IL DESERTO STA FIORENDO
Nel deserto siriano, un prete italiano ha rivitalizzato un antico monastero e raccolto attorno a sé una comunità che si propone, oltre alla preghiera e contemplazione, il dialogo tra culture e religioni, per far fiorire la pace in Medio Oriente.
Conobbi il Monastero di San Mosè l’abissino (Deir Mar Musa el-Habashi) nel 2000. Mi trovavo a Damasco. Raife, la signora presso cui vivevo, mi parlava sempre di un padre italiano, padre Paolo, che da qualche anno viveva in un antico monastero nel deserto, a una ottantina di chilometri da Damasco, nei pressi di Nebek a circa 1.400 metri di altezza.
Presi un autobus per Nebek; dove avrei potuto trovare un passaggio da qualche contadino che mi avrebbe accompagnata in prossimità del monastero. Non fu difficile trovare qualcuno che mi aiutasse, tutti conoscevano Deir Mar Musa, tutti conoscevano padre Paolo. Mi unii a due abitanti del luogo, anch’essi diretti al monastero.
Il ragazzo che ci aveva fatto salire sul suo motocarro ci accompagnò fino all’ultimo punto raggiungibile con mezzi di trasporto. Da lì avremmo dovuto continuare a piedi, perché l’unica via che portava direttamente al monastero era uno stretto sentirnero in salita tra le rocce. Il ragazzo ci disse di fare attenzione alle indicazioni che avremmo trovato, di non sbagliare sentirnero perché era quasi notte e poteva essere facile per noi perdere la strada.
Dopo 40 minuti di cammino, intravedemmo tra le rocce il lato posteriore di Deir Mar Musa. Entrammo attraverso una piccolissima porta di ferro, alta poco più di mezzo metro; questo era l’unico ingresso.
Ci venne incontro padre Paolo, che ci invitò a dividere con lui e alcuni compagni un piatto di patate e pomodori. Ci fece strada e ci condusse su un’enorme terrazza affacciata sulla valle.
A tutti gli ospiti e pellegrini che arrivavano al monastero non veniva chiesto niente a livello economico, solo di condividere tutto con la comunità, non solo il cibo e le stanze per dormire, ma anche partecipare attivamente alla vita quotidiana, aiutandoli nella cucina, nei lavori di pulizia, nell’organizzazione dei pasti e anche in lavori di costruzione e manutenzione dentro e fuori il monastero.
Ci sedemmo attorno alla tavola e padre Paolo iniziò a raccontare alcuni episodi della sua vita e del motivo per cui si trovava nel cuore del deserto siriano, a 1.400 metri di altezza.
Disse che è originario di Roma. Fu allievo dei gesuiti; dal 1977 è in Medio Oriente per servire l’impegno della chiesa nel mondo islamico. Nel 1982 arrivò alle rovine di Deir Mar Musa e se ne innamorò. Qui trovò la possibilità di realizzare i suoi sogni e desideri, quelli mistici, ma anche comunitari, culturali e politici.
Con l’aiuto di volontari del luogo e persone di passaggio iniziò i lavori di restauro del monastero e il recupero di oggetti e libri sparsi tra le macerie. Piano piano arrivarono altre persone, uomini e donne provenienti da diverse chiese e paesi. Nel 1991 nacque una comunità.
Raccontò che, fin dal tempo di Maometto, il monastero svolgeva una funzione socio-spirituale, nota, apprezzata e rispettata nel mondo musulmano. Costituiva un testimone della vita spirituale della regione. Diceva che, con l’impegno e lavoro suo e dei suoi compagni, voleva recuperare tale funzione e riproporla nel mondo attuale.
Deir Mar Musa si affaccia su una valle tra le montagne a oriente di Nebek. Quest’area era inizialmente abitata da cacciatori di gazzelle, pastori di capre e briganti. Era una zona ideale per il pascolo delle capre. Forse i romani avevano costruito inizialmente una torre di guardia.
In seguito i cristiani eremiti usarono le grotte naturali formatesi nella montagna come luoghi per la meditazione. Si creò quindi il primo centro monastico.
