COLOMBIA – Lungo è il cammino (2)

Il progetto di vita della comunità nasa della Colombia nasce dalle radici di una storia secolare. Oggi è un segno di alternativa in mezzo al conflitto.

Ezequiel Vitonas ha gli occhi neri e lo sguardo profondo. Dietro ai baffi, si apre un viso largo, un po’ sognatore, marcato dalle fatiche di una vita non facile, spesa in buona parte a guidare verso il futuro la sua gente. Come il profeta visionario dell’antico testamento di cui porta il nome, Ezequiel si affanna da anni a coniugare il vecchio e il nuovo, ricercando i valori tradizionali che hanno alimentato spiritualmente la vita della comunità e adattandoli ad un mondo che cambia a velocità supersonica. Come rispondere all’avanzare inarrestabile della globalizzazione e della modeità?
Quest’uomo poco più che cinquantenne, ex sindaco di Toribío, oggi consigliere maggiore dell’associazione dei cabildos indigeni del nord del Cauca (Acin), è stato, di fatto, il «ministro degli esteri» del progetto nasa. Ma, pur avendo viaggiato in Europa, Nord America e Asia al fine di promuovere la causa indigena, Ezequiel ha sempre dedicato molto tempo alla formazione della comunità, partecipando a un’infinità di piccoli seminari e grandi assemblee per informare e orientare la gente in merito al processo organizzativo indigeno.
È stato proprio in occasione di uno di questi piccoli incontri in cui, per la prima volta, sono entrato in contatto con l’organizzazione della comunità che mi apprestavo a servire come membro dell’équipe missionaria del Cauca. Il tema trattava del «progetto di vita», la miglior finestra per poter entrare e sbirciare all’interno di un mondo differente, che affonda le sue radici nella storia ancestrale e nel mito.

Un progetto di vita

Il progetto di vita comunitario è lo strumento orientativo che, raccogliendo l’esperienza del passato, analizza la situazione congiunturale, ne raccoglie l’impatto che essa ha sulla comunità e ne orienta la proiezione futura. Il progetto di vita non è un piano di sviluppo, ma ne rappresenta lo spirito: uno spirito in grado di influenzare le decisioni di ordine politico e socio-economico, secondo criteri che mirano al benessere di tutta la comunità.
Sebbene la leadership di alcuni membri più preparati della comunità sia un fatto indiscusso e accettato, il progetto di vita vuole anche essere uno strumento politico alternativo. Il progetto comune stimola infatti a un coinvolgimento popolare reale in opposizione alla «politiqueria» clientelare dei partiti tradizionali o alla demagogia di altri movimenti, in cui si spacciano per comunitarie decisioni prese da un pugno di leader animati il più delle volte da interessi personali o di clan. In questo senso il processo indigeno del nord del Cauca presenta elementi sorprendenti che vale la pena analizzare visto e considerato che fatti recenti lo hanno portato prepotentemente alla ribalta davanti all’opinione pubblica colombiana e internazionale.
Vi sono due modi di raccontare chi sono i nasa, da dove vengono e come vivono: il metodo storiografico, che si basa sull’analisi scientifica dei documenti, e la visione del mondo tradizionale, piena di immagini mitiche, che interpretano in modo narrativo gli aspetti e i fatti più salienti della realtà. Questi due modi di «fare storia» sono complementari e raccontano entrambi, seppur in forma diversa, l’epopea di un popolo che sin dalle sue origini ha saputo sopravvivere resistendo, inizialmente al potere coloniale spagnolo e successivamente alle mire espansionistiche del governo colombiano che, dopo la rivoluzione bolivariana, conquistò il potere ai danni della corona di Spagna.
Nel progetto di vita la storia nasa viene rilette perché non sia solo parte del patrimonio culturale, ma anche fonte di ispirazione per le scelte presenti. Personaggi reali, come la cacicca Gaitana, Juan Tama, Manuel Quintín Lame, rivivono attraverso le narrazioni storica e mitica delle loro gesta, ispirando e rafforzando la comunità nasa nelle lotte di oggi.
Questa presa di coscienza della propria identità sta aiutando la gente a vincere l’attitudine un po’ passiva, di sottomissione all’autorità costituita, che caratterizza l’indio andino, facendo sì che il singolo possa sentire come suo il benessere della collettività, assumendo in prima persona i costi della resistenza e del conflitto. Grazie a tale presa di coscienza, il movimento indigeno ha potuto passare da una strategia di difesa e sopravvivenza a una strategia di proposta e alternativa.
Non è stato un cammino semplice quello che ha condotto gli indigeni del Cauca a lottare per il recupero della terra, della cultura, dell’identità e dell’autonomia e a creare un’organizzazione che, a livello locale, nazionale e internazionale potesse dare forza, continuità e visibilità alla loro azione.
Molto è stato il sangue versato in questo processo, frutto di fortissime pressione estee a livello ideologico, politico ed economico, nonché, talvolta, di contraddizioni intee alla comunità stessa, imputabili alla fragilità di singoli o gruppi.
La gente, a ogni buon conto, è andata avanti; morto un leader immediatamente se ne incontrava il sostituto capace di continuare a seguire il programma del suo predecessore. Il processo organizzativo, animato da un progetto di vita ispiratore, ha saputo far fronte alle tante difficoltà, così come si spera saprà reggere l’urto delle minacce che affliggono oggi la comunità.

