ECONOMIA / La cattiva globalizzazione (1): Tobin Tax e Attac

Tobin Tax e Attac

L’ECONOMIA MONDIALE IN MANO
AGLI SPECULATORI


Da anni gli scambi inteazionali sono dominati dall’economia monetaria-speculativa.

Con benefici per un pugno di uomini e danni immensi per stati, imprese e cittadini.

Ogni mattina gli speculatori mondiali giocano sui mercati valutari inteazionali, scommettendo sull’andamento dei tassi di cambio. Con poche transazioni questi soggetti riescono ad accumulare ingenti ricchezze comprando e rivendendo valute, il tutto a danno delle economie nazionali, delle imprese e di tutti i cittadini. Oggi le transazioni economiche sono dominate dalle speculazioni monetarie, che sovrastano gli scambi dell’economia reale.
Si può fermare la speculazione finanziaria mondiale? Un primo importante passo sarebbe quello di introdurre la Tobin Tax: una piccolissima tassa sulle transazioni valutarie che andrebbe a colpire gli speculatori.
Secondo l’associazione Attac (*), in base ad una stima prudente, attraverso questa tassa si potrebbero raccogliere tra i 90 e i 100 miliardi di dollari l’anno, una cifra che corrisponde al doppio di quanto viene oggi destinato alla cooperazione allo sviluppo. Il gettito sarebbe raccolto a livello nazionale dalle banche centrali che ne tratterebbero una quota per attività nazionali (interventi sociali e per l’occupazione), destinandone un’altra ad attività inteazionali (cooperazione allo sviluppo, salvaguardia dell’ambiente, tutela dei diritti umani). La tassa Tobin, inoltre, favorirebbe il controllo dei flussi finanziari al fine di combattere l’evasione fiscale e il riciclaggio dei proventi derivanti da traffici illeciti.

Il sistema è stato strutturato in modo che gli affari vengano prima di tutto e tutti, business as usual. La liberalizzazione dei movimenti di capitali che sfuggono a qualsiasi controllo; la crescita esponenziale delle transazioni finanziarie, accelerata dalla rivoluzione delle comunicazioni prodotta da internet; il diffondersi e rafforzarsi dei paradisi fiscali; la maggioranza dei media che decanta le virtù del sistema e ne tace le sempre più vistose pecche; la sudditanza della politica ai mercati: tutti questi fattori hanno contribuito a consolidare il sistema.
In occasione della tragedia del maremoto asiatico (dicembre 2004), si è parlato molto di aiuti e debito estero, riprendendo una proposta fatta all’Onu. Al riguardo, ha scritto Ignacio Ramonet, direttore de Le monde diplomatique: «Questa idea di “tassa planetaria” – prelevata sui mercati di cambio (Tobin Tax), sulle vendite d’armi o sul consumo di energie non rinnovabili – è stata presentata all’Onu il 20 settembre 2004 dal presidente brasiliano Lula, dal cileno Lagos, dal francese Chirac e da Zapatero, primo ministro spagnolo. Più di 100 paesi, ossia più della metà degli stati del mondo, appoggiano questa felice iniziativa».
Non è facile cambiare le regole del gioco, ancorché palesemente ingiusto. Ma si può fare.

Pa.Mo.

Fonti:
• Alex C. Michalos, Un’imposta giusta: la Tobin Tax, Ega Editore, Torino 1999
• Attac Italia, Taxman e Tobin, Roma 2004 (una guida didattica utilizzabile anche nelle scuole)

I siti di Attac (*):
• www.attac.org
• www.attac.it
(*) Associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie e per l’aiuto ai cittadini; sede di Roma: 06.68136325

Paolo Moiola




ECONOMIA / Quale economia? (3) Incontro con Luis Razeto Migliaro

Quale economia? (3) / Incontro con il professor Luis Razeto Migliaro


UN’ECONOMIA SOLIDALE È POSSIBILE


Insicurezza, crisi, precarietà, diseguaglianze.

Ormai il mondo vive in uno stato di crisi economica permanente,
che neppure l’economia di guerra riesce più a mascherare.
Sono sempre di più gli studiosi che propongono strade alternative
all’attuale modello economico.
Per ora sono ascoltati soltanto dai loro studenti
e dai movimenti contrari alla globalizzazione e al neoliberismo.
Ma è facile prevedere che la gravità e l’impellenza dei problemi
porterà presto le loro idee ad aver ben più larga attenzione.


