DOSSIER ANZIANI “Anch’io gli ho voluto bene… (ma senza retorica)”
La vecchiaia, la malattia, la morte del papa.
«In quei giorni», all’inizio di gennaio 2004, quando mia mamma iniziava «la fine del principio», anche il papa appariva sempre più sofferente, iniziando per lui «il principio della fine». Ho vissuto contemporaneamente la malattia e la morte della mamma carnale e la malattia e il declino del padre (nella fede). Il rapporto del papa con la malattia ha permesso ai malati di guardarla e viverla in modo più dinamico e vitale, mentre ai sani ha insegnato che la malattia non è una maledizione, ma un momento della vita da cogliere come tappa inevitabile che diventa occasione evangelica di conversione e redenzione. Il magistero profetico che il papa ci ha lasciato è che anche la malattia e la morte sono «tempi» di Dio.
«In quei giorni» ho visto il papa invecchiare, aggravarsi e morire insieme a mia mamma; l’ho accompagnato all’ospedale, gli sono stato accanto nella convalescenza post-operatoria e ho visto realizzarsi in lui la profezia di Gesù a Pietro: «Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi» (Gv 21,18). Mai la sua presenza è stata così intensa e profonda come quando le sue finestre hanno messo in luce la sua assenza fisica. Malato nel suo letto come un vecchio qualsiasi, egli è stato un assente-presente in mezzo al suo popolo orante, in mezzo ai giovani che durante la vita ha curato come la pupilla dei suoi occhi.
Dice il Qoelet 3,1 che «c’è un tempo per ogni cosa». Verrà il tempo della valutazione globale del pontificato di papa Giovanni Paolo, del suo significato religioso e politico, oggi è ancora il tempo del silenzio e della preghiera, il tempo per cogliere quattro «segni dei tempi» di «quei giorni» di grazia e peccato.
Il primo «segno» è stata la reazione spontanea del popolo e dei popoli alla notizia dell’aggravarsi del papa. Per un momento, si è avuta la percezione che il mondo intero fosse unito nella preghiera, attraversato da sentimenti di unità, superando di colpo divisioni e fratture, odio e lacerazioni secolari. Insieme alla folla dei giovani che spontanea affollava piazza S. Pietro, popoli interi, culture e religioni senza distinzione di lingua, di colore o sistema politico avanzavano in corteo attorno al letto del vecchio papa morente, dando fisicamente la testimonianza che un altro mondo era possibile: il mondo della pace e della frateità per cui «questo» papa aveva messo in gioco se stesso e la sua credibilità. Attoo a quel letto, per un breve tempo, tutto il mondo cessava di sbranarsi per essere «uno» come dovrebbe essere, come forse sarà. Tutti parlavano la stessa lingua. Il secondo «segno» è stato lo scempio dell’ostensione del papa e il comportamento dei media. «In quei giorni» essi lo hanno sbranato e impietosi ne hanno mostrato brandelli di carne senza la pietas che si deve ai malati terminali. Ho penato per lui, quando lo ho visto vittima e protagonista nel tritacarne dei media che lo esigevano a qualunque costo per mostrarlo alle folle. Quanta pena nel vedere che i «prossimi» del papa permettevano lo scempio di dissetare la morbosità spastica delle tv piuttosto che custodirlo con amore filiale nel mantello della riservatezza e del pudore. Il papa alla finestra che si sforza di parlare con la scena atroce del microfono offerto e sùbito ritirato, mi è parso come l’agnello muto davanti alla folla dei suoi tosatori di cui parla Is 53. Toa alla memoria la figura di Noè, le cui scomposte nudità il figlio irrispettoso Cam irrise mostrandole ai suoi fratelli Set e Jafet che, invece, si rifiutarono di partecipare alla sconcia esposizione. Essi con gesti sacrali coprirono il padre e lo custodirono salvaguardando la sua dignità, il suo decoro e la decenza dei figli stessi (Gen 