DOSSIER ANZIANI “La vecchiaia piombò in casa nostra e vi pose dimora”

Quando la vecchiaia è sofferenza e dolore fisico. Quando la morte è il dono più atteso. Questo è il racconto di una storia personale ed intima. Abbiamo pensato di pubblicarlo perché crediamo che in molti potrebbero ritrovarsi in queste righe e soprattutto in questi sentimenti.

Ho visto invecchiare mia mamma. L’ho vista morire. Ho sempre pensato che mia mamma Rosa fosse eterna e incapace di invecchiare. Non ero pronto a vederla trasformata, quasi di colpo, in una donna curva, fragile e col bastone, lei che è sempre stata una quercia, capace di affrontare ogni tempesta e uragano con grinta straordinaria. No, non ero pronto!
Da prete ho vissuto tanta parte della mia vita tra gli anziani, accompagnandoli nel lento declino fino alla morte. Ho sempre amato e stimato gli anziani che ho incontrato lungo la mia strada. Con loro mi trovavo a mio agio, anche se spesso impotente di fronte alle loro necessità. La mamma, no! Non l’ho mai immaginata, vecchia e malata. Nel mio subconscio, semplicemente non poteva: è la mamma! Ancora oggi non riesco a parlarne «al passato», perché, anche se morta, la vedo e la contemplo nella sua vecchiaia e nella sua giovinezza.

MAMMA ROSA
Rosa è una quercia stabile che nessuna tempesta di vento può scuotere nella solidità della sua forza e stabilità. È lei che dà sempre sicurezza e prospetta soluzioni. Non si smarrisce mai davanti alle difficoltà ed ha sempre il coraggio di sapere ricominciare daccapo.
La mamma non ha studiato, è arrivata alla quarta elementare negli anni ’30 in pieno regime fascista. Non può più frequentare la classe quinta perché «mista» e i suoi genitori preferiscono toglierla da scuola piuttosto che mandare una bambina in mezzo ai ragazzi maschi. Erano i tempi.
La mamma ha uno spiccato senso del sapere e della conoscenza. Legge, legge, legge, divorando libri. Nella sua vecchiaia ha tre passatempi: il lavoro ad uncinetto o a maglia in cui è artista (non ho mai comprato un maglione, avendoli sempre avuti «originali» e… «fatti a mano»). Devo a lei l’inesauribile sete di studio e di ricerca che mi porto dentro. Ricordo che quand’ero bambino, attorno al fuoco nel braciere (dove mettevamo patate e salsicce dentro la carta stagnola), lei ci leggeva romanzi o raccontava quelli che aveva appena letto. Insieme al latte mi fece succhiare il gusto della lettura e mi trasmise la curiosità del sapere.
Quando la vecchiaia comincia a diventare pesante per i dolori, seduta nella sua poltrona, là accanto al calorifero, ogni giorno legge il giornale dando valutazioni politiche di alta pertinenza. Difficilmente sbaglia diagnosi. Pensare a lei e pensarla sempre giovane e sempre efficiente significa anche pensare la mia vita con una assicurazione di garanzia senza fine.
Nel 1982, a 57 anni, la mamma, madre di cinque figli maschi, perde il terzogenito, Santo di 31 anni con moglie di 29 e due figli di 6 e 3. Santo muore in un incidente sul lavoro: schiacciato da un treno, mentre sostituiva un collega in ritardo. Ricordo quel giorno come adesso. Era domenica 28 marzo e stavo andando all’altare. Ebbi la notizia. Mi feci sostituire e corsi a casa dei miei genitori. Mentre andavamo in macchina sul luogo della tragedia, annunciai loro il vangelo della morte: Santo è morto.
Da quel momento la vita di mio papà e di mia mamma cambiò. Per sempre. Tutto si trasformò. Il cimitero divenne il santuario del pellegrinaggio perenne e la vecchiaia piombò in casa nostra e vi pose dimora.
