005-Così sta scritto – Amen! Amen! (5)

Esdra benedisse il Signore, Dio grande,
e tutto il popolo rispose:

’Amên! ’Amên!
(Ne 8,6)

In questo e nel prossimo numero esaminiamo una breve parola che incontriamo spesso nel Nuovo Testamento (NT), passata in seguito nella liturgia e a cui non prestiamo la dovuta attenzione: è la parola aramaica ’amên: appena due sillabe, un soffio che si dissolve prima ancora di pronunciarlo, ma carica di significato e di memoria storica e affettiva.
È una parola che ha pregato anche Gesù, per cui ogni volta che la pronunciamo, dovremmo «dirla» con labbra e cuore circoncisi, perché preghiamo in aramaico come Gesù, come sua Madre, come gli apostoli e con loro stabiliamo un rapporto spirituale ed emotivo, che raggiunge le profondità stesse della fede. Chi dice ’amên è una cosa sola con il Signore Gesù.
In un certo senso è come visitare i Luoghi della memoria, andando in Palestina e respirando l’aria che lui respirava, vedendo il cielo che lui guardava, camminando per le strade che lui percorreva, sperimentando il deserto che lui ha sperimentato, attraversando il lago di Tiberiade come lui lo ha attraversato tante volte. Come magica è la Palestina, perché ci parla di lui, se la visitiamo con cuore puro, così le lingue che Gesù parlava (aramaico ed ebraico certamente, greco probabilmente, latino forse qualcosa) ci introducono nel suo mondo interiore, nella sua cultura, nell’anima del suo pensiero: c’immergono nella sua personalità.
La piccola parola ’amên è una chiave per accedere al suo cuore del Verbo incarnato e all’anima della sua divina umanità, perché Gesù la pronunciava nella preghiera, cioè in quel rapporto così particolare che solo lui poteva instaurare con il Padre suo. Il nostro cuore dovrebbe scoppiare di commozione emozionata e il nostro ’amên dovrebbe esprimere tutta la nostra intima gioia.
San Girolamo (347-420) testimonia che, nel suo tempo (iv-v sec. d.C.), nelle basiliche romane la parola ’amên «rimbombava come un tuono», fino a fae tremare le colonne.
Oggi invece assistiamo a liturgie tisicucce e malferme di salute, dove ’amên è buttato all’aria o biascicato senza voce, quasi di nascosto, come se fosse un affare privato e non un solenne e austero atto pubblico di fede. Quest’uso superficiale è il segno che la vita di fede, di cui la liturgia è specchio, può scadere in ritualità vuota, in formule vocali distratte senza passione e vitalità.

Uno dei problemi che si poneva la scienza biblica fino al secolo scorso riguardava la ricerca delle parole precise pronunciate da Gesù: era la questione delle ipsissima verba (le stesse/precise parole) dette da Gesù.
Sappiamo che i vangeli non sono un diario né la cronistoria della vita di Gesù: essi sono scritti occasionali, motivati dalle necessità delle comunità cristiane dove sono nati con lo scopo di introdurre alla fede in Gesù, creduto messia e Dio, oppure di rafforzarla in coloro che già credevano in lui.
Potremmo dire con una frase sintetica che i vangeli sono catechismi scritti da credenti per altri credenti. Essi riflettono la fede e la teologia delle comunità di riferimento degli autori. Non sono stati scritti a tavolino, ma hanno avuto un processo di elaborazione lento e complesso, intanto che nella chiesa del 1° secolo si diffondevano le lettere di Paolo e si diversificavano le comunità ecclesiali sia in Palestina che nel mondo greco.
Cercare nei vangeli le precise/identiche parole che Gesù avrebbe detto potrebbe essere una perdita di tempo, perché nessuno andava dietro a Gesù col registratore. Nella forma definitiva come li possediamo oggi, i vangeli furono messi per iscritto a cavallo tra il 65 e il 100 d.C., cioè dopo circa 35-65 anni dalla morte di Gesù.
Due evangelisti, Marco e Luca, non erano nemmeno apostoli (Luca nemmeno ebreo); mentre agli apostoli Matteo e Giovanni fa capo la riflessione della scuola di pensiero che da essi prende origine e che si sviluppa a partire dalla loro predicazione. I vangeli sono storici, ma non al modo nostro. Essi lo sono al modo degli antichi e quindi dobbiamo essere noi a indagare i testi per scoprie il senso.
Non sappiamo con esattezza matematica che cosa Gesù abbia detto, quali discorsi abbia fatto e quali parole abbia pronunciato in questa o quella occasione. Sappiamo che gli apostoli e altri predicatori, singoli o in gruppo, uomini e donne, hanno diffuso il suo insegnamento oralmente.
Successivamente, nelle varie comunità circolavano elenchi di «detti» o «fatti» (parabole e discorsi, miracoli o azioni) a uso dei predicatori o della liturgia che si svolgeva nelle case. Nella seconda metà del 1° secolo, quattro amici di Gesù mettono in ordine (Lc 1,3) quello che hanno sentito di lui e quello che hanno trovato già scritto su di lui, per aiutare le rispettive comunità a «fare memoria» del Signore Gesù, specialmente durante la liturgia, quando accanto alle letture giudaiche dell’AT si sentì l’esigenza di aggiungere anche la proclamazione di ciò che Gesù ha insegnato e operato durante la sua vita terrena (At 1,1), come compimento delle profezie. Sono i quattro vangeli e più in generale, tutto il NT. Ora le scritture si leggono a partire da lui: ai discepoli di Emmaus, infatti, «cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro le scritture» (Lc 24,27).
In questo lungo processo formativo delle scritture, che esprimono la fede della chiesa primitiva e danno fondamento «apostolico» al nostro credere, scoprire che Gesù nella sua breve vita (trentasei anni circa) certamente pronunciò innumerevoli volte la piccola parola aramaica ’amên come sigillo di tutti i suoi momenti di preghiera personale o pubblica quando frequentava in giorno di sabato la sinagoga di Nazaret o di Cafaao o il tempio a Gerusalemme «secondo il suo solito» (Lc 4,16), dovrebbe essere per noi ancora oggi, specialmente oggi, a distanza di 20 secoli, motivo di grande emozione.

