Veloce visita ai luoghi del primo amore missionario e all’isola minacciata dall’insidia del fondamentalismo, dove la piccola comunità cristiana scopre un nuovo modo di essere presente e testimoniare umilmente il Signore Gesù.
L’aereo ha fatto il suo solito giro attorno al Kilimanjaro. Il cielo limpido, il nevaio a portata di mano, le foreste sottostanti… Una visione che, nei numerosi viaggi di andata e ritorno tra Italia e Tanzania, mai mi era sembrata così limpida, chiara e commovente.
Eccomi ancora, dopo 7 anni di lontananza dal Tanzania, a rivedere vecchi amici e confratelli, luoghi dove ho lavorato, le missioni e la gente: povera, ma serena, soprattutto i bambini. Tanti bimbi, sempre sorridenti, anche quando hanno fame, con quegli occhioni grandi e aperti che esprimono fiducia, amore, accoglienza e voglia di carezze.
Scopo del mio ritorno in Tanzania era quello di fare da interprete a due tecnici del Gruppo «Luciano Brenna» di Mariano Comense, Enrico e Marino, inviati per piazzare alcuni macchinari di falegnameria nel Centro pastorale della diocesi di Zanzibar. Grazie al ritardo dell’arrivo del container destinato a Zanzibar, ho potuto realizzare un sogno che da tempo coltivavo in fondo al cuore: un pellegrinaggio, un tuffo nel passato, ma proiettato nel futuro, cioè vedere le necessità, riprendere contatti, rinnovare l’entusiasmo per la missione e cercare di creare ponti tra comunità e chiese.
La visita al cimitero di Tosamaganga, una preghiera sulla tomba di tanti amici che hanno «combattuto la buona battaglia»: padre Aldo, padre Antonio, suor Adelina… Quanti ricordi, quanti esempi di vita totalmente spesa con grande amore per Dio e il prossimo!
Poi a Mgongo, il centro per i ragazzi di strada tenuto da padre Franco Sordella e padre Giulio Belotti: ai miei tempi aveva 12 ragazzi, ora sono più di 300, tra allievi nella scuola di arte e mestieri, falegnameria, carpenteria, calzoleria, sartoria, scuola pratica di agraria… Tra i primi ragazzi raccolti dalla strada, alcuni sono diventati istruttori e hanno formato famiglie stupende.
Iringa, Mafinga, poi Sadani, la «mia» cara missione dove, assieme a padre Luigi Negro, ho trascorso il periodo più bello, laborioso e fruttuoso della mia vita di missionario.
Padre Silvestro Bettinsoli, il parroco, aveva annunciato la nostra visita, ma non mi sarei mai aspettato un così folto gruppo di persone, vecchi e giovani, dopo la messa domenicale, in attesa del nostro arrivo. E, come al solito, le donne anziane, con un piccolo dono per il loro vecchio parroco: Mariamu, due uova fresche di giornata, sicuramente il suo cibo quotidiano; ma dovevo accettarle, altrimenti si sarebbe offesa.
Il vecchio Petri, il lebbroso, guarito ai tempi in cui suor Gemma Ida lavorava al dispensario, anche lui con qualcosa da offrire: due banane e tre pannocchie di granturco, appoggiate sui moncherini senza dita, sorridente e felice, i suoi occhietti sempre furbi e pieni di ironia: «Vedi – pareva dicessero – anch’io mi ricordo di te; di quando, all’inizio delle piogge anche la malattia si riacutizzava con le sue piaghe, mi preparavi i sacchetti di nylon per i piedi, in modo che il siero rimanesse tra le bende e non sporcasse il banco della chiesa. Ora non servono più, sono guarito; eppure continuo a ricordarti e il mio dono, anche se piccolo, è segno della mia riconoscenza».
La maestra Ngatunga, grassa e sempre sorridente, ora preside della scuola, con un bel pollastrello vivo e ruspante, mi fa vedere la foto di suo figlio Lucio (!), ora nel seminario della Consolata di Mafinga. L’avevo portata d’urgenza all’ospedale per il parto; erano in pericolo di vita, lei e il bambino; ora chissà, forse quel bimbo diventerà missionario come me: i piani di Dio…
Finalmente il container è stato sdoganato e così possiamo partire per Zanzibar. Arriviamo nell’isola felice, conosciuta da tanti italiani come fantastica meta tropicale, con i suoi villaggi turistici, spiagge e mari incontaminati, piccole oasi… italiane! E sarebbe davvero un paradiso terrestre, ma c’è anche il rovescio della medaglia.
Zanzibar e Pemba, due isole dell’oceano Indiano, poste al largo del vecchio Tanganika, sultanato arabo fino al 1964, anno della rivoluzione contro gli arabi e dell’indipendenza, hanno alle loro spalle una lunga storia di dominio arabo e musulmano, come tutta la costa dell’oceano Indiano. Erano il centro del commercio degli schiavi dell’Africa Orientale, del legno pregiato, spezie (famosi i chiodi di garofano), avorio.
Da Zanzibar e dal villaggio di Bagamoyo, posto sulla costa a 90 chilometri a nord di Dar es Salaam, era partito il primo missionario medico anglicano, il dott. Livingston, famoso anche per la celebre frase del giornalista Stanley che, dopo cinque anni di ricerca, incontratolo nel villaggio di Majiji, sulle sponde del lago Tanganika, lo salutò: «Doctor Livingston, I presume».