Nel 1995 all’età di 79 anni muore mio papà, Giuseppe. La mamma ha 70 anni. Finché ha potuto ha continuato ad andare al cimitero come ad un appuntamento vitale, luogo di energia e di forza. Non va al cimitero, ma va ad un appuntamento importante: incontrare il figlio e il marito. Poi lentamente, invecchiando giorno dopo giorno, comincia a diradare, sostituendo le visite con la celebrazione della messa nell’anniversario della morte e nel giorno di compleanno. Oggi mi rendo conto che la sua vecchiaia ebbe inizio in quella domenica, 28 marzo 1982. La morte del figlio a cui diede la vita è l’inizio della sua morte, lenta e inesorabile che passa attraverso il torchio della vecchia per spremere da lei ogni goccia di vita, una ad una.
Gli ultimi dieci anni della vita di mamma Rosa sono un tormento e una palestra di dolore fisico: la consunzione della spina dorsale non solo l’ingobbisce e la rende storta, ma deforma anche le ossa della spina dorsale, i cui dischi appuntiti a coda di rondine premono in maniera costante e sistematica sui nervi causando un dolore ininterrotto che nessuna terapia sa lenire. Donna resistente al dolore fisico, è capace di soffrire in silenzio per non disturbare e non preoccupare noi figli. Si lamentava quando non ne poteva più. Ultimamente il lamento è diventato abituale, seppure impercettibile. Continua a lavorare a maglia finché le mani e le forze glielo permettono. Conservo ancora oggi le tovaglie d’altare o altri paramenti ricamate da lei su misura: un vero capolavoro!
Nell’agosto del 2004 cade in casa e si spezza il femore con conseguente operazione, riabilitazione e ritorno alla vita non più normale. Ora cammina storta, appoggiandosi al bastone sostegno, ma anche sicurezza incerta. La rottura del femore è un colpo decisivo, un giro di boa.
La guardo e la vedo invecchiata ancora di più. Ai miei occhi non appare più la donna vigile e attenta, piena di grinta e di voglia di lottare, la donna che mi teneva testa in ogni circostanza e situazione, la donna indistruttibile ed «eterna» che avevo sempre coltivato dentro di me. Ora vedo, per la prima volta, una vecchietta ricurva, sofferente che invoca la morte come un dono; vedo una donna instabile fisicamente, ma che sa di non potere morire perché c’è ancora un problema che attende e necessita la sua presenza; ancora una volta, come dieci anni prima, all’età di 70 anni compiuti, di fronte alla tragedia che si abbatte sulla famiglia, schiacciata, ma non oppressa, smarrita ma per nulla sconfitta, vedo una donna che ha la forza di dire ai figli: «Rimbocchiamoci le maniche e ricominciamo daccapo». Vuole morire, ma non può e resiste nonostante la sua giornata sia diventata una lenta agonia senza nemmeno un’ora di respiro. S’immola fino alla fine. Oltre la fine.
Fa la comunione ogni volta che vado a trovarla, perché ora non può partecipare alla messa domenicale e quella in Tv non le piace, anche se la segue. Prima di essere operata al femore mi chiede il sacramento dell’olio: bisogna essere pronti a qualsiasi evenienza. Il suo desiderio è la morte, la sua condanna è la vita. Nel frattempo, arriva l’ultimo regalo: un tumore al fegato e un riversamento polmonare e addominale. Gli ultimi due mesi di vita. Una vecchiaia lacerata, strappata pezzo per pezzo, senza risparmiare nulla. Un tormento per lei e per noi che l’assistevamo impotenti. Scorticata come san Bartolomeo.
Mi dice che hanno un bel dire coloro che inneggiano all’allungamento della vita visto come traguardo di civiltà. Vedendo se stessa invecchiata in mezzo ad altri vecchi che stanno anche peggio di lei, sì, con la vita allungata, ma in mezzo a sofferenze indescrivibili, fisiche e morali, commenta: non si è allungata la vita, prolungano la sofferenza. Ancora una volta non aveva sbagliato diagnosi.
Circondata da una siepe di affetto e di presenza, non possiamo lenire il suo dolore e fermare il suo invecchiare lento e inesorabile davanti ai nostri occhi e alla nostra impotenza che inconsciamente chiede al Signore il miracolo impossibile. Forse avevamo paura per noi stessi più che per lei: la certezza che sarebbe morta e che quindi ci sarebbe stata tolta, ci rendeva più vecchi di lei, più incurvati, più fragili e più piccoli. Eravamo sempre presenti perché volevamo godercela più a lungo possibile, sapendo che ogni giorno poteva essere rapita al nostro sguardo, ma non al nostro cuore.

