Sharon e Abu Mazen uomini di pace?

Dopo sessant’anni anni di tormenti, Sharon e Abu Mazen provano la pace. Gli Stati Uniti hanno deciso di imporla nel modo più semplice: non sono disposti a svenarsi per sostenere l’occupazione selvaggia e l’impianto di nuove colonie nel bantu land palestinese. Costa troppo e non se ne vede la fine. Quindi, tagliano i soldi. Il nodo che si poteva sciogliere negli anni Cinquanta (ma anche Sessanta, Settanta, Ottanta, Novanta), finalmente comincia ad allentarsi. Prima era colpa dell’Egitto di Nasser: Londra e Washington non lo sopportavano da quando aveva nazionalizzato il Canale di Suez. Poi entra in scena Arafat. Quel mitra in una mano e l’ulivo nell’altra sul palco delle Nazioni Unite (è il 13 novembre 1974) con l’impegno di «inventare» un popolo la cui identità non convince né arabi né ebrei. Adesso è semplice scaricare sul suo fantasma mezzo secolo di incomprensioni. Il calendario di oggi ricomincia dal 1948 (o dal 1967, guerra prima guerra dopo) ma con mappe aggiornate dall’allargamento «indispensabile alla sicurezza di Israele». Nuovi profughi, bombe ed invasioni.
Si dice: con Abu Mazen si può trattare. Ha promesso di fermare jihad e kamikaze. È un notabile borghese che non sfigura alla Casa Bianca. Con lui sarà facile. Davvero facile? Abraham Yehoshua è lo scrittore il cui genio quieto propone la vita quotidiana di una Israele, dove ebrei e palestinesi sgelano la diffidenza provando a parlare. «Ogni volta che spunta la parola pace il discorso torna a Gerusalemme. Ciascuna parte ne pretende una fetta, più grande, meno grande. Sarebbe bello se tutte le parti rinunciassero all’egoismo della storia dalla quale discendono, ricordando che fra le pietre di Gerusalemme si è rivelata la volontà di un solo Dio: cambia nome, ma può essere lo stesso. Gerusalemme, città del Dio che unisce e non divide: sarebbe bello se non appartenesse a nessuno». Allora la pace può cominciare mentre il muro divora la campagna palestinese? E poi Gaza, un milione di abitanti, uno sull’altro nei 363 chilometri quadrati di una striscia tagliata da colonie israeliane non semplici da sgombrare. Sharon ritira le truppe per schierarle ai margini della linea verde. Un futuro da gigantesco lager: nessun permesso per aeroporti; proibizione per le barche da pesca; le sorgenti dell’acqua che restano in mano israeliana: può chiudere ed aprire i rubinetti mentre i palestinesi radicali vogliono trasformare la libertà controllata dall’esterno in un laboratorio interno per la lotta armata.
Ma l’attentato impossibile da prevenire è la bomba biologica. Fra 7 anni il numero degli arabi della grande Israele doppierà gli ebrei che ne sono padroni. I profughi fanno più figli anche se resta l’eterna domanda: profughi da dove? Nel tempo la differenza si allargherà. Difficile governare una maggioranza ristretta in piccoli territori senza moltiplicarne le tensioni. Ecco il destino che unisce i due uomini incaricati della pace: li si presenta come protagonisti obbligati ad una scelta impossibile da rimandare. Le biografie non consolano l’inquietudine. Nascondono pagine imbarazzanti.

Abu Mazen, padre di Mazen, figlio primogenito, si chiama Mahmud Abbas. È cresciuto all’ombra di Arafat, ombra profonda: diplomazie segrete, contatti con Cia e servizi israeliani. Studia scienze politiche ad Amman, frequenta l’università orientale di Mosca. Proprio a Mosca trasforma in libro la tesi con la quale si è laureato nel 1981 in Giordania dove ristampa in arabo l’opera: «Legami segreti tra nazisti e direzione del movimento sionista». Nell’introduzione, l’autore anticipa i dubbi che il testo vorrebbe dimostrare. Non sono 6 milioni gli ebrei bruciati dall’Olocausto: «solo» 896 mila. Mahmud Abbas precisa che il numero minore non cambia la dimensione rivoltante del crimine, ma incide sull’uso politico che Israele ne fa. I 5 milioni di ebrei che mancano al suo appello sono morti «fuori» non dentro i lager. Nelle guerre russe, bombardamenti e scontri armati in Europa. «Ma i sionisti hanno calato quei 6 milioni sul tavolo per strappare il massimo possibile dalle grandi potenze. Il prezzo si chiama Palestina». È l’idiozia che ha nutrito generazioni di profughi palestinesi e scatenato la rabbia dei superstiti dai lager. Eppure sarà Abu Mazen a firmare la possibile pace. Controfirmata da Sharon.

Il vero Sharon è diverso dal generale moderato di oggi. Il vero Sharon non ha mai nascosto idee fin troppo chiare. Nel colloquio con Amos Oz, raccolto in un libro uscito a Tel Aviv nel 1982, subito dopo la strage di Sabra e Chatila (killers cristiano-maroniti che Sharon proteggeva per lasciarli lavorare in pace), lo scrittore israeliano lo descrive così: pantaloni corti, figura pesante, corpo abbronzato di uomo biondo che vive al sole. Risponde allungando gambe pelose sul tavolo della casa di campagna. Sintetizza ciò che pensa con voce roca per troppo fumo: «Meglio un giudeonazista vivo che un santo morto. Non mi preoccupa se mi considerano una specie di Gheddafi. Non cerco l’ammirazione dei Gentili. La storia insegna che chi non uccide verrà ucciso. Secondo lei i cattivi del mondo se la passano male? Siamo pronti a un’altra guerra, distruggeremo ancora e ancora fino a che quelli (nota di Oz, “i palestinesi”) ne avranno abbastanza. Il salutare bombardamento di Beirut e quel modesto massacro (Sabra e Chatila, appunto: 1240 civili trucidati nel sonno) avremmo dovuto farlo noi, non lasciarlo ai falangisti cristiani; queste ultime operazioni hanno troncato i merdosi discorsi su un “popolo eccezionale”. Finalmente non sentiremo ripetere le assurdità sulla famosa morale ebraica, immagine della purezza e virtù dei superstiti emersi dalle camere a gas». Non ho visto In the land of Israel in Italia. L’edizione della mia biblioteca è datata 1984, Vintage Book, New York. Ma il libro di Oz è uscito nel 1983 in Francia, tradotto dall’ebraico da Guy Seniak e Calmann Levy. In Israele, è un pocket ristampato.
Speriamo che Sharon e Abu Mazen abbiano sepolto i pensieri del passato, altrimenti quale pace possiamo aspettare?

(*) Maurizio Chierici, giornalista e scrittore, già ambasciatore dell’Unicef, è uno dei più noti inviati italiani. Per trent’anni ha girato il mondo per il Corriere della Sera. Ha scritto una quindicina di libri. Tra questi ricordiamo: I guerriglieri della speranza. Arafat racconta (Mondadori), Malgrado le amorevoli cure (Einaudi), Tropico del cuore (Baldini e Castoldi), Lungo viaggio d’addio (Baldini e Castoldi).
Il titolo di questa rubrica, La pelle degli altri, riprende un libro scritto nel 1986 (Rizzoli Editore) e pluripremiato (Premio Unicef, Premio Colomba della pace). Con La pelle degli altri, Maurizio Chierici inizia la sua collaborazione con Missioni Consolata.

Maurizio Chierici

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