Padre italiano e madre cilena, così si spiega il perfetto bilinguismo di Luis Razeto Migliaro. «Mio padre – racconta – arrivò in Cile nel 1920. Sposò una cilena, figlia di italiani. Io ho vissuto in Italia per 4 anni, dopo il golpe di Pinochet, tra il 1975 e l’inizio del 1980. Ho insegnato alla Sapienza, l’Università degli studi di Roma, nella facoltà di perfezionamento in sociologia. Poi sono tornato in Cile». Oggi è vicepresidente dell’Università bolivariana di Santiago.
Laureato in filosofia e sociologia, in realtà il professor Razeto si occupa da sempre di economia e, in particolare, di economia solidaria. In italiano si dice economia solidale o economia della solidarietà: quasi un sogno, in tempi di precarietà (che, con un ben noto eufemismo, viene chiamata «flessibilità») e delocalizzazione (le industrie che lasciano a spasso gli operai per andare a produrre in paesi dove il lavoro costa meno o le leggi mancano).

Professore, cos’è un’economia solidale?
«Diciamo che è un modo diverso di fare economia, producendo, distribuendo, consumando, accumulando ricchezza attraverso l’ottica della solidarietà. La solidarietà diviene forza produttiva, rapporto economico, modo di comportamento del consumatore. In altri termini, essa non è intesa soltanto come un atteggiamento etico, come un modo più benevolo di fare le cose, come attenzione ai bisogni degli altri ma, molto più concretamente, come un modo di fare economia. Produrre, distribuire, consumare, accumulare con solidarietà: tutto questo diventa impresa solidale».

Spieghiamo meglio in che cosa differiscono concretamente queste imprese solidali…
«Intanto sono delle associazioni di lavoratori che non dipendono da un padrone ma che agiscono autonomamente, mettendo in comune risorse, conoscenze, capacità di gestione, decisioni, forza lavoro.
Le imprese di solidarietà sono unità economiche che producono beni e servizi per l’autoconsumo ma anche per il mercato. Sono imprese che non si chiudono nel proprio interno, ma che agiscono apertamente sul mercato vendendo i prodotti della propria attività. Tutto questo senza mai dimenticare l’elemento fondante della solidarietà».
Pertanto, il mercato rimane un elemento fondante anche nell’economia solidale?
«Esatto. Noi non riteniamo che il mercato sia il male assoluto. Tutt’altro. Noi riteniamo che il mercato siano gli altri, le persone, persone che hanno altri progetti. Pensiamo che il mercato non è soltanto una necessità sociale, ma che esso esiste quasi come un modo di organizzarsi e cornordinare in solidarietà le decisioni. In altre parole, esiste il mercato perché abbiamo bisogno gli uni degli altri. Se non ci fosse questo bisogno, il mercato non esisterebbe.
Se noi diciamo questo, stiamo dicendo che il mercato è un fatto solidale e fortemente sociale. Certamente, questo concetto di mercato è completamente diverso da quello capitalistico dominato dall’elemento finanziario.
Per noi l’inserimento sul mercato è qualcosa di diverso. Per esempio, si lavora stando attenti alle estealità ambientali e sociali, cercando anche di provvedere alle risorse necessarie in un modo rispettoso della natura, valido senza sfruttare nessuno. Ancora: il marketing è fatto con trasparenza, senza ingannare, promuovendo e stabilendo rapporti con i clienti, con i consumatori solidali».

Sì al mercato e sì al profitto, dunque?
«Le imprese solidali non sono imprese no-profit. Cercano il guadagno, l’utile, anche riducendo i costi e cercando l’efficienza economica. Questi benefici economici vengono distribuiti in modo solidale con attenzione alla giustizia, corrispondendo a ognuno secondo ciò che ha fatto, ma anche perfezionando questo criterio con la solidarietà, andando cioè ad integrare il guadagno di coloro che, per diverse ragioni, hanno potuto contribuire meno e quindi hanno percepito meno frutti».

