DOSSIER KOSSOVOSe questa… è vita

Viaggio nelle enclavi del Kosovo

L’enclave di Gorazdevac, dove sopravvivono circa 760 persone, è un esempio della situazione dei serbi in Kosovo: senza servizio sanitario, senza lavoro, senza alcun diritto, mentre abbondano provocazioni e vessazioni di ogni genere.

Negli ultimi 6 anni ho seguito costantemente e da vicino le vicende della regione che gli albanesi chiamano Kosovo e i serbi Metohija. La realtà, constatata nel vivo della vita quotidiana sul posto, ha superato qualsiasi analisi, valutazione o cognizione di causa.
Le parole dette da un militare italiano, in una chiacchierata informale, possono dare un’idea della realtà delle enclavi: «Per un mese, dal mio arrivo sul posto, sono rimasto scioccato da cosa vedevo e conoscevo circa le enclavi e la vita in esse…». Parole di un militare, membro di truppe di occupazione straniera.

Viaggio sotto scorta

Sono stato in Kosovo dal 13 al 18 gennaio 2005. Insieme al sottoscritto, invitato dalla comunità dell’enclave di Gorazdevac, facevano parte della delegazione due sindacalisti della fabbrica automobilistica Zastava di Pec e le due responsabili dell’Ufficio adozioni inteazionali dello stesso sindacato.
Abbiamo portato contributi economici raccolti dal Progetto Sos Kosovo, lanciato nel dicembre scorso dall’Associazione Sos Yugoslavia, oltre a doni in dolciumi e vestiario con il contributo del sindacato stesso.
Il viaggio è stato possibile grazie alla scorta della Kfor, che ci ha permesso di andare a visitare e incontrare anche le realtà di Pec e Decani, oltre a Mitrovica, cittadina con la più alta concentrazione della comunità serba.
Il ruolo della scorta, soprattutto nella prima notte, ma anche al ritorno, se ne è andata un po’ per conto suo, lasciandoci spesso lontani e abbastanza indifesi ed esposti a eventuali violenze, se si esclude il soldatino del contingente rumeno, che saliva con noi sul furgone col suo mitragliatore, quasi più grande di lui.
Bisogna dire che l’unica funzione reale è quella di formale deterrente, dato lo spaventoso livello di odio e violenza che viene manifestato lungo le strade da ragazzini e non, al passaggio di macchine scortate, che hanno il significato della presenza di serbi o… amici dei serbi, che porterebbe allo stesso non piacevole risultato se si finisse in mezzo alla gente. Nella normalità accadono soltanto gestacci, minacce, sputi sui vetri o sassi volanti; altre volte, come il novembre scorso, lo stesso convoglio è stato attaccato con bottiglie molotov e, a dicembre, con una sassaiola: in entrambi i casi sono stati distrutti i bus e provocati numerosi feriti non gravi.
La scorta come spesso in questi 6 anni, non è riuscita a impedire nulla e nemmeno a identificare nessuno delle decine di assalitori albanesi. A detta della gente del posto, ogni volta che gli estremisti albanesi attaccano, la Kfor si defila o si allontana, per poi ricomparire quando gli avvenimenti prendono una piega incontrollabile.
A onore della verità, questo finora non è successo nella difesa dell’antico patriarcato di Pec e al monastero di Decani, dove ci è stato detto dell’impeccabile e finora decisivo compito difensivo svolto dal contingente italiano contro le orde criminali per evitae la distruzione.