Sulla base della tradizione locale, San Mosè era il figlio del re dell’Etiopia. Rifiutò di accettare la corona, gli onori e un matrimonio, per dedicarsi alla ricerca di Dio. Iniziò a viaggiare in Egitto e in terra santa. Visse come un monaco a Qara, un villaggio siriano, e poi come un eremita tra queste montagne. Morì martirizzato dai soldati bizantini.
Con l’ausilio di studi storico-archeologici sappiamo, spiegava padre Paolo, che il monastero esisteva dalla metà del vi secolo, apparteneva al rito siriaco di Antiochia. Dalla traduzione delle iscrizioni arabe che si possono leggere sui muri, il monastero sarebbe stato costruito nel 450 dell’epoca islamica (1058 d.C.). Nel xv secolo è stato parzialmente ricostruito e allargato; ma dalla prima metà del xix secolo è stato completamente abbandonato. Lentamente cadde in rovina. Tuttavia rimase nella proprietà della diocesi siriana cattolica di Homs, Hama e Nebek. Gli abitanti di Nebek hanno sempre continuato a visitare il monastero con devozione e la parrocchia locale lottò per conservarlo.
Nel 1984 iniziarono i lavori di restauro, grazie a una comune iniziativa dello stato siriano, chiesa locale e un gruppo di volontari arabi e europei. Il restauro è stato completato nel 1994 grazie alla cooperazione tra gli stati italiano e siriano.
Il suono di una campanella ci informò che stava per iniziare, come ogni sera, l’ora del silenzio. Un’ora da dedicare interamente alla preghiera e riflessione. Improvvisamente ogni conversazione e ogni attività furono interrotte.
Terminato il silenzio, all’interno della chiesa padre Paolo iniziò a recitare i vespri secondo il rito siro-cattolico. Eravamo seduti attorno a lui, sopra dei grandi tappeti, con in mano una candela, perché il generatore di corrente non sempre riusciva a fornire energia sufficiente a illuminare tutte le stanze.
Dopo i vespri iniziò la messa.Terminata la lettura del vangelo, completamente in arabo, chi voleva poteva esprimere un suo giudizio, un suo pensiero, una sua riflessione sui brani letti. Poi nel momento della comunione, vennero fatti passare una ciotola con vino e una pagnotta di pane, con cui ognuno poteva condividere con gli altri il corpo e il sangue di Cristo.
Terminata la funzione padre Paolo mi indicò gli alloggi riservati alle donne, mentre gli uomini dormivano in stanze ricavate nella roccia fuori del monastero.
Il giorno seguente Elena, una ricercatrice in studi islamici, che avevo incontrato all’università di lingue orientali a Venezia e che per caso trovai lì, mi portò a fare un giro dell’edificio. Mi disse che, come padre Paolo, anch’essa era arrivata a Deir Mar Musa e se ne era innamorata. Aveva deciso di rimanere per aiutare, soprattutto nella riorganizzazione della biblioteca.
Mi accompagnò all’interno della chiesa dove, con la luce del sole, era più facile poter ammirare il ciclo di affreschi. Essi vengono fatti risalire al secolo xi-xii e rappresentano l’unico ciclo completo di affreschi sul giudizio universale scoperto in Siria.
La chiesa era stata costruita nel 1058. Lo spazio, circa 10×10 metri, era suddiviso in due parti: la più grande è a una navata centrale, illuminata da due piccole finestre; la seconda è il santuario con l’altare e l’abside. La piccola chiesa si affaccia sulla terrazza ed è situata nel cuore della costruzione.
Nelle altre zone si trovano la cucina, le stanze per dormire, un piccolo museo e una biblioteca, nati grazie al recupero di oggetti vari e libri.
Attraverso uno stretto passaggio, dove erano custodite delle enormi anfore di terracotta per conservare l’acqua, mi condusse fuori dal monastero dove stavano iniziando la costruzione di alloggi per i monaci e per gli ospiti. Al momento venivano utilizzate principalmente le grotte che servivano anche come stalle per il riparo degli animali. Ma la comunità si stava piano piano allargando, per questo risultavano necessarie nuove costruzioni.
Il materiale veniva portato dal paese con l’aiuto di muli e una piccola carrucola. Elena mi disse che moltissime persone del paese offrivano il loro aiuto, sia nel trasporto del materiale che nella costruzione degli edifici. Molto importante per loro era l’acqua. Stavano iniziando gli scavi di un pozzo, con il quale avrebbero non solo coperto il fabbisogno giornaliero degli ospiti, ma anche potuto creare un orto e frutteto.
Le parole di Elena, la vita della comunità con i suoi progetti, idee e sogni, il monastero con quell’atmosfera di pace e serenità, ma soprattutto di calore umano che regnava, mi avevano affascinata. Capivo benissimo le persone arrivate fin quassù e poi non più ripartite.
Quasi ogni volta che too in Siria passo da Deir Mar Musa, ogni anno ci sono dei cambiamenti, degli sviluppi. Ora è arrivato internet, c’è il telefono, il computer, anche se spesso le linee non funzionano.
La comunità che negli anni si è formata a Deir Mar Musa è una comunità di silenzio e preghiera. Attraverso la riscoperta dell’attività manuale e del valore del corpo e delle cose, vuole elaborare una vita di semplicità evangelica, in armonia con il creato e la società circostante.
L’ospitalità sta alla base di questa concezione di vita, punto di partenza anche per gli antichi monaci che popolavano questa zona. Il monastero è inteso come luogo di incontro, di approfondimento, di cultura, di comunione, dialogo e unità tra le chiese, senza perdere nulla della specificità siriaca e siro-cattolica del monastero stesso.
Vengono organizzati incontri interreligiosi a tema, cercando la mutua comprensione. La visita viene restituita andando a visitare moschee e centri islamici.
La relazione islamo-cristiana è l’obiettivo primario che cerca di raggiungere la comunità. Per questo viene utilizzata la lingua araba, non solo per la vita liturgica, ma anche per quella sociale, perché è lo strumento necessario per arrivare allo scopo prefisso.
Questo progetto, di approfondimento della collaborazione interculturale e interreligiosa, riceve aiuti dalla Comunità Europea, nell’ambito del programma per la diffusione della democrazia nel Mediterraneo, dalla Fondazione Remo Orseri di Roma e da altre associazioni.
A questo proposito, vengono organizzati seminari di studio e scambio di esperienze nel campo del discorso interculturale e interreligioso, sia sul piano locale che su quello internazionale. Attraverso gli scambi e i rapporti con altre realtà simili, favoriti dall’arrivo di internet, la comunità vuole partecipare alla creazione di una cultura condivisa, centrata sui valori della pace.
Sul piano sociale la comunità di Deir Mar Musa è impegnata nell’aiuto alle famiglie cristiane delle cittadine limitrofe. Il progetto di un dialogo interreligioso è infatti messo a rischio dalla continua migrazione di famiglie cristiane verso altri paesi, costrette a lasciare la Siria per motivi economici.
Un tempo il pluralismo culturale era molto importante in questa regione, era considerato un valore: un valore che la comunità di Deir Mar Musa vuole salvaguardare. Quindi il monastero aiuta, con il restauro di case tradizionali e con la costruzione di nuove, giovani famiglie della parrocchia, che non sarebbero in grado altrimenti di comprare o affittare una casa.
Su un piano puramente ambientale, la comunità ha avviato alcuni programmi di sviluppo agrario destinati alla pastorizia e alla coltivazione in luoghi desertici. Tale connessione di scopi ha favorito l’effettiva riconciliazione tra la comunità cristiana e musulmana per le quali il monastero è tornato a essere un simbolo di condivisione e riconciliazione.
La piccola biblioteca curata dai monaci, nata inizialmente dal recupero di testi trovati tra le rovine, si è negli anni sviluppata. L’intento è stato quello di raccogliere testi che potranno servire a operatori e formatori nel campo del dialogo. Essa non è esclusivamente specializzata sulle scienze religiose cristiane e musulmane, ma è anche foita di testi di antropologia, psicologia, sociologia e filosofia, discipline indispensabili per lo sviluppo del dialogo e la sua comprensione.
Un’attenzione particolare viene data agli studi di Louis Massignon (1883-1962). Questi fu uno dei precursori del dialogo tra cristiani e musulmani. Dedicò la sua vita al contatto spirituale tra il cristianesimo e l’islam. Le sue impegnate riflessioni e stile di vita sono fonte di costante ispirazione per la comunità.
Elisabetta Bondavalli