Quando questa rivista critica l’economia capitalistica, subito arriva qualche lettera che, sic et sempliciter, ci accusa di essere «comunisti». Il nostro sistema – dicono questi lettori – è il bene e dunque non criticabile, soprattutto perché dall’altra parte ci sarebbe soltanto il comunismo (nella defunta forma sovietica, tra l’altro…). Insomma, per molti non esiste altra economia possibile. Che ci dice, professore?
«Noi diciamo che l’economia è una attività umana necessaria, buona e santa. Dobbiamo però farla in modo diverso.
In base a questa considerazione siamo partiti da una critica all’economia capitalista e all’economia socialista. Poi siamo andati oltre, cercando di superare anche l’economia di tipo cornoperativo».

Ma come, professore, neppure l’economia cornoperativistica è un’economia solidale?
«Noi abbiamo visto e sperimentato, che l’economia cornoperativistica, ha dei valori alti, cioè una base culturale, etica e morale importante; una concezione dell’uomo che ci sembra giusta, perché mette il lavoro sopra il capitale, l’uomo sopra le cose, ecc.
Tutto questo ci va benissimo e vogliamo continuare a fare economia solidale con un rapporto di cooperazione anziché di competizione. Ma, al tempo stesso, ci siamo staccati nettamente da alcune concezioni, che noi riteniamo riduttive, di quelle economie. Secondo noi, esse hanno impedito a quelle economie di diventare efficienti e forti, caratteristiche fondamentali affinché queste alternative economiche diventino praticabili e quindi attrattive».

Quali sono le differenze tra il capitalismo ed un sistema fondato sulla solidarietà?
«La prima differenza riguarda il capitale. Noi riteniamo che il capitale nell’economia di solidarietà non è altro che il lavoro accumulato. Il capitale è una forma di lavoro, anzi in un certo modo è una forma di lavoro subordinato.
La seconda grande differenza con il capitalismo riguarda l’utilizzo dei fattori produttivi. Ad esempio, se qualcuno ha un locale, un pezzo di terra o un programma di software non se lo tiene unicamente per sé, ma condivide con altri queste risorse. Quindi, in uno stesso locale possono starci più imprese, in uno stesso appezzamento di terra ci possono stare più coltivatori, un programma di software può essere condiviso da molti…».

Forse l’impresa produttrice del software non sarà contenta, il proprietario della terra neppure…
«Noi diciamo: sì alla proprietà privata, ma non in forma escludente. Siamo per un altro concetto di proprietà dei fattori produttivi».

Continuiamo a parlare delle differenze con il capitalismo, professore…
«La terza distinzione netta rispetto al capitalismo è che il lavoro è autonomo, associativo e non subordinato: i lavoratori sono anche i titolari dell’impresa. Il lavoro non è lavorare per altri, ma per se stessi con un progetto condiviso che è di tutti. Non esiste lo sfruttamento del lavoro.
La quarta diversità netta è che noi abbiamo individuato l’esistenza di un fattore proprio, diverso, nuovo. Lo abbiamo chiamato “fattore C”, dove la lettera C indica: comunione, cooperazione, comunità, comunicazione.
È il fare le cose insieme. È la solidarietà diventata forza produttiva. Noi siamo convinti che, quando un gruppo di persone mette assieme un progetto e degli obiettivi, hanno non solo una coscienza e una volontà comuni, ma condividono anche emozioni e sentimenti. Questa unione è un fattore aggiuntivo agli altri fattori produttivi».

Non è questo il «capitale sociale»?
«Per noi è un fattore diverso, aggiuntivo, centrale in queste imprese. Per creare una impresa solidaria la prima cosa da fare è creare un gruppo umano, che abbia un progetto comune e abbia messo attorno a questo progetto le proprie idee, la volontà, le emozioni, i sentimenti. Quando si ha questo fattore C, si è in grado di iniziare un’impresa».

Altre differenze?
La distinzione è il ruolo della cooperazione anziché della competizione. Noi diciamo che la cooperazione è più efficace che la competizione. Noi pensiamo che con altre imprese simili, con altre persone, con i clienti si deve cornoperare. Questo vuol dire reciprocità, non vuol dire donare.
Noi non crediamo al dare gratuitamente nel senso caritativo, perché fa sì che le persone diventino dipendenti. Se vengono sovvenzionate, risolti i problemi, diventano inabili: noi vogliamo crescere insieme! Quindi, il nostro rapporto è di reciprocità. La competizione si fa con quelli che non vogliono cornoperare, che agiscono sul mercato in modo ingannevole, guadagnando sull’ignoranza del consumatore ecc.».

