FARSI ABORIGENI FRA GLI ABORIGENI
Missionaria laica vietnamita, 67 anni, Marie Tran Thi Huyen lavora da 40 anni tra i chau ma e k’ho, gruppi etnici delle regioni montuose attorno a Bao Loc.
Intervistata da Uca News, parla della esperienza ed esigenze di adattamento alla vita della gente nei villaggi indigeni.
Ci racconti qualcosa della vostra équipe di lavoro.
Il nostro gruppo, chiamato «Famiglia dei testimoni di Cristo» è formato da 15 persone e fa parte del Centro di evangelizzazione degli aborigeni di Bao Loc, fondato dal padre Laurence Pham Giao Hoa, 85 anni, che dal 1958 svolge l’attività missionaria tra le minoranze etniche della regione.
È un gruppo laicale, ma i suoi membri, che da molti anni si sono uniti a padre Hoa, hanno scelto volontariamente di vivere una vita di celibato e povertà al servizio dell’evangelizzazione delle minoranze etniche. Nel 2002 il nostro gruppo è stato ufficialmente riconosciuto dal vescovo di Da Lat.
Qual è il vostro metodo di evangelizzazione?
In generale non rimaniamo sempre nello stesso posto, ma ci spostiamo di villaggio in villaggio. Scegliamo una famiglia presso cui dimorare. Lavoriamo insieme, mangiamo e dormiamo sul pavimento di bambù, intorno al fuoco come tutta la famiglia.
Poi cerchiamo di incontrare e conoscere altre famiglie, di guadagnare la simpatia e la fiducia delle persone più importanti della comunità, specie i gia lang, i capi villaggio.
Una volta che la gente ha iniziato a considerarci come membri delle loro famiglie, è più facile che si apra all’ascolto di quanto vogliamo comunicare loro. A questo punto iniziamo a usare immagini cattoliche per spiegare i fondamenti del catechismo e la figura di Gesù, e cerchiamo dei laici cattolici kinh (maggioranza vietnamita) che possano essere buoni padrini dei catecumeni. I semi del vangelo sono cresciuti in questo modo.
Inoltre, abbiamo un buon numero di collaboratori che ci aiutano nell’insegnamento del catechismo alle minoranze etniche che appartengono alle 25 parrocchie di Bao Loc.
Quali altre attività portate avanti nei villaggi?
Insegniamo canti e catechismo agli adulti e ai bambini, prepariamo le coppie al matrimonio, aiutiamo le donne durante il periodo della gestazione, al momento del parto, curiamo i loro bambini e accompagniamo gli infermi all’ospedale. Inoltre, insegniamo alla gente a confezionare i propri abiti e aiutiamo le spose ad acconciarsi i capelli e farsi belle. Soprattutto ci uniamo alla gente nel lavoro nei loro campi.
Quali sono le sfide che avete affrontato?
La difficoltà più grande è la malaria. Io stessa sono stata più volte in fin di vita a causa di questa malattia. Prima del 1975, in piena guerra, era terribilmente pericoloso evangelizzare nelle comunità indigene. I soldati Sud e Nord Vietnam ci tenevano entrambi sotto controllo e ci minacciavano: sospettavano che lavorassimo come spie. I comunisti ci arrestarono tre volte, minacciando di ucciderci. Ci proibirono categoricamente di continuare il nostro lavoro religioso nei villaggi indigeni.
Dopo il 1975 non fummo più arrestati; ma continuarono le restrizioni dei nostri movimenti e attività. Tuttavia siamo ritornate nei villaggi di nascosto e abbiamo continuato a predicare la buona notizia ai nostri fratelli e sorelle indigene. Alcuni catechisti locali ci hanno aiutato nell’insegnare il catechismo e in altre attività apostoliche.
Incontrate difficoltà nel vivere in mezzo agli indigeni?
Non è facile abituarsi al loro stile di vita. Anche condividere un pasto con loro a volte è un grande problema: essi puliscono i piatti con le loro gonne; mangiono il riso condito con sale grosso, pesce essiccato di basso prezzo, mam (salsa di pesce) e sangue di bufalo. Alcuni anni fa, a una esponente del nostro gruppo fu offerto un piatto di girini, cucinati in salsa di pesce.
Inoltre, dobbiamo rispettare le loro credenze e costumi tradizionali: essi credono che la vita delle persone, soprattutto dei malati, dipenda dagli yang (divinità) e sia sotto il loro influsso. I parenti dell’infermo uccidono un pollo o una capra come offerta agli yang; il sangue dell’animale viene spalmato sulla fronte del paziente, sulle porte e su un altare. Spesso il malato è portato allo sciamano per essere sottoposto alle sue cure, compensate con qualche dono.
Quando muore qualcuno, gli abitanti del villaggio non possono visitare la famiglia del defunto per 100 giorni per paura della morte. Tutte le cose appartenenti al defunto vengono poste accanto alla tomba, il corpo avvolto in fasci di bambù e trasportato al cimitero.
Intanto insegniamo alla gente, passo dopo passo, come curare l’igiene personale, come trattare il cibo in modo sano e accudire ai malati con uno spirito di servizio.
Cosa le ha insegnato l’esperienza vissuta nelle comunità indigene?
Prima di tutto che dobbiamo farci indigeni fra gli indigeni: vivere con loro, mangiare con loro, parlare il loro idioma e, soprattutto, dobbiamo amarli. Sono molto contenti che impariamo la loro lingua e si sentono orgogliosi quando possono insegnarcela. Questa è senza dubbio la via più rapida per conquistarsi l’affetto e la fiducia della gente.
Quando andiamo in un villaggio e parliamo la lingua del posto, siamo accolti come parenti. Se domandiamo qualcosa in vietnamita, la gente spesso tace o evita di rispondere.
Sono persone che non amano i ragionamenti complessi, formalità e cerimonie. Sono semplici, onesti, molto sinceri e fedeli. Per questo non possiamo mai tradire la loro fiducia. Se si manca, anche una sola volta, alla parola data, si perde per sempre la fiducia che hanno posto in noi.
(da Asia Focus)
Asia Focus