9,22-25). Attoo al papa, ho visto emergere la tribù di Cam e sconfiggere i sentimenti di Set e Jafet. Il terzo «segno» è stato offerto da preti e religiosi che hanno affollato le trasmissioni tv che ripetevano sempre noiosamente le stesse cose fino a provocare un rigetto per overdose. I suoi figli primogeniti, preti, vescovi e religiosi, che avrebbero dovuto stare in silenzio immersi nella preghiera con e per il «padre» agonizzante, sedevano comodi e ciarlieri in tutti i salotti tv che fino a qualche ora prima erano stati il tempio pagano dell’effimero e dell’immoralità. Il papa muto e orante bruciava senza consumarsi come il roveto di Mosè e il clero mediatico partecipava all’abbuffata di Sodoma e Gomorra, celebrata da quei giornalisti, officianti del vacuo e delle vane parole che il 31 marzo scorso, addirittura nella tv di stato, ritardarono la «prima» notizia dell’improvviso aggravarsi del papa (che era un vero scornop giornalistico) per non turbare il «porta a porta» elettorale del presidente del consiglio, che ammanniva prosopopea, sapendo che il papa stava morendo. Un’occasione perduta per un meschino calcolo di bottega. Il quarto «segno» è stata la reazione dei politici nostrani e dei potenti. Coloro che hanno voluto la guerra preventiva contro ogni diritto e contro lo stesso papa che, inutilmente, l’aveva dichiarata immorale, hanno affollato compunti e dolenti le messe «importanti» (cioè riprese dalle tv), spendendosi in elogi e ringraziamenti al papa «grande», artefice della storia e uomo degli sconvolgimenti inteazionali. Da nessuno ho sentito dire, anche una sola volta, che «questo» è stato il papa che ha condannato la guerra e che si è speso fino allo spasimo per evitare un conflitto di religione. Nessuno ha detto che è stato il solo a distinguere tra terrorismo e musulmanesimo. Molti hanno messo in evidenza con enfasi solo il suo ruolo nella caduta del comunismo, dimenticandosi di ricordare che, proprio in America, il papa aveva condannato severamente il capitalismo mercantile e il liberalismo senza anima e colmo di ingiustizia. Ho rivisto fino alla nausea le immagini della visita del papa al parlamento italiano (14.11.2002), dove, applauditissimo, aveva chiesto un segno di clemenza per i detenuti. Il papa, anche da morto, aspetta ancora una risposta.
Da parte del papa resta la figura gigante di un credente che non ha avuto paura né della sofferenza, né della malattia e tanto meno della vecchiaia che ha saputo vivere e piegare alla sua volontà indomita. Né la vita né la morte lo hanno posseduto, ma egli si è abbandonato nelle braccia dell’una e dell’altra con la docilità di chi sa che entrambe sono un dono di Colui che lo ha chiamato a rendere ragione della morte durante la sua vita e della vita nel momento della sua malattia e della morte. La sua ultima parola è stata un sussurrato «Amen!» come sigillo di adesione alla volontà di Dio, compiuta fino in fondo. Ancora una volta e per sempre resta per noi il suo sguardo morente rivolto verso la finestra vuota quasi a volersi precipitare tra la folla di giovani che lo accompagnava nella morte: «Sono venuto a cercavi. Siete venuti a trovarmi. Grazie». Quelle parole sono state, ancora, una carezza e un bacio dati a ciascuno.
Mia mamma è morta all’inizio di sabato, il papa alla fine del sabato (2 aprile) e al principio della domenica «delle vesti bianche» che egli aveva dedicato alla «Divina Misericordia», quasi a dire che il mondo intero è circondato e assediato dalla misericordia/tenerezza di Dio.
A distanza di un mese, resta dentro di noi come marchio di fuoco l’eco della sua voce profetica che annuncia le stesse parole del Risorto: «Non abbiate paura!» per sfumare nell’abbandono filiale e senza riserve nel grembo della Madre: «Totus tuus!». •
Paolo Farinella