Passiamo al confronto con un sistema ad economia socialista, professore.
«Noi diciamo che la nostra economia di solidarietà nasce dal basso. Si rapporta con lo stato, ma non è statale. Siccome vogliamo lavorare sul mercato e fare degli utili, cerchiamo di essere autonomi dallo stato per non subie i ricatti politici.
Come spiegavo prima, il nostro concetto di proprietà non è un concetto collettivo, perché quando la proprietà diventa collettiva si stabiliscono certe ingiustizie.
Mi spiego. Abbiamo visto che le persone contribuiscono alla formazione del capitale con il loro lavoro. In un sistema diverso da quello solidale, quando una persona lascia l’impresa per cui ha lavorato perde quello che ha contribuito a costruire. Noi crediamo che questo non sia giusto.
Pensiamo alla ex Jugoslavia e al suo sistema di proprietà collettiva e di autogestione. I lavoratori non contribuivano efficacemente allo sviluppo, perché l’impresa era aliena: era di tutti e di nessuno.
Infine, il concetto di pianificazione. In un’economia socialista viene pianificata la produzione, le risorse, a seconda di una concezione tecnica di quale siano i bisogni delle persone e della società. Noi abbiamo un’altra idea in proposito».

E quale sarebbe?
«Noi diciamo che esistono dei bisogni di base che sono uguali per tutti. Poi ci sono bisogni individuali distinti: spirituali, culturali, eccetera. Per questo diciamo che la vita dell’individuo non può essere pianificata socialmente da un’unica istanza centrale, come si fa nell’economia socialista.
Crediamo di aver individuato nell’economia di solidarietà, una razionalità economica che è eticamente superiore e coerente con una concessione più integrale dell’uomo e della società».

Lei sembra molto ottimista. Però l’economia solidale non rischia di essere schiacciata dall’economia capitalista che, nonostante gli enormi problemi di quest’epoca storica, è rimasta in pratica senza avversari?
«Io sono convinto che l’economia capitalista, che sembra così forte, è in una fase di riduzione; per non dire di collasso. E ciò per molti motivi.
Per esempio, l’esasperata competizione che è implicita al sistema (le industrie più grosse mangiano le più piccole) e poi un’economia che non può dirsi efficace, perché lascia fuori troppa gente.
In America Latina noi vediamo questa crisi in modo evidente: il 60% della popolazione rimane fuori, cioè non partecipa al sistema ed ovviamente non consuma i suoi prodotti. Lo stato è stato ridotto al minimo per servire ai bisogni di quest’economia e di quelle imprese che cercano di tenersi allacciate alla dinamica della globalizzazione.
Vedo che la crisi dell’economia capitalista si sta manifestando anche nei paesi occidentali, come l’Italia e la Spagna.
Per tutto questo sono convinto che ci sia molto spazio per la crescita dell’economia di solidarietà».

Sta dicendo che l’economia solidale è quasi una necessità?
«È una necessità. Sì, l’economia solidale è una necessità, almeno nell’America Latina, ma non – e mi consenta questo gioco di parole – necessariamente per necessità. Il bisogno può far sorgere anche altre risposte: la delinquenza o altri tipi di economia illegale.
Per superare gli attuali problemi ci vuole una proposta che includa cultura, scelte etiche, organizzazione sociale, lavoro organizzativo: tutti requisiti che l’economia di solidarietà può offrire.
Per il futuro non vediamo nessun rischio di essere assorbiti da un capitalismo che continua ad escludere, lasciando fuori paesi o addirittura interi continenti.
Se continua così, il sistema capitalista non potrà durare ancora a lungo. Io non mi aspetto che collassi, anzi spero proprio che ciò non accada, almeno fino a quando non abbiamo collaudato quest’altra economia».

Se ho ben capito, in America Latina c’è stato un nuovo inizio per l’economia…
«Sì, e sono convinto che nell’America Latina si è imparato un modo di fare economia nuovo anche rispetto ai modi alternativi che sono nati in Europa cento anni fa, come il cornoperativismo e l’autogestione. Noi abbiamo raccolto quell’eredità, e quell’esperienza.
L’economia di solidarietà è soltanto per i poveri? No, la pensiamo per i poveri solo perché a loro si arriva più facilmente vista la situazione in cui si trovano e perché ne hanno più bisogno. Però questo sistema può consentire di fare economie anche con risorse di capitale e di tecnologia molto elevate. Per esempio, in America Latina con la logica dell’economia solidaria si sono create università ed imprese importanti.
In altre parole, l’economia solidaria non è una economia dei poveri per i poveri, pur essendo un’economia popolare ritagliata per questo momento storico».