Un altro mondo è possibile

Negli ultimi anni e a prezzo di grandi sforzi e sacrifici, i nasa hanno saputo recuperare le proprie terre occupate ingiustamente da potenti terratenientes (latifondisti) e farsi riconoscere una certa autonomia da parte dello stato colombiano (con diritti garantiti dalla nuova costituzione del 1991).
Questi indiscutibili successi non hanno però significato la fine della lotta che continua aspra sia sul fronte interno che su quello esterno alla comunità. L’impatto della modeità con il relativo stravolgimento dei valori tradizionali crea confusione e contraddizioni nella gente, colpendo strutture come quella familiare, che rappresentano l’ossatura comunitaria. Nuovi modelli di vita turbano il tessuto della società tradizionale, creando conflitti generazionali, stratificazione sociale e, nel singolo, una situazione di smarrimento, che genera dubbi e scoramento, soprattutto nei più giovani.
Purtroppo questa situazione di cambio epocale avviene nel contesto di un conflitto armato che da più di 40 anni provoca una situazione di insicurezza e non permette alla comunità di compiere liberamente le sue scelte. Forze governative (esercito e polizia) si scontrano con i guerriglieri delle Farc, in una guerra che è soprattutto una lotta per il possesso del territorio indigeno e che miete molte vittime fra la popolazione civile.
Il controllo delle ricchezze naturali (iniziando dai bacini idrici per finire ai minerali preziosi), nonché del flusso enorme di denaro che proviene dalle coltivazioni illecite (coca e papavero da oppio) sembrano essere tra le vere cause di una guerra che si maschera dietro nomi di facciata come «politica di sicurezza democratica», «lotta al terrorismo», o «insurrezione popolare».
Inoltre, il Trattato di libero commercio (Tlc) che gli Stati Uniti vogliono imporre a vari paesi latinoamericani, fra cui la Colombia, non ammette l’esistenza di sacche di territorio nazionale autonome, che vogliano rimanere al di fuori della logica di mercato capitalista. Di qui la necessità da parte dei belligeranti di assumere un controllo globale della zona, a prezzo dei diritti inalienabili di chi la abita.
Di fronte alla violenza e all’aggressione operate da entrambi gli attori armati, il movimento indigeno ha scelto di rappresentare una terza via che non vuole essere una pilatesca fuga dal conflitto, ma una vera e propria alternativa.
Alteativa è la parola che marca e definisce il processo indigeno contemporaneo: essa nasce dalla consapevolezza che un altro mondo è possibile, non più prigioniero delle logiche di mercato, che il neoliberismo sfrenato del presidente Uribe Velez cerca di imporre a tutto il paese e a tutto vantaggio delle classi più abbienti; ma un mondo più rispettoso delle diversità culturali, del diritto di un popolo al territorio e a crescere e svilupparsi secondo criteri e modelli culturali propri e non imposti dall’esterno.
Di fronte alla guerra gli indigeni hanno scelto di affermare la sovranità sul proprio territorio, mantenendo una posizione di equidistanza pacifica dalle parti in conflitto. La loro sicurezza è affidata alla guardia indigena, migliaia di giovani e adulti che, armati di un solo bastone, si pongono come scudo umano fra i belligeranti, a difesa del territorio e della sua popolazione.
Questa scelta ha avuto vasti echi a livello nazionale e internazionale e d è valso alla guardia indigena del nord del Cauca il conferimento del premio nazionale per la pace 2004, premio che quattro anni prima era stato conferito al progetto nasa.
Alteativa, infine, è stata la parola d’ordine della grande mobilitazione indigena nel mese di settembre 2004, con una marcia di tre giorni dalla cittadina di Santander de Quilichao a Cali, capitale del dipartimento del Valle del Cauca (circa 70 chilometri).
Organizzata in collaborazione con altre forze democratiche, questa mobilitazione ha dato voce a 65 mila persone che hanno voluto gridare, in modo totalmente pacifico, il loro disappunto. I temi della protesta erano: la denuncia della continua violazione dei diritti umani da parte di tutte le forze belligeranti e la condanna delle manovre politiche per cambiare le norme costituzionali che garantiscono alle minoranze i loro diritti.
È stato anche espresso il dissenso in merito agli accordi inteazionali, come il trattato di libero commercio e l’Area di libero commercio delle Americhe (Alca), che tendono a privatizzare il paese, convertendone le risorse in elementi della macchina produttiva gestita dalle multinazionali.