Situazione sanitaria nelle enclavi

In quella di Gorazdevac, dove sopravvivono circa 760 persone, la sanità è una stanza adibita ad ambulatorio, con la presenza di una dottoressa del posto che vive all’interno dell’enclave. In altre enclavi viene portato un medico sotto scorta una o due volte la settimana per incontrare la gente.
Non vi sono strumenti né macchinari per fare esami. Mancano praticamente ogni tipo di medicine, salvo quando arrivano quelle donate. Nel nostro viaggio abbiamo portato tre scatole di medicinali; erano alcuni mesi che non ricevevano nulla. Ma le nostre medicine non erano specifiche, bensì frutto di una raccolta generica, forse di poca utilità.
In caso di malattia occorre fare una richiesta 72 ore prima alla Kfor (Forza militare di pace in Kosovo), per essere portati sotto scorta all’ospedale di Mitrovica Nord e ricevere cure o fare controlli ed esami. E questo per casi urgenti; per il resto si può aspettare anche mesi.
Ma, non essendoci farmaci specifici né interventi di pronto soccorso, in quei tre giorni di attesa si può anche morire: è successo a vari anziani con problemi cardiaci e a bambini bisognosi di ricovero immediato.
A ciò si aggiungono le drammatiche conseguenze dei «bombardamenti umanitari» con l’uranio impoverito: l’argomento è top secret; non si hanno dati, cifre o numeri. Ma è entrato normalmente nella vita della popolazione kosovara, albanesi e serbi, questa volta in modo unitario e paritario. Per «liberarli» li hanno investiti con centinaia di tonnellate di proiettili «arricchiti di uranio impoverito».
Dalle mappe del Dipartimento delle pubbliche informazioni dell’Onu risulta praticamente uranizzata l’intera area, in ogni suo angolo: l’inquinamento della terra e delle falde acquifere è praticamente ufficiale; tanto che l’uso dell’acqua dei rubinetti è sconsigliata anche solo per lavarsi i denti, figurarsi per dissetarsi o fare da mangiare.
Gli stessi soldati della Kfor hanno l’ordine di non bere acqua fuori dalle loro basi: all’interno viene usata esclusivamente acqua minerale.
Ma a chi non ha soldi per fare scorte di acqua minerale per tutti gli usi e a chi, come i prigionieri delle enclavi, può procurarsela solo periodicamente e in modiche quantità, quale destino gli spetta?
Intanto, si sa ufficiosamente che sia tra i neonati degli ultimi tempi, che nelle stesse nascite di animali, sono centinaia i casi di deformazioni e malattie, legate all’uranio impoverito.
Ha denunciato il padre francescano J. M. Benjamin: «Il 70% della regione del Kosovo e il 30% della Serbia sono contaminati. È scandaloso e riprovevole il comportamento dei mass media di tutto il mondo nei confronti dell’uranio impoverito… Ancora una volta gli organi di informazione si mostrano asserviti ai dettami del potere che, come d’abitudine, rende noto solo quanto conviene ai suoi scopi».

Lavoro e scuola nelle enclavi

L’unica possibilità di lavoro è offerta da piccoli appezzamenti di terra estei alle case, ma interni alla zona protetta. L’enclave, infatti, è formata da due zone. La prima è quella in cui vive la comunità, con le case non distrutte o incendiate, in un diametro vitale di circa 1 km: è la fascia più controllata e vigilata (vi è anche il campo militare della Kfor); da qui nessuno può entrare o uscire senza permesso.
La seconda è formata da campi e boscaglia che circondano il villaggio: anche questa si estende per circa un altro chilometro, con una seconda linea più estea di vigilanza della Kfor; ma è meno controllata e quindi più pericolosa.
In quest’area gli uomini vanno ogni giorno a lavorare un pezzo di terra, con il rischio, come più volte successo in questi anni, di rimanere vittime dei cecchini, di incursioni terroristiche improvvise o delle mine disseminate dall’Uck.
L’economia della comunità si basa esclusivamente su questi orti familiari e sull’allevamento di qualche animale per il sostentamento familiare. Altre entrate sono le pensioni degli anziani (50-60 euro), erorate dalla Serbia, e il sussidio mensile di disoccupazione (60 euro, che scadrà a settembre 2005) degli unici 17 ex lavoratori della Zastava di Pec, che dal marzo ’99 non possono più recarsi al loro posto di lavoro, colpevoli di essere serbi.
Nell’enclave vi è soltanto un piccolo bazar, rifornito periodicamente di prodotti su richiesta, e un bar, dove non vi sono neanche le sedie.
Nell’enclave di Gorazdevac, vi è solo la scuola elementare, con un centinaio di bambini, la presenza di alcuni maestri e un ottimo direttore. L’Unmik (Missione Onu per l’amministrazione ad interim del Kosovo) voleva sostituirlo con uno più «fiduciario» ai suoi interessi ed esigenze amministrative, ma la comunità si è opposta con forti proteste perché restasse nel suo incarico.
La vita dei bambini ruota tutta intorno alle ore passate nella scuola, dove tutto è vecchio e manca ogni cosa, dalla cancelleria alle attrezzature. Il resto delle loro giornate, da 6 anni a questa parte, è in casa o nelle strade sterrate del villaggio; essi non devono assolutamente andare in prossimità delle ultime case, per non rischiare di venire colpiti da eventuali cecchini.
Nell’agosto del 2003, un gruppo di ragazzi dell’enclave era andato a poche decine di metri per bagnarsi in un torrente, quando, dal bosco, fu bersagliato con raffiche di mitra: due ragazzi furono assassinati; altri quattro feriti, due dei quali sono invalidi permanenti.
I ragazzi delle enclavi che vogliono proseguire gli studi delle scuola superiore o l’università hanno una sola possibilità: recarsi nella cittadina di Mitrovica nord. Vi si recano all’inizio della settimana con l’autobus scortato dalla Kfor, dormono presso parenti o nella casa dello studente e rientrano al venerdì. Per gli studi universitari la cosa più semplice è dare solo gli esami senza frequentare.