Però, è un fatto che la povertà sia un elemento caratterizzante dell’America Latina…
«Sono ad un tempo pessimista ed ottimista. Io credo che l’America Latina si trovi in una grande crisi e che non sia in grado di uscie né attraverso il processo di globalizzazione, né attraverso strumenti come l’Alca, e neppure attraverso politiche pubbliche perché non ci sono risorse sufficienti. Quindi, sono pessimista…
D’altra parte, sono ottimista perché vedo sorgere dappertutto – a migliaia – organizzazioni sociali ed economiche. Non tutte strutturate per essere efficienti, ma sulla buona strada per diventarlo».

Quindi, possiamo parlare di vitalità dei paesi latinoamericani?
«Assolutamente. C’è un grande movimento…».

Opposto all’immobilismo dell’Europa…
«Non lo so, non sono convinto che ci sia immobilità, almeno se guardiamo dal basso. Ho visto che ci sono gruppi, iniziative, giovani che stanno facendo esperienze positive ed innovative. Quindi non direi che c’è un’immobilità della base sociale.
Quello che non mi piace è quello che stanno facendo ai piani alti. Per esempio, i processi e la privatizzazione dei beni pubblici: questo non mi piace. I beni pubblici per definizione sono di tutti e, se si vogliono rendere più efficienti, basta metterli nelle mani di gente capace. Non comunque privatizzandoli o vendendoli alle multinazionali…».

Grazie di aver introdotto il tema delle privatizzazioni, professore. Questa è una chiave di volta del capitalismo di oggi. Viviamo cioè in un mondo che vuole ridurre o addirittura eliminare il ruolo dello stato, perché – asseriscono i fautori di questa ideologia – sarebbe inefficiente. Al contrario, il privato farebbe tutto bene. In realtà, sappiamo benissimo che gli interessi privati sono sempre in contrasto con gli interessi collettivi. Come ne usciamo, professor Razeto?
«Io credo in un’economia pluralistica, dove cioè agiscano più soggetti. Penso ad un futuro prossimo con un’economia a tre settori: uno pubblico, uno di economia solidale e uno di economia privata individuale. Quest’ultima deve avere un suo posto, che non è quello delle imprese capitalistiche selvagge, ma quello delle iniziative individuali o familiari.
Per quanto concee lo stato, esso dovrebbe fare la sua parte, avendo cura dei beni pubblici, delle risorse sociali, aiutando i progetti, occupandosi di quei bisogni collettivi, che non sono soddisfatti né dall’economia privata, né da quella solidaria.
Come il mercato può essere solidale, anche lo stato può esserlo. Insomma, bisogna lavorare per farlo diventare così…».

Di fronte alle incompatibilità con il mondo fisico, alcuni economisti hanno cominciato a parlare della necessità di un’economia senza crescita. Il suo pensiero al riguardo, professore.
«A noi sembra di aver individuato un tipo di sviluppo possibile e compatibile, socialmente ed ecologicamente. E che può contribuire a risolvere le contraddizioni insolubili create dal modo di produzione capitalistico e statalistico.
Lei mi chiede della crescita. Guardi, io sono molto deciso nel dire che qualunque proposta che voglia escludere la crescita economica in America Latina e nel Terzo mondo è follia.
Mi spiego meglio. Nel mondo siamo più di 6 miliardi, no? Ebbene, il mondo che non deve più crescere e consumare è composto da 1 miliardo e 200 milioni di persone, ma al resto dell’umanità non si può chiedere di non crescere. Dire all’America Latina che non deve più crescere vuol dire condannarla alla morte in pochi anni.
Quindi, bisogna distinguere… La non-crescita a me pare una proposta valida. Ma può essere proposta soltanto a coloro che stanno consumando troppe energie, troppe risorse naturali, a coloro che contaminano il mondo per troppa attività. Viceversa, la non crescita per i paesi poveri significherebbe aggravare i loro problemi, anche quelli ecologici».

D’accordo, professore. Però, se tutti i paesi ed i popoli arrivassero ai nostri livelli di consumo, che accadrebbe del pianeta?
«Infatti, io non dico di portare i paesi cosiddetti sottosviluppati allo sviluppo conosciuto nei paesi occidentali. