «garante» de facto del processo di pulizia etnica perpetrata dal marzo ’99 ad oggi dalle bande criminali dell’Uck, per spianare la strada verso l’indipendenza.
Le risoluzioni del 99
In una situazione internazionale, dove i padroni del mondo stabiliscono, in base ai propri interessi, non solo ciò che è bene e ciò che è male, ma anche quali popoli devono vivere e quali devono morire, è terribilmente complesso trovare, oggi, una soluzione realistica e praticabile.
La popolazione serbo kosovara e non albanese chiede il ritorno dell’esercito e della polizia serbi. Ma è evidente che la Serbia di oggi, in ginocchio economicamente e socialmente, genuflessa ai dictat della Nato, non abbia la forza né la volontà di imporre tale ritorno. Il governo non va al di là di qualche dichiarazione di circostanza a uso elettorale e per mantenere la pace sociale; mentre le forze progressiste e patriottiche sono troppo deboli per farsi vettori di un progetto così grande.
L’obiettivo su cui dare battaglia politica può essere solo l’applicazione della Risoluzione 1244 dell’Onu del 1999, che sancisce la sovranità federale della Serbia Montenegro sulla regione, la presenza della polizia e dell’esercito serbo a garanzia e protezione della legalità costituzionale di tutte le etnie e il diritto al ritorno delle centinaia di migliaia di profughi di tutte le minoranze costrette a fuggire e profughe.
Oggettivamente questa è l’unica possibilità, in alternativa al piano di «cantonizzazione», opzione ormai apertamente sostenuta anche all’interno della «comunità internazionale», come definitivo seppellimento di ipotesi di sovranità e diritti nazionali: obiettivi validi ormai non solo per la Serbia e il Kosovo, ma per qualsiasi popolo o paese «renitente» o «resistente» all’ordine mondiale targato Usa.
Per quanto l’applicazione delle Risoluzioni Onu, data la situazione attuale, possa sembrare irreale, il problema Kosovo non riguarda solo la Serbia, ma deve richiamare la responsabilità di quella Comunità internazionale che lo ha causato. Le forze dei paesi occidentali, che si dicono impegnate nel difendere gli interessi dei popoli, dovrebbero almeno sostenere questa battaglia, come risarcimento morale e politico per non essere state capaci di impedire la guerra di aggressione e distruzione della Jugoslavia.
Geostrategia occidentale
Odio e terrore sono stati pianificati e programmati come parte fondante del progetto per la pulizia etnica del Kosovo, in vista della costruzione della Grande Albania, da parte delle forze terroriste e secessioniste anti-jugoslave dell’Uck. Ma le loro mire sono diventate funzionali ai piani geostrategici dell’Occidente e dell’imperialismo della Nato, nella sua marcia verso la Russia.
Molto semplicemente e banalmente, non poteva restare una Serbia non allineata e non asservita, nelle retrovie di una Europa orientale, ormai tutta occupata ed egemonizzata dalla Nato e dal Fondo monetario, fino ai confini russi, (escluse Bielorussia e Moldavia). Ciò spiega la presenza della base Usa di Bondsteel, la più grande dai tempi del Vietnam, su terreni confiscati con metodi brutali e per 99 anni.
Cosa ci fanno decine di migliaia di marines? Forse per timore di qualche migliaio di vecchi, donne e bambini delle enclavi, o per assistere «spiritualmente» gli albanesi kosovari che, tra le altre cose, si dichiarano musulmani e hanno costruito una moschea chiamata… Bin Laden? E Camp Goldsmith, l’altra base che stanno costruendo, è forse anch’essa per salvaguardare i diritti, democrazia, libertà?
È evidente a tutti che sono in gioco questioni strategiche, corridoi energetici, risorse, «investimenti», privatizzazioni selvagge e illegali, pezzi di industrie e miniere locali. Altro che genocidi, fosse comuni, diritti, democrazia, libertà.
Come ha scritto F. Battistini sul Corriere della Sera il 28-11-04: «Cinque anni dopo, sono ancora introvabili le fosse comuni denunciate all’epoca. Dal ’99 a oggi, l’Unione Europea ha già speso 2 miliardi e 877 milioni di euro, il più grande investimento mai fatto all’estero, senza contare il costo dei 18 mila soldati della missione Kfor-Nato, senza alcun risultato».
Queste non sono analisi, supposizioni o interpretazioni, ma realtà fatta anche di cifre, dati, atti e fatti documentati e scolpiti nella storia.
Per quei popoli, però, tale storia ha un prezzo di miseria, devastazione umana e sociale, umiliazioni e vessazioni che si protrarranno per generazioni, con una eredità di odio e violenze che non potranno essere placate con buoni propositi, scuse formali o intendimenti compassionevoli. Occorrerà che la «storia» renda giustizia per il popolo serbo e jugoslavo: anche se questo richiederanno altri prezzi da pagare.
Sotto il pugno di Dio
Stando così le cose, non so se esiste un avvenire per i serbi e le altre minoranze perseguitate nel Kosovo. È probabile che quelle decine di migliaia di bambini, donne, giovani che vivono ancora nelle poche enclavi rimaste, dovranno, nella stragrande maggioranza, lasciare le loro case, la terra e la stessa vita. Molti hanno dichiarato che resteranno per resistere e morire, perché è giusto così secondo loro. Rimane una sola alternativa: restare per morire nella propria terra, o abbandonare tutto e vivere da profughi.
A togliere ogni illusione si era aggiunta la nomina a primo ministro del governo di Pristina di Ramush Haradinaj, ex comandante dell’Uck, per il quale il Tribunale internazionale dell’Aja aveva pronto un mandato per crimini di guerra contro la popolazione serba. (L’8 marzo scorso il premier si è dimesso da primo minitro e attualmente è detenuto nelle carceri del Tribunale penale internazionale dell’Aja, ndr).
È un paradosso: il politico che doveva garantire la sicurezza e la vita dei serbi nel Kosovo è tra le figure di spicco dei crimini e della pulizia etnica perpetrati in quelle terre. Egli era comandante dell’unità denominata Cipat, operante nella zona di Decani: sotto il suo comando gli squadroni della morte hanno compiuto centinaia di crimini efferati.
Per l’esattezza, Haradinaj è accusato ufficialmente di aver assassinato direttamente 67 serbi e di avee ordinato l’uccisione di altri 267.
Tra i kosovari è noto anche come «pugno di dio» sia per le capacità pugilistiche che per le sue pratiche intimidatorie di spogliare e pestare a sangue serbi e nemici, attaccarli a dei pali e trascinarli per le strade soprattutto di Pristina.
Nel 2000 ha avuto un conflitto a fuoco con le truppe russe della Kfor, che gli impedirono di assaltare e bruciare le case di un enclave serbo. Dimessa poi l’uniforme, si presentava con cravatte e vestiti firmati dai migliori stilisti occidentali.
Capo dell’Alleanza per il Futuro del Kosovo, da lui fondata nel ’99, alle elezioni di ottobre 2004 ha preso l’8% dei voti, ma è divenuto primo ministro coalizzandosi con la Lega democratica del Kosovo, partito di I. Rugova, beniamino di politici e mass media occidentali, paladino della non violenza e dei diritti umani.
Una bella alleanza: un presunto gandhiano con un criminale assassino accertato, arrivato al potere, tra l’altro, dopo una faida sanguinosa tra i due partiti, con la morte di oltre 70 albanesi appartenenti ai due clan. Poi, grazie probabilmente all’interesse reciproco della spartizione del potere e suoi derivati, è scoppiata la pace e l’unità.
D’altronde l’anno scorso (31-7-04), in un’intervista al giornale tedesco Der Spiegel, l’ex premier kosovaro albanese ed ex compare di Rugova, B. Bukoshi, ha denunciato che il governo kosovaro si basa su strutture e pratiche mafiose ed è totalmente inquinato dalla criminalità. E ha portato una sfilza di dati: ministri che assumono 200 persone della propria famiglia in uffici pubblici; bandi e concorsi senza esami, ma con liste già precostituite di coloro che saranno assunti; riciclaggio di denaro sporco attraverso privatizzazioni ed espropriazioni di beni statali e privati serbi…
Questo è il Kosovo oggi, secondo i dati inteazionali.
Enrico Vigna