Zanzibar e Pemba, dopo la cacciata del sultano, si erano unite al Tanganika nel 1964, formando così il nuovo stato del Tanzania.
Musulmani per il 99%, avevano sì qualche rigurgito di indipendenza, ma, fino alla distruzione delle Twin Towers, la convivenza tra musulmani e i pochi cristiani era pacifica. Ora alcune frange fondamentaliste stanno provocando disastri, tentando di dividere la popolazione con attentati e altro.
Il vescovo di Zanzibar e Pemba, mons. Shao Augustine, cerca di mantenere la calma, anche se gli hanno bruciato due chiesette e il pulmino, usato ogni mattina per raccogliere gli studenti, in maggioranza musulmani, e portarli a scuola.
Il nostro arrivo a Zanzibar coincide con la fine dell’anno scolastico. Gli alunni della settima classe hanno terminato gli esami di maturità e aspettavano il giorno della graduation, cioè della consegna dei diplomi. Fra i primi della classe, due gemelli: Marie e Peter, figli di padre bianco e madre africana.
Un gruppo di fondamentalisti aveva preso di mira la ragazza perché lasciasse il collegio e la scuola cristiana e si facesse musulmana. Essendo meticcia, dicevano che il padre era arabo e quindi avrebbe dovuto seguire la religione islamica.
Con doni e minacce erano riusciti ad accalappiarla. Era scomparsa dal collegio, senza salutare neppure il suo gemello, e per un mese, nessuno seppe dove fosse. A nulla era valsa la denuncia della madre, tutto era avvolto nel mistero, svelato poi dalla stessa Marie: la tenevano prigioniera perché abiurasse il cristianesimo; avevano perfino progettato di mandarla in Arabia. Ma un giorno, approfittando di un momento di disattenzione dei suoi guardiani, riuscì a scappare. Si presentò alla polizia; gettò via il velo che le avevano imposto di portare e fece ritorno nel collegio cattolico.
Finalmente libera e felice, era in prima fila, accanto al fratello, per la festa della graduation.
Il gruppo fondamentalista, non potendo rifarsi su di lei, ha promesso al vescovo che si sarebbero vendicati: ecco spiegato il fuoco alle due chiesette e al pulmino.
Marie e Peter, subito dopo la festa, sono stati inviati in terraferma, lei in un collegio cattolico nell’entroterra, lui scelse di entrare nel seminario diocesano di Morogoro. Una storia finita bene, ma quante altre non si concludono così.
Parroco di Pemba è un giovane prete tanzaniano, padre Apollinaris Msaki, un mchaga della zona del Kilimanjaro. Aveva studiato islamologia al Collegio san Pietro a Roma. L’avevo conosciuto a Genova, nella mia parrocchia, dove era venuto a sostituire il parroco durante le vacanze estive.
Volevo salutarlo. In battello raggiunsi Pemba, altro paradiso terrestre, con una natura stupenda e gente accogliente. Almeno così la ricordavo, da quando, nel 1984, ero stato per qualche giorno ospite di alcuni medici italiani del Cuam, che operavano nel piccolo ospedale locale. Notai subito un clima di rigetto: «Un bianco che arrivava, cosa era venuto a fare?» mi sembrava di leggere sugli occhi sospettosi della gente.
E padre Apollinaris me ne diede conferma: anche a lui hanno bruciato due delle quattro chiesette costruite nei villaggi dell’isola; poi gli hanno tagliato i tubi dell’acqua e i fili della luce. La polizia locale, alle sue denunce, rispose: «Cerchiamo, vedremo, non sappiamo ancora niente…» e così di seguito.
La parrocchia di Pemba è una delle prime fondate dai missionari delo Spirito Santo, a metà del xix secolo: con una bella comunità di immigrati da Goa, cristiani di vecchia data e attaccati alla loro fede, hanno cercato di testimoniare Cristo e mantenere la loro fede in un mondo prettamente musulmano e ora fondamentalista.
Oggi, tra discendenti goanesi, impiegati governativi e militari venuti dalla terraferma, l’intera cristianità di Pemba conta circa 200 anime: formano un «piccolo gregge – dice padre Apollinaris -, con la missione di presenza e dialogo, senza possibilità di conversioni, ma molto importante per stabilire, in futuro, buoni rapporti tra musulmani e cristiani».
Ho visitato tutte le piccole comunità di base e ho pregato con loro. Ne ho ricavato un’enorme testimonianza di fede, pazienza, amore: quello evangelico, che arriva a perdonare 70 volte 7, ad amare anche i nemici, a cercare ciò che unisce, a testimoniare Cristo, morto e risorto, a rischio continuo della propria vita.
Testimoni e martiri nel vivere quotidiano, figli di una chiesa lontana, giovane, missionaria, povera di cose materiali, ma ricca di fede e vera carità; una piccola comunità cristiana, come quelle dei tempi apostolici.
Grazie, mons. Shao; grazie, padre Apollinaris; grazie, piccolo gregge di Pemba e Zanzibar. Gesù è con noi, sempre, fino alla fine dei tempi. Ma con voi lo è in un modo più tangibile e vero, perché è il Cristo della croce, dei martiri, della frateità che vince ogni divisione.
Lucio Abrami