Le operazione di mantenimento della pace
Il «Dipartimento delle operazioni di mantenimento della pace» (Dpko) delle Nazioni Unite è stato istituito nel 1992 ed ha come mandato principale il mantenimento della pace e della sicurezza, nonché la prevenzione di conflitti a livello internazionale.
Il Dpko è presente con le sue «missioni di pace» in tutti i continenti, ma prevalentemente in Africa dove nell’ultimo decennio è stata registrata una terribile escalation di guerre e conflitti interni. Nonostante il Dpko sia amministrativamente uno dei dipartimenti del segretariato delle Nazioni Unite ed abbia sede nel «palazzo di vetro» di New York, mantiene una certa indipendenza ed ha al suo servizio circa 11.000 funzionari. Nessuna agenzia od altro dipartimento dell’Onu impiega ed ha mai impiegato un così grande numero di personale, specializzato nei più svariati settori (finanza, ingegneria, logistica, trasporto aereo, personale, etc.). Se poi includiamo anche i contingenti militari (i cosiddetti «caschi blu») – che sono in prestito dai vari stati membri – sorpassiamo abbondantemente le 75.000 persone. Il budget operativo è peraltro sostanzioso e sfiora i 4 miliardi di dollari per l’anno corrente. E non vorrei dimenticare di ricordare che Kofi Annan, prima di assumere la carica di segretario generale dell’Onu, fu il dirigente apicale di questo dipartimento.
Le origini e gli obiettivi del Dpko sono certamente nobili. Quasi duemila sono i funzionari caduti in servizio dal 1948 dalla prima operazione di pace. Chi non ricorda, ad esempio, il brasiliano Sergio Viero de Mello ucciso, insieme ad altri colleghi, a Baghdad nell’agosto 2003? Molti però sono anche gli scandali attribuiti ai caschi blu operanti sotto la bandiera dell’Onu. Alcuni di questi scandali sono certamente stati ingigantiti e strumentalizzati dalla stampa americana per diffamare le Nazioni Unite.
Negli ultimi 5 anni il Dpko è cresciuto quasi esponenzialmente sia in termini di personale che di budget, proprio per poter far fronte alle continue emergenze. Delle 21 operazioni di pace presenti nei 5 continenti, vorrei ricordare quelle in Etiopia-Eritrea (Unmee), in Congo (Monuc), in Costa d’Avorio (Onuci), in Sudan (Unmisud), in Liberia (Unmil) ed in Haiti (Minustah).
Non facciamoci però ingannare da questo improvviso ed apparente «buonismo». Infatti, come ricorda il proverbio, non tutto quello che luccica è oro. Sulla base della politica della «guerra preventiva» promossa dagli Stati Uniti e dai suoi alleati, e di cui l’invasione dell’Iraq è stato un esempio spettacolare, non ci sono solo motivi umanitari o di prevenzione di conflitti ad avere facilitato la costituzione, in tempi relativamente rapidi, di queste nuove operazioni di pace.
Facendo la parte dell’«avvocato del diavolo», vorrei farvi notare che tutte queste operazioni di pace (ad esclusione di Haiti e dell’Eritrea) si trovano in paesi notoriamente ricchi in risorse naturali (essenzialmente petrolio, oro e pietre preziose) che hanno sempre fatto gola ai due membri permanenti più importanti del Consiglio di sicurezza: ovvero Usa e Regno Unito.
Come si spiegano invece gli interventi in Haiti ed in Eritrea-Etiopia? Haiti: molto semplicisticamente si potrebbe dire che gli Usa non vogliono trovarsi nuovamente migliaia di profughi sulle loro coste come accadde ripetutamente negli anni passati. Infatti, addirittura prima che la missione di pace in Haiti (Minustah) fosse approvata dal Consiglio di sicurezza nel giugno 2004, in febbraio gli Usa già avevano inviato i propri marines a prelevare il presidente Aristide ed a mantenere l’ordine pubblico.
L’Eritrea e l’Etiopia invece, dopo l’11 settembre, hanno assunto un ruolo geopolitico rilevante come baluardo contro il dilagante fondamentalismo islamico e contro i confinanti «paesi canaglia» (Sudan, Yemen, Somalia). Inoltre, la politica americana in Etiopia ed in Eritrea è particolarmente ambigua: un giorno si dà un colpo alla botte, il giorno dopo al cerchio. E intanto il processo di pace tra i due paesi africani (i cui due presidenti sono cugini di primo grado) continua a non decollare. Uno stallo virtuale appositamente prolungato.
Le operazioni di mantenimento di pace dell’Onu sono autorizzate dal Consiglio di sicurezza di cui, non dimentichiamolo, fanno parte 5 membri permanenti con potere di veto. Usa e Regno Unito, entrambi membri permanenti del Consiglio di sicurezza, non solo hanno un fortissimo controllo politico sulle sue risoluzioni, ma contribuiscono anche molto efficacemente a «piazzare» i propri uomini all’interno del Dpko.
È una strategia collaudata, ben pianificata e che è finanziata purtroppo coi soldi di tutti i 191 stati membri, inclusi quelli dei contribuenti italiani. L’Italia, pur contribuendo sostanzialmente (dal 5 al 6 contributore annuale in termini assoluti) al budget operativo del Dpko, non ha nessuna voce in termini di decisioni e di presenza di funzionari civili. E gli organigrammi del personale «civile» impiegato nelle varie missioni di pace dimostrano quanto sopra.
La maggior parte del personale in posizioni apicali è «anglosassone», ovvero inglesi, americani e australiani. Se poi si perfeziona ulteriormente l’indagine si scopre che la quasi totalità di questo personale «civile» è formato da ex militari di professione. Ma come entrano tutti questi ex militari nel sistema delle Nazioni Unite? Un’opera di «intelligence» e di «lobbying» efficacemente realizzata da parte di questi governi.
Se ne vedono tanti di «007» nei corridoi del Palazzo di vetro, anche se certamente non altrettanto astuti, simpatici e coraggiosi come i James Bond televisivi al servizio della regina.
Barbara Mina