L’ULTIMO NATALE
Quando a Natale del 2004 avemmo la sentenza che non sarebbe arrivata oltre i tre mesi, decidemmo di portarla a casa sua, nel suo ambiente, nel suo angolo di cucina, dove trascorreva il tempo che ormai era scandito solo dal dolore e dall’attesa della morte. Assistita dall’«Associazione Gigi Ghiotti», sotto morfina 24 ore su 24, camminammo insieme incontro alla morte perché lei era a conoscenza del suo male e del suo destino. Camminava a fatica e il giorno di Natale, volle vestirsi di tutto punto e sedersi a tavola con figli e nipoti. Disse: «Voglio dirvi due cose. Primo: siamo alla fine. Secondo: chiedo perdono a tutti se ho fatto del male e se l’ho fatto non l’ho fatto apposta».
Scavata nel volto e lenta nei movimenti, aveva ancora il timbro di una voce decisa e solenne, indomita e autorevole. Invecchiata, ma non vecchia! Figli, nipoti e nuore presenti abbiamo avuto la certezza che stavamo vivendo il vero Natale. Con una differenza: non nasceva in casa nostra un bambino, ma una donna anziana, malata di tumore e consapevole di morire, stava rinascendo lei e ci coinvolgeva nella sua rinascita. Ci sembrava di ascoltare il messaggio del natale di Betlemme: non celebrate la mia nascita perché «Io-Sono» da sempre, celebrate piuttosto la vostra ri-nascita di creature nuove. Accanto alla culla del Bambino c’è la croce della mamma anziana e malata che sta andando per rinascere ad una nuova vita insieme al marito e al figlio. La culla e la croce. Era solita ripetere una filastrocca che sua mamma le aveva insegnato da piccola: «Quando nacqui, una voce mi disse: “tu sei nata a portar la tua croce”». La culla e la croce furono la dimensione della mia mamma che nella sua vita coniugò due soli verbi: soffrire e servire. Nacque per soffrire, soffrì vivendo.
La mamma con la sua richiesta di perdono e con la sua trasparenza di vecchiaia divenuta semplicità di bambina, esercitò il suo alto magistero di vita perché in un istante unificò il tempo e l’eternità, fondendoli insieme. Una donna anziana che sta per morire e ancora capace di generare senza calcoli e senza interessi. Gratuitamente visse, gratuitamente si accomiata da se stessa, ma non da noi che ancora non vogliamo credere che la fine sia vicina.
Fu impressionante scoprire come la mamma, anziana e malata, bambola di pezza in mani altrui e incapace ormai anche di leggere, fosse ancora il fulcro di contenimento di quanti la circondavano. Attoo a lei fragile e decadente anziana senza più movimenti autonomi, in balia di dipendenza dagli altri per ogni esigenza e necessità, ruotano i figli, le nuore, i nipoti e la pronipote di due anni con il fratellino in arrivo. Il futuro è appeso al gancio della vecchiaia che lo culla e lo custodisce come un tesoro prezioso. La vecchia sterile partorisce sette volte, oltre il tempo, oltre ogni speranza, a dispetto della morte. La donna forte di cui il libro dei Proverbi 31,10 tesse l’elogio è qui davanti a noi. È la mamma: «La donna forte chi la troverà?». Noi l’abbiamo trovata.
Di fronte alla prospettiva della morte, sa dire: «Facciamo quello che Dio vuole» e senza saperlo trasforma in vita le parole dell’alleanza del Sinai in Es 24,7: «Ciò che il Signore ha detto, noi faremo e ascolteremo» e del Padre nostro: «Sia fatta la tua volontà» di Mt 6,10.
Come il popolo del Sinai, la mamma prima ha fatto e poi ha ubbidito. Antico e Nuovo Testamento, insieme in un unico progetto, Isaia 53 e Mt 6: «Come un agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori non aperse bocca… Padre… venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà».
Il 6 gennaio, solennità dell’epifania, inizia l’ultimo tratto della via crucis, dolorosa e terribile. La vecchiaia e la malattia diventano crocifissione: il male prende la lingua e la bocca con atroci dolori che nemmeno la morfina sa lenire. Non può inghiottire e deglutire nulla. Non può fare nemmeno la comunione, che ormai da giorni è il suo unico nutrimento.
Ho pregato Dio che prendesse me al suo posto o desse a me i suoi dolori e le sue sofferenze e che se questo non era possibile, che la facesse morire, ma che in ogni modo ponesse fine ad uno scorticamento disumano che a me pareva gratuito e perverso. Se lì c’era Dio, non sapevo come c’era.
In quei giorni ho pensato alle vittime delle torture in Iraq ad Abu Graib e in tutti i luoghi dell’orrore delle guerre dimenticate, ma in pieno esercizio in ogni parte del mondo. Ho pregato, ho pregato, ma il Signore non ha ascoltato il grido di un figlio che voleva solo che fosse alleggerita un poco la sofferenza della sua vecchia mamma.
Mai come in quei momenti ho capito il Giobbe della bibbia e l’urlo di Gesù sulla croce, quando grida il suo abbandono al Padre. Da quel giorno seduto accanto a lei mentre invecchiava, soffriva e si trasformava, cominciai a preparare l’omelia del suo funerale o meglio del suo «Ad-Dio» e del nostro «Arrivederci», mentre guardavo la mamma ormai vecchia, malata e moribonda.
Quel giorno ebbi la certezza che la vecchiaia avrebbe avuto il sopravvento sulla speranza e che la mamma sarebbe morta. Quel giorno fu il giorno più lungo per l’anima mia che si rifiutava di accettare questa certezza, nonostante desiderassi la sua morte per non vederla più soffrire. Si può desiderare la morte per amore? Oh, sì se si può! Con la mamma ho provato anche questo contrasto di desideri: la morte e la vita contemporaneamente. Il tutto e il nulla. Il vuoto e il pieno.

OLTRE LA VITA E LA MORTE
Finalmente dopo otto giorni, nella bibbia numero simbolico che celebra il Messia, il 14 di gennaio 2005 alle ore 17,00, la mamma muore tra le braccia dei figli presenti. Mai morte fu liberazione come questa. Noi figli respirammo subito un sollievo per lei e godemmo che non soffrisse più, ma restammo orfani, nonostante siamo adulti e io sulla soglia dell’anzianità.
Il momento della morte coincideva con l’inizio del sabato ebraico, il giorno che per la liturgia cristiana inizia, ma non termina perché si prolunga nella domenica, il giorno del Signore, illuminato dalla risurrezione, giorno senza tramonto perché Dio stesso e l’agnello sono la sua luce e il suo riposo. È il giorno dove la vecchiaia si fonde con la giovinezza, la notte con l’alba, il buio con la luce e Dio stesso diventa la sintesi del paolino «Tutto in tutti» (1 Cor 12,6).
Dice una leggenda ebraica che in ogni generazione vi sono nascosti 36 giusti, sconosciuti gli uni agli altri e a chiunque; 36 come gli anni di Isacco quando dovette essere immolato da Abramo sul monte Moria per obbedire ad un ordine di Dio. Il giusto Isacco fu sostituito dal montone procurato da Dio stesso. La leggenda sta ad insegnare che ogni generazione sta in piedi perché poggia su 36 colonne di «giusti» nascosti che con il loro silenzio, la loro sofferenza, il loro dolore e la loro vecchiaia vissuta con dignità, reggono il peso dell’umanità in modi e stili a noi incomprensibili e per la nostra sensibilità spesso inaccettabili. Di questi giusti credo che buona parte siano anziani con il fardello della solitudine e della malattia, del silenzio e, a volte, dell’abbandono. Essi sono l’icona vivente della nostra società faticosamente in cammino verso la morte che non accettano come parte della vita. Verso la vita. Oltre la vita e la morte.
La mia mamma fu per la sua e la nostra generazione una di questi 36 giusti nascosti, ma eletti da Dio e associati al mistero della sua croce. Mistero di dolore e di morte che genera la risurrezione degli altri. Prego Iddio di farmene degno. Per sempre. •

Paolo Farinella