In balia del razzismo etnico

A riguardo dei diritti c’è poco da dire: chi vive nelle enclavi è di fatto un prigioniero; soprattutto è un essere umano senza nessun tipo di diritti umani, civili o sociali.
In Kosovo, oggi, vige una situazione di apartheid. Chi non è di origini schipetare (albanesi) sopravvive in una sorta di limbo, fondato sul razzismo etnico: sono negati il diritto al lavoro, a essere curati, all’istruzione, alla spesa anche solo per il sostentamento alimentare della propria famiglia, alla libertà di movimento, al diritto del proprio credo religioso.
Persino la continua e provocatoria interruzione della foitura dell’acqua e dell’elettricità, sono usate per rendere impossibile l’uso dei frigoriferi (per affamare la gente, poiché le scorte alimentari marciscono), delle radio e tv, dei telefoni, unico filo virtuale di comunicazione col mondo reale, impedendo praticamente anche una allucinante normalità.
In compenso la Compagnia elettrica kosovara sta mandando a tutte le famiglie serbe ancora presenti le bollette con gli arretrati di tutti questi anni: bollette che arrivano anche a 1.000 euro.

Storie di ordinaria ingiustizia

In pochi giorni siamo stati subissati da centinaia di storie di vessazioni, come quella di un contadino bastonato a sangue, arrestato perché indicato da un albanese come un criminale, in prigione per tre anni, senza avvocati né alcun tipo d’interrogatorio, poi rilasciato e minacciato di morte affinché abbandonasse il Kosovo.
Un’altra storia riguarda una madre di 5 figli, aiutata dalla nostra Associazione. I banditi dell’Uck le hanno ucciso il marito e bruciato la casa. I resti dell’abitazione si trovano, ora, ai lati della base della Kfor, che le impedisce di tornare a viverci per motivi di sicurezza militare. Anche se diroccata, è l’unica cosa che le rimane e tornarvi è meglio che continuare a vivere in case di altri. Ha deciso di piantare una tenda dove c’era la casa e la Kfor dovrà cacciarla con la forza insieme ai suoi bambini.
Altre storie riguardano il comportamento della Kfor. Durante il capodanno degli albanesi, alcuni di loro erano andati verso l’enclave sparando raffiche di mitra e lanciando granate. La gente dell’enclave protestò presso la Kfor perché intervenisse per sequestrare le armi (visto che le enclavi erano state minuziosamente perquisite); ma i soldati, indispettiti, hanno intimato ai serbi di rientrare nelle case e di non insegnare a loro cosa dovevano fare. Durante il capodanno ortodosso, invece, i soldati accorsero e requisirono ai bambini serbi dell’enclave alcuni petardi con cui giocavano… perché disturbavano.
Oppure la storia di un anziano, padre di un giovane che è venuto in Italia in cerca di lavoro e ora è in regola con i documenti. Il figlio lo ha invitato in Italia per rivedersi dopo 5 anni e prima che il genitore muoia. Per andarci avrebbe bisogno del timbro del consolato italiano di Pristina; ma il vecchio non può uscire dall’enclave e andare a Pristina: essendo serbo lo possono ammazzare.
Ci vorrebbero giorni e mesi interi per raccontarle tutte; le storie riportate bastano per dare un’idea della situazione allucinante, da antico Far West, ma che accadono nel 2005.

Attenzione: cambiare la targa!

Prima di avventurarsi per le strade del Kosovo è di norma sostituire le targhe delle auto: una vettura con la vecchia matricola federale sarebbe subito attaccata; gli occupanti potrebbero finire ammazzati.
Lo abbiamo fatto anche noi, pur avendo la scorta armata della Kfor: cacciavite e copia taroccata di una targa kosovara e via, nel regno della democrazia e della civiltà portate dall’Occidente.
E tutto con buona pace di quei «primitivi e caveicoli» cittadini kosovari che, fino al 1999, a qualsiasi etnia autoctona del Kosovo Metohija appartenessero, potevano andare dove volevano e con chi volevano.
Sostituire la targa a seconda delle zone in cui ci si trova è reato in tutti i paesi della terra, come lo era in Kosovo 6 anni fa. Ma, paradossalmente, l’invito è quasi un ordine dato dalla Kfor, altrimenti i soldati non rispondono della vita di chi non lo fa. Anzi, ci sono zone dove si è autorizzati a girare senza targa… Viva il Kosovo «libero»!
A parte i bla bla bla occidentali su libertà e democrazia: è il diritto alla vita stessa che viene negato oggi in questa parte d’Europa. Chi cerca di perseguire anche uno solo di quei diritti ritenuti basilari per una minima convivenza umana in qualsiasi paese del pianeta, in Kosovo rischia di essere assassinato.
Vita quotidiana colma di terrore, angoscia, vessazioni materiali e morali, tensioni devastanti per la psiche dei bambini e degli adulti: questo è oggi la provincia del Kosovo Metohija; questo è il risultato dell’aggressione alla Repubblica federale jugoslava di 6 anni fa, con la «guerra umanitaria» e «bombardamenti etici», per portare in quella regione, dicevano, i «diritti» e impedire le violenze o, addirittura, i genocidi.

Enrico Vigna

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