Nonostante i premi nazionali e inteazionali, che hanno dato al movimento indigeno visibilità e una certa garanzia di sicurezza, gli attacchi, anche violenti, non sono mancati. Proprio in contemporanea con la grande marcia di mobilitazione, il responsabile del settore saitario del Consiglio regionale degli indigeni del Cauca (Cric), Alcibiades Escue, è stato arrestato per ordine della magistratura con la falsa accusa di avere stornato fondi del suo dipartimento per pagare tangenti ai paramilitari. Nel mese di settembre del 2004, quattro leader della comunità, tra cui il sindaco di Toribío e l’ex sindaco e attuale cornordinatore del collegio Cecidic di Toribío (vedi riquadro), sono stati arrestati e sequestrati da guerriglieri delle Farc nel territorio del Caguán, nel dipartimento del Caquetá, dove si erano recati per formare al processo indigeno le comunità nasa emigrate in quella zona.
In entrambi gli eventi si sono attivati canali diplomatici che hanno coinvolto organizzazioni nazionali e inteazionali quali Onu, Unesco, movimenti di difesa dei diritti umani e, nel secondo caso, la stessa chiesa cattolica. Questo sforzo comune ha portato alla liberazione dei prigionieri.
Straordinaria è stata la partecipazione della comunità. Pullman zeppi di autorità e guardie indigene si sono recati a Bogotá per reclamare la scarcerazione del loro leader. Con un gesto che ha commosso la nazione, più di 300 guardie indigene hanno fatto 20 ore di bus e svariate ore di marcia in un territorio sconosciuto per andare a reclamare alla guerriglia l’immediata liberazione dei loro compagni.
Sono segni che fanno ben sperare in vista di un futuro, che si presenta molto incerto, e dimostrano la vitalità di un progetto di vita in grado di coinvolgere la gente al di là degli interessi personali. Ciò che sottostà a tale progetto è il sogno di poter essere una nazione libera, autonoma e identificata con la propria storia e cultura, in uno stato colombiano che sia veramente «una grande casa di popoli», data la sua grande varietà etnica. (cfr Costituzione politica della Repubblica colombiana, art. 7).
La sfida che attende ora il movimento indigeno è molto grande. Si tratta di fare una proposta alternativa concreta insieme a tutte le forze democratiche, sociali e non armate del paese, per poter dare al messaggio un’eco ben più forte di quanto è stato finora possibile. È un compito che non può aspettare.
Le lotte per la vita, la biodiversità, il rispetto dell’identità e della libertà sono necessità da cui dipendono in parte la stessa sopravvivenza della realtà indigena e delle altre minoranze. Il movimento deve mantenersi forte e chiaro di fronte alle ingerenze del governo colombiano e della guerriglia nei suoi affari.
Il presidente Uribe, che in questi giorni cerca affannosamente di confermare il suo mandato per ulteriori quattro anni, avrebbe buon gioco a rendersi amico questo movimento così attivo, addomesticandolo ai suoi progetti. La guerriglia stessa ambirebbe ad avere gli indigeni come alleati, invece che ritrovarseli come oppositori dei loro piani.
Ma ci sono strategie che gli indigeni rigettano completamente, individuando nel trattato di libero commercio e nella politica di «sicurezza democratica» i peggiori rischi a danno della comunità, visto che ne minacciano il territorio e la coinvolgono in una guerra che non le appartiene.
La proposta indigena va, invece, nella direzione di un contributo al miglioramento sociale del paese, a beneficio di tutti. È infatti una grande contraddizione che in una nazione ricca di risorse, com’è la Colombia, 20 milioni di persone, su 44 milioni di abitanti, vivano in situazione di povertà, e altri 9 milioni sopravvivano in stato di miseria estrema.
La scelta dei partners con cui relazionarsi e di chi dovrà poi, di fatto, assumersi la guida di questa grande coalizione democratica è uno dei nodi che si dovranno sciogliere al più presto. L’aprirsi ad altre realtà presenta sempre incognite e rischi e può anche provocare contraddizioni intee, che vanno superate prontamente.
A questo riguardo il lavoro capillare all’interno della comunità rimane fondamentale affinché le scelte e le motivazioni del movimento si arricchiscano della partecipazione e dei contributi di quante più persone possibile.
Lo sforzo di Ezequiel e dei tanti che come lui sognano un mondo veramente differente lascia ben sperare che ciò sia realizzabile.

BOX 1
Il progetto Nasa

Il progetto Nasa nasce nel 1980, su ispirazione del padre Alvaro Ulcué Chocué, come un’iniziativa delle comunità indigene di Toribio, Tacueyo e San Francisco. I cinque programmi iniziali – produzione, famiglia, educazione, salute ed evangelizzazione – erano diretti al rafforzamento delle dimensioni spirituale, sociale, politica, economica e culturale della gente. Dopo la morte del padre Alvaro alcuni membri delle tre comunità, sostenuti dall’ equipo misionero guidato dai missionari della Consolata, recuperano idee e progetti del suo fondatore, facendone rivivere il sogno e conseguendone gli obbiettivi che si era prefisso. Oggi, dopo venticinque anni esatti di storia, il progetto nasa è ormai una realtà visibile e consolidata del movimento indigeno colombiano. I suoi programmi nel campo della produzione, etno-educazione, salute, nonché il suo impegno per la difesa, la conservazione e la pace nel territorio gli sono valsi pubblico riconoscimento a livello nazionale ed internazionale. Nel mese di febbraio del 2004, a Kuala Lampur (Malesia), il progetto Nasa ha vinto il «premio equatoriale», conferito dal programma delle nazioni unite per lo sviluppo (Pnud). I giurati hanno riconosciuto nel piano di sviluppo indigeno lo sforzo di combinare la lotta contro la povertà con il rispetto delle risorse naturali.


Ugo Pozzoli

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