DOSSIER ANZIANI La difficile ricerca della felicità

Come il Prodotto interno lordo non può bastare a misurare la ricchezza di una società, così la speranza di vita non basta a misurae la salute. Fin dove benessere e felicità coincidono? Riflessioni a voce alta, senza risposte certe.

Gli ospedali erano pieni in quest’ultimo inverno. Erano pieni di anziani con polmoniti, insufficienze respiratorie e cardiache. Più degli altri anni.
Gli ospedali sono pieni di anziani, così come lo sono le vie della città, le piazze dei paesi, i bar dei borghi nelle campagne, le chiese; e quando non si vedono è perché sono chiusi nelle loro case, gli anziani, nei luoghi che li ospitano, nelle case di riposo, negli ospizi e lo sono di più al nord che al sud. Nella nostra società sempre più vecchia.
La storia ci ha portato ad invecchiare; quella storia che, seguendo vie tortuose, ha trasformato le culture, le ha mischiate fra loro, ne ha create di nuove anche e specialmente intorno al Mediterraneo. Eppure continuiamo a stupirci nel vedere barche piene di giovani attraversare le acque del nostro mare. Ci stupiamo a vedere file di pulmini pieni di giovani fare la spola fra l’Ucraina e le nostre terre. Ci allarmiamo a vedere le nostre strade invase da giovani venditori senegalesi di borse fabbricate da moltitudini di giovani cinesi. E ancora: giovani venditori di caldarroste cingalesi, giovani filippini con accendini e binocoli. Ci stupiamo nel vedere giovani peruviani raccogliersi nelle piazze nelle ore libere dai lavori domestici nelle case dei nostri vecchi.
«La parte più povera del Mediterraneo – anche questa è una contraddizione del nostro mare – avrà più giovani, e quella più ricca più vecchi».
Così scrive Predrag Matvejevic nel suo «Breviario Mediterraneo», una raccolta di pensieri che smuove la nostra anima e risveglia la nostra voglia di viaggiare e capire, anche solo e semplicemente il mare che ci circonda.
Non sono i nostri genitori ad invecchiare, non sono i nostri nonni. Siamo tutti noi, il nostro paese, la nostra Europa che invecchiamo, lamentandoci però dei giovani stranieri che arrivano a riempire quegli spazi che lasciamo vuoti.

