Col permesso dei 3 nipoti, figli di mio figlio, sono tornato dagli altri 83, lasciati nella missione di Abor (Ghana). Ho seguito spesso padre Peppino Rabbiosi, comboniano, nelle visite ai villaggi. Nei momenti in cui riuscivo a essere solo con me stesso ho fatto qualche riflessione.
Ero già stato l’anno scorso ad Abor (Ghana) «Nella casa del Padre mio» (In my Father’s House), dove sono 83 bambini, dai 4 ai 17 anni, con alle spalle storie molto tristi (cfr M.C. giugno 2004, p.17). La nostalgia e il loro desiderio che tornassi hanno avuto la meglio.
Anche questa volta avrei tanti episodi da raccontare. Voglio citae uno per tutti. Daniel, 4 anni, è leader nato, intelligenza decisamente superiore alla media. Sono ormai sulla macchina che mi porterà all’aeroporto di Accra. La commozione è tanta, sia per chi resta che per chi… sta partendo. Il bimbo si stacca dal gruppo dei compagni e viene ad appoggiare le mani sulla portiera. Contrariamente alle sue abitudini di vulcano perennemente in eruzione, non dice una parola. Nei fari illuminati, che sanno sempre essere i suoi occhi, leggo la tristezza di ciò che sta accadendo. «Ti affido il coro» riesco a mormorare.
Avevo aiutato a preparare un paio di canti gregoriani per una funzione. Daniel aveva bevuto ogni mio movimento e, con l’innata predisposizione musicale, non perdeva occasione per improvvisarsi direttore del coro. Era uno spettacolo vedere la serietà con cui affrontava l’impegno.
Ora lì, appoggiato all’auto, mi guarda e mi fa capire di non preoccuparmi. Il coro è in buone mani.
Morire a 10 anni…
Domenica mattina, in uno sperdutissimo villaggio africano, del Ghana in particolare, ma potrebbe essere in mille e mille altri posti.
Qui internet non è ancora arrivata. L’elettricità si ferma molto prima. Non ci sono strade. Solo un piccolo sentirnero, arduo anche per i fuoristrada più attrezzati, che nella stagione delle piogge diventa impraticabile. Un acquitrino fangoso che isola ancor più la gente che vi abita.
Poche, poverissime capanne formano questo villaggio che sembra dimenticato dal mondo. Solo un missionario si avventura periodicamente fino a qui. Viene a celebrare la messa, a portare un poco di conforto, a parlare di un Dio buono e misericordioso. Viene a infondere speranza e a combattere la rassegnazione passiva.
È una messa molto speciale. Non perché è celebrata all’aperto, frasche come tetto a proteggere dal solleone, ma per la straordinaria partecipazione. Bambini e adulti che arrivano da altri villaggi lontani chilometri e chilometri. Il rito è un susseguirsi di preghiere e canti ritmati dalle percussioni. Tutti pregano convinti. Tutti cantano. Tutti accompagnano i canti, che sembra non debbano finire mai, con battiti cadenzati delle mani. Molti danzano.
È come se la partecipazione si fosse materializzata in qualcosa che svolazza sulle nostre teste. Ancora più palpabile, poi, è il pathos che si respira quando padre Peppino, durante l’omelia, pronuncia piangendo queste parole: «Dopo la messa daremo l’ultimo saluto a Kofi».
Kofi era un bambino di 10 anni. È morto per un ipotizzato banale mal di pancia. Nessuno ha pensato che potesse trattarsi di qualcosa di più serio. Nessuno ha tempo di curarsi di un bambino che si lamenta per un mal di pancia. E quando i dolori si fanno più lancinanti e nessun rimedio conosciuto, sia esso somministrato o imposto come esorcismo agli spiriti del male, è in grado di alleviarli, la tragica conclusione.
Kofi è stato subito inumato. Nessuno chiederà l’autopsia. Al missionario non resta che piantare una croce sulla piccola tomba appena fuori il villaggio e pregare con tutti coloro che, nella lunga processione, avevano portato la croce fino qui.
Kofi aveva solo 10 anni. Il mondo corre, si affanna alla ricerca di sempre nuove tecnologie, si spinge alla scoperta di nuovi mondi. Ma in qualche parte di questo mondo, in qualche paese meno fortunato, ci sono ancora bambini che muoiono a 10 anni per un ipotizzato, banale mal di pancia. Tanti! Troppi! Per quanto tempo ancora?
all’improvviso una scuola
Accompagno padre Peppino in visita a uno dei tanti villaggi della sua sterminata parrocchia, ai confini con il Togo. È sempre difficile arrivarci. Dopo un’ora di… non strada, padre Peppino parcheggia il pick-up sotto un maestoso mango, nei pressi di un ruscello putrido, che si perde nella palude. Una canoa ci viene incontro. Con quella attraversiamo questo guado, scortati da ogni sorta di piccoli volatili (mosche, moscerini, zanzare…). Una canoa dalla precaria stabilità e che, con una ciotola, deve essere svuotata in continuazione dall’acqua che imbarca.
Camminiamo nella savana per tre quarti d’ora, fino a raggiungere un altro acquitrino. Una seconda canoa, simile alla precedente, ci traghetta verso un sentirnero seminascosto da sterpaglie inaridite dall’arsura inclemente.
Sono circa le 7 del mattino; ma il sole comincia già a picchiare duro; tra poco la colonnina di mercurio supererà i 40 gradi. Camminiamo di buona lena nel nulla per altri 45 minuti, mentre cominciamo a sentire in lontananza i tam-tam che ci danno il benvenuto.
All’improvviso, una piacevole, inaspettata, quasi surreale immagine si materializza: su un enorme spiazzo appare un complesso scolastico animato da centinaia di bambini nella tradizionale uniforme. Una scuola, che va dalla matea alla media inferiore, dove sembrava solo savana. La folla di bambini che la popola testimonia la presenza di tanti piccoli villaggi nascosti. Povere capanne, ma arricchite da una importante presenza per la crescita delle nuove generazioni.
Padre Peppino ha costruito la prima parte della scuola, dedicata ai piccoli. Il governo, fortunatamente, ha accettato di completare la struttura e pagare (forse meglio dire malpagare) alcuni degli insegnanti.
L’Africa ha voglia di crescere: quale mezzo migliore di una scuola?
«Dacci anche oggi…»
Sanno sempre essere suggestive le messe in Africa. La devozione che senti attorno ti contagia. Ti entra dentro. Ti arriva al cervello. Ti serra la gola. Quanti momenti particolarmente significativi! I canti, che sembra non debbano mai finire, ritmati dalle percussioni, accompagnati dai battiti cadenzati dalle mani e da passi di danza. L’offertorio in cui tutti, a passo di danza, portano la loro offerta in denaro o in natura (banane, manghi, noci di cocco). Il Padre nostro, recitato spesso tenendosi per mano. Braccia protese verso l’alto.
Nei villaggi, all’aperto, questo enorme anello multicolore è ancora più suggestivo. Le parole sono le stesse, ma sembra assumano significati diversi a seconda di chi le pronuncia. A seconda delle situazioni e delle esigenze. Quella richiesta di pane quotidiano, sembra significhi realmente: «Fai che anche oggi possiamo trovare qualcosa da mangiare. Fai che la terra ci sia amica e ricambi le nostre fatiche con raccolti che non facciano più soffrire la fame ai nostri figli».
E quando vedi rivolgersi al Padre celeste bimbi che non hanno mai conosciuto quello terreno, traspare realmente il desiderio di un futuro meno avverso: desiderio di famiglia, di casa, di un riparo sicuro. Sono suppliche che senti trasmettere dalle mani di chi ti sta a fianco. Ti pervadono. Ti entrano nelle vene e, come microonde, si propagano a tutto il corpo molecola dopo molecola.
Ugualmente toccante è sempre per me il momento dello scambio di un segno di pace. Sarà anche per il colore della pelle, decisamente più sbiadito del loro e che non ci fa passare inosservati, ma sono sempre tante le mani che vengono a cercare la mia. Spesso tutte. E sono strette di mano convinte, non di curiosità, di facciata o sola cortesia.
Tale convinzione la leggi negli occhi che cercano e guardano diritto nei tuoi. E mentre pronunci l’augurio di pace, non riesci a non pensare alle loro terre martoriate da continue guerre, scontri tribali, lotte per il potere, dove a fae le spese sono sempre i più deboli e indifesi.
Mentre stringi le mani di donne e ragazze, non riesci a non pensare a quante altre, non molto lontano da lì, sono vittime di soprusi e violenza. Mentre stringi quelle dei bimbi, non riesci a non pensare alle centinaia di migliaia, la cui infanzia è negata da lavori massacranti o, peggio ancora, dall’imposizione di machete o kalashnikov da usare contro fratelli di etnia diversa.
E allora, questa volta, la supplica al Padre celeste parte da te: «Fai che finalmente in queste terre africane sia pace! Fai che la pace possa finalmente regnare, for ever and ever!», come loro stanno augurando a me.
Missionario: chi è costui?
Da ragazzo ero affascinato da testimonianze raccolte in terre di missione. Se a raccontarle erano i protagonisti, il fascino si moltiplicava. La straordinarietà di quei personaggi dalla lunga barba, ai miei occhi di fanciullo andava oltre qualsiasi libro o film d’avventura. Le foto di villaggi, povere capanne di fango e gente che vi abitava, suonavano fantascienza per chi, come me, viveva in una grande città e sembrava straordinaria la vita di campagna.
Ora che ragazzo (almeno anagraficamente) non lo sono più da tempo, ho spesso la fortuna di vivere questo fascino, seppure per un tempo limitato, direttamente con loro: nelle loro missioni, nelle loro terre.
Sì, fortunatamente ho spesso l’opportunità di seguirli nelle visite a sperduti villaggi delle loro… parrocchie: aree spesso grandi come il Piemonte o la Lombardia. Ma mi accorgo che purtroppo, in quei villaggi, poco è cambiato: quelle foto di 50 anni fa, potrebbero benissimo essere state scattate ieri l’altro.
Mi accorgo che la gente continua a vivere in povere capanne di fango; in villaggi senza luce e senza acqua; file di donne, con un secchio sulla testa percorrono chilometri per raccogliere un poco d’acqua; non ci sono strade per arrivare a quei villaggi, molti dei quali non hanno scuole o, dove ci sono, in buona parte non è stato il governo a costruirle.
Mi accorgo della mancanza di un minimo indizio di struttura sanitaria per fronteggiare le conseguenze del vivere in situazioni così difficili e in aree così malsane.
Sì, ben poco è cambiato. C’è forse qualche scolorita e bucherellata maglietta in più a coprire corpi poco abituati a fae uso.
Quanto è stridente il contrasto per noi, abituati a macchine sempre più potenti e costrette a code sempre più lunghe; abituati ai telefonini dalle suonerie più strane e fastidiose, che strillano all’impazzata anche dove gradiresti ci fosse solo silenzio. Raccontare cosa significhi andare in questi villaggi per celebrare una messa dà l’idea di straordinarietà. Qualcosa da farsi una o due volte l’anno, mentre ancor oggi è spesso la quotidianità da affrontare per molti che operano in certe aree.
La straordinarietà continua a essere in quei personaggi, con o senza barba, che con umiltà e semplicità riescono a raggiungere il cuore di migliaia e migliaia di meno fortunati, e realizzano cose grandiose, in aree difficili, in condizioni assurde, con mezzi inadeguati. Personaggi che amo spesso, bonariamente, definire «fuori di testa», per la loro cocciutaggine nel cercare e ottenere l’impossibile: personaggi che rispondono al nome di missionario.
Ewe e invasori sbiaditi
In ogni parte del mondo sono sempre state le guerre a definire i confini provvisori di un paese: l’Africa non fa certo eccezione. La storia ricorda molti imperi africani che si spinsero lontano per conquistare nuove terre. Solo che negli ultimi 3-4 secoli, fece la sua comparsa un’altra sorta di conquistatore, colorito smunto, quasi fosse una focaccia tolta dal foo troppo presto. Un invasore sbiadito, insomma, che, proprio in virtù del colore della pelle, era convinto di essere il più bello e bravo, prediletto dal Creatore (e quando mai Dio disse una cosa del genere, forse in un orecchio a Mosè quando gli consegnò le tavole?).
L’invasore sbiadito, attratto da ricchezze non indifferenti a portata di mano, pretese di imporre le proprie leggi. Impose addirittura la propria lingua. Se ne infischiò degli idiomi e tradizioni millenarie di chi quelle terre abitava. Fece anche di peggio. Si accorse che anche quegli individui potevano rappresentare preziosa merce da esportare.
Di invasori sbiaditi gli ewe ne conobbero diversi: portoghesi, tedeschi, francesi, inglesi. Furono proprio gli ultimi due a spartirsi le loro terre. Inutile soffermarsi sul come e quando, il risultato finale è che, ancora oggi, ben difficilmente tale risultato potrà essere modificato. Non importa se la linea di confine tagliava villaggi e comunità. Tanto l’invasore sbiadito l’aveva già fatto più volte anche a casa propria. E coloro che restarono in Togo, se volevano comunicare con l’invasore, dovettero arrabattarsi a decifrare una lingua definita francese. Gli altri che finirono in Ghana, pur continuando ad abitare un’area definita Togoland e villaggi il cui nome evocava origini togolesi, dovettero arrabattarsi con una lingua totalmente diversa, definita inglese.
Nel corso degli anni, qualche personaggio ambizioso cercò con la forza, senza riuscirci, di riportare tutti gli ewe sotto lo stesso tetto. Ma una volta ottenuta l’indipendenza, è impossibile mettere in discussione decisioni prese dall’invasore e sancite da un organo che, a dire il vero, da tempo annoverava anche persone di colore e tradizione simile agli ewe.
Nonostante l’ingombrante presenza, la fierezza ewe è sempre riuscita a mantenere viva la propria lingua (ora studiata nelle scuole), le proprie tradizioni, i propri canti, le proprie danze. E anche se chi vive in Ghana è convinto quando ne canta l’inno o recita la promessa di rispettae la costituzione, anche se negli incontri di calcio Ghana-Togo il tifo per il paese di appartenenza si fa sentire, ogni ewe si sente prima di tutto un ewe, nonostante che l’invasore sbiadito ce l’abbia messa tutta per cancellae le origini.
Mario Beltrami