Lunedì 24 marzo 1980, mons. Oscar Romero, vescovo di San Salvador, fu assassinato mentre stava celebrando l’eucaristia nella cappella di un ospedale, insieme agli ammalati. Cadde sull’altare, mescolando il suo sangue al vino che stava offrendo per il sacrificio eucaristico. Fu ucciso perché si era schierato e identificato con i poveri, gli emarginati, i disprezzati, condividendone le sofferenze, sull’esempio di Cristo, fino a dare la vita.
«Credo di conoscere il vangelo – disse un giorno in un incontro di preghiera comunitaria -; ma sto imparando a leggerlo in altro modo». La radicalità evangelica era la base della sua libertà straordinaria, che lo spingeva ad ammonire i potenti, fino a chiedere ai soldati di disubbidire agli ordini di morte, come fece il giorno prima del martirio, nell’omelia tenuta nella cattedrale, «Fratelli… davanti all’ordine di uccidere dato da un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere. Nessun soldato è tenuto a obbedire un ordine che è contro la legge di Dio. Una legge immorale, nessuno deve adempierla. È tempo che recuperiate e obbediate alla vostra coscienza, piuttosto che agli ordini del peccato. La chiesa, che difende i diritti di Dio, la dignità umana, la persona, non può tacere davanti a tanto orrore… In nome di Dio e di questo popolo sofferente, vi supplico, vi chiedo, vi ordino: cessi la repressione».
Era una morte annunciata. «Se mi uccidono, risorgerò nel mio popolo» aveva detto poco tempo prima.
A 25 anni dal suo martirio, Romero è vivo non solo nella sua gente e nelle chiese dell’America Latina, ma anche in quella universale e in tutti coloro che nel mondo si schierano in difesa della dignità della persona, per la giustizia e per la pace.
Egli sapeva che tale scelta evangelica gli avrebbe procurato la persecuzione, come ebbe a dire in una omelia del 1977: «La persecuzione è qualcosa di necessario nella chiesa. Sapete perché? Perché la verità è sempre perseguitata… Quando un giorno fu domandato a Leone xiii quali siano le note che distinguono l’autentica chiesa cattolica, il papa disse subito le quattro conosciute: una, santa, cattolica, apostolica. “Aggiungiamone un’altra – disse il papa -: perseguitata”. La chiesa che compie il suo dovere non può vivere senza essere perseguitata».
A 25 anni dalla morte, Romero continua a essere un profeta scomodo, non solo ai potenti della terra, ma anche nella chiesa: nell’indirizzare il processo di beatificazione qualcuno cerca di farlo passare come confessore della fede, piuttosto che come martire della giustizia.
Scriveva Giovanni Paolo ii nella lettera apostolica Tertio millennio adveniente: «Gli eventi storici legati alla figura di Costantino non avrebbero mai potuto garantire uno sviluppo della chiesa quale si verificò nel primo millennio, se non fosse stato per quella seminagione di martiri e per quel patrimonio di santità che caratterizzarono le prime generazioni cristiane. Al termine del secondo millennio, la chiesa è diventata nuovamente chiesa di martiri, come nei primi tre secoli» (Tma 37).
È un’affermazione coraggiosa, che va oltre quella di Leone xiii: non solo la persecuzione è una nota dell’autenticità della chiesa; ma questa è più più libera quando è osteggiata e perseguitata.
La libertà evangelica di Romero è un esempio valido anche per noi, in Italia ed Europa, dove da secoli, i cristiani vivono liberi e rispettati, cittadini con pieni diritti e libertà.
La perdita di certi privilegi acquisiti, per cui si sente levarsi voci di lamento e vittimismo, è nulla in confronto alla «grande tribolazione» che vivono i nostri fratelli e sorelle in altri continenti, dove i cristiani pagano con il sangue la loro sequela del Signore, la radicalità delle beatitudini, la fame e sete di giustizia, la ricerca della pace, il farsi prossimo dei poveri, dei malati, dei carcerati degli stranieri.
Oggi, piuttosto, esiste un’altra persecuzione, di cui parlava Ilario di Poitiers nel 360, all’inizio dell’era costantiniana: «Ora combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga… che non flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre, non ci confisca i beni dandoci così la vita, ma ci fa ricchi per darci la morte; non ci imprigiona spingendoci verso la libertà, ma ci onora nel palazzo spingendoci alla schiavitù; non ci stringe i fianchi con catene, ma s’impossessa del nostro cuore; non ci taglia la testa, ma uccide l’anima con l’oro e il potere…» (Contra Costantium 5).
Benedetto Bellesi