Sono medico e forse vi dovrei parlare delle demenze vascolari, degli ictus cerebrali, delle neoplasie, delle insufficienze respiratorie, delle insufficienze renali, dei nostri vecchi che cadono e si fratturano. Forse dovrei darvi dei numeri, raccontarvi della prevenzione, delle cure, della riabilitazione. Magari potrei raccontare una storia, ma sarebbe una delle tante che ciascuno di noi vive o ha vissuto con i propri cari.
Invece di tutto questo, voglio proporre soltanto una riflessione.
Vi sono studi che indicano che, superato un certo livello di ricchezza, il benessere complessivo delle società, non aumenta ed anzi tende a diminuire.
Le conclusioni di World Values Survey – una ricerca sulla soddisfazione della propria esistenza, realizzata tra il 1990 e il 2000 in oltre 65 stati -, indicano che il denaro e la felicità hanno la tendenza a conciliarsi fino a un reddito annuo (a persona) di circa 13.000 dollari (a parità di potere d’acquisto del 1995). Oltre quel reddito le entrate aggiuntive indicano solo modesti aumenti della felicità.
Gli psicologi sono molto chiari non solo nel definire il range di ricchezza entro il quale ci si sente felici, ma anche nel descrivere che cosa effettivamente contribuisce alla soddisfazione nella vita. Gli studi suggeriscono che le persone felici tendono ad avere relazioni solide e appaganti, buona salute e un lavoro soddisfacente. Nelle frenetiche società industriali questi fattori sono sempre più causa di tensione, e la gente spesso usa il consumo come surrogato di fonti genuine di felicità (1).
Si riscopre così un filone antico della ricerca economica, quello che contesta l’efficacia del Prodotto interno lordo come misuratore del benessere sociale (perché, per esempio, non calcola i costi dell’inquinamento o della criminalità).
Daniel Kahneman dell’Università di Princeton, il primo professore di psicologia ad aver vinto un premio Nobel per l’economia (nel 2002), ha annunciato il National well-being account, un indice della felicità da inserire fra i parametri che misurano il grado di sviluppo di un paese, a fianco di reddito, indebitamento, disoccupazione.
Il governo britannico, informa il Financial Times, è peraltro già all’opera. Il Cabinet Office ha pubblicato un rapporto intitolato «Life Satisfaction» che conclude che la ricerca della gratificazione individuale è sicuramente così importante da giustificare un intervento diretto dello stato per favorirla. Non solo denaro, ma servizi per l’infanzia, attenzione per gli anziani, campagne per favorire la solidarietà e il riscatto dei diseredati.
L’idea di benessere come traguardo personale e politico è sempre più un luogo comune che compare ovunque: dalle riviste divulgative alle pubblicazioni ufficiali delle organizzazioni multinazionali, come «The Well-being of Nations» dell’Ocse (2001) e «Ecosystems and Human Well-being» del Millennium Ecosystem Assessment (2003). Anche la Camera dei comuni canadese ha usato quel termine all’interno del «Canada Well-being Measurement Act», approvato nel giugno 2003.
Le definizioni del concetto variano, ma tendono a concentrarsi attorno ad alcuni temi:
• le basi per la sopravvivenza, che comprendono cibo, alloggio e mezzi di sussistenza;
• la buona salute, sia personale che in termini di ambiente naturale sano;
• le buone relazioni sociali, che comprendono l’esperienza della coesione sociale e la rete sociale di sostegno;
• la sicurezza, intesa come sicurezza delle persone e delle proprietà;
• la libertà, che comprende la capacità di raggiungere il potenziale di sviluppo.
In buona sostanza, il termine «benessere» indica un’elevata qualità della vita, nella quale le attività giornaliere vengono svolte senza condizionamenti e con minor stress. Le società orientate al benessere danno più importanza all’interazione con la famiglia, gli amici, la natura e sono più attente ad appagare la creatività che ad accumulare beni. Esse enfatizzano lo stile di vita in armonia con la salute: la propria, quella degli altri e quella del mondo naturale; hanno una visione del vivere molto più profonda rispetto a buona parte delle persone.

La riflessione che propongo, senza dae una risposta, è allora questa.
Così come la ricchezza (misurata con il Prodotto interno lordo, Pil), oltre ad un certo reddito non produce automaticamente più benessere inteso come «felicità», anche la salute (misurata come «speranza di vita» o «età media»), oltre ad un certo livello non produce più benessere.
La riflessione potrebbe essere ancora più profonda ed arrivare a proporre una ipotesi ancora più contraddittoria; oltre ad un certo livello di età media della popolazione, la sofferenza degli anziani ed il costo della società per alleviarla potrebbe portare ad una regressione del benessere ed addirittura della ricchezza.
Mio figlio, se Dio lo vorrà, avrà due genitori anziani a cui accudire; i miei genitori hanno 5 figli che possono intervenire. La vecchiaia mia e di mia moglie, sarà più felice di quella dei miei genitori?
Forse, nella nostra società, dovremmo sviluppare il concetto di sobrietà. Sobrietà nei consumi, sobrietà nella nostra domanda di salute, sobrietà nell’uso della natura, sobrietà nel turismo, ed invece concentrarci maggiormente nello sviluppo, questo sì illimitato, dei beni immateriali: la cultura, l’arte, il pensiero, i rapporti e le relazioni umane.
Forse, dopo il medioevo dell’utopia della crescita economica illimitata, dovremo sviluppare un rinascimento del benessere umano, senza però dimenticarci di chi ancora non ha potuto raggiungere il minimo per una sopravvivenza dignitosa. •

(1) Fonte: «State of the World 2004» (Consumi) del Worldwatch Institute, a cura di Gianfranco Bologna, Capitolo 8.



Guido Sattin, medico ospedaliero

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