Abbiamo talmente occidentalizzato l’uomo Gesù e anche la sua personalità divina, che abbiamo dimenticato che era ebreo, orientale e non aveva la pelle bianca. Egli era un figlio del sole e del vento, un figlio del deserto con la pelle olivastra e il portamento di un palestinese del sec. i d.C., con la gente parlava aramaico, mentre nel Tempio e in sinagoga pregava e leggeva in ebraico (Lc 4,16-17).
Gesù era un giudeo osservante. Sicuramente, entrando e uscendo dalla sua casa di Nazaret o da quella di Pietro a Cafaao, toccava e baciava sulla porta d’ingresso la mezuzah (stipite), piccolo astuccio contenente alcuni versetti di Esodo e Deuteronomio, in base a Dt 6,7: «Ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per la via, quando ti coricherai e quando ti alzerai».
Gesù portava i capelli lunghi, arricciati alle tempia, per ricordarsi sempre che Dio è il Signore e creatore fino agli estremi confini della terra. Durante la preghiera in sinagoga o nel tempio di Gerusalemme, metteva sul capo il tallìt gadòl (grande mantello), dai quattro angoli del quale pendevano gli tzitziòt (al sing. tzitzìt), cioè le frange fatte con un filo azzurro di lana o di lino con alcuni nodi, che avevano lo scopo di ricordare tutti i comandamenti, secondo le prescrizioni di Nm 15,37-41: «Li guarderete, vi ricorderete dei comandamenti del Signore, li metterete in pratica e non devierete dietro il vostro cuore o i vostri occhi» (cf Dt 22,12; cf Lc 8,44). Quattro verbi che racchiudono tutta la vita del credente: guardare, ricordare, praticare, non deviare.
Sempre, durante la preghiera, indossava anche i filattèri o tefillìn (da tefillàh = preghiera), scatolette di legno contenenti versetti biblici e che si legavano in fronte («in mezzo agli occhi»), sul braccio sinistro («sul tuo cuore») e sulla mano, secondo la prescrizione di Dt 6,4-9 (cf Mt 23,5).
I vangeli ci dicono inoltre che Gesù pregava spesso e, quando non poteva pregare di giorno, perché assediato dalla folla, pregava di notte o al mattino presto. La preghiera era il suo respiro.
Se leggendo il vangelo di Luca, si segnassero tutti i passi dove Gesù prega o è in atteggiamento di preghiera, si scoprirebbe che Lc scrive un vero e proprio «vangelo della preghiera». Vi troviamo, infatti, almeno nove testi diretti, in cui si afferma che Gesù prega personalmente (Lc 5,16; 6,12; 9,18.28.29;11,1; 22,32.41.44), altri in cui invita a pregare e altri in cui qualcuno prega per lui.
Alla luce di questo breve, ma esauriente e necessario contesto, nella rubrica del prossimo numero, ci sarà più facile comprendere il significato di ’amên, questa piccola-grande parola, sintesi sublime di preghiera, senza morire di stupore.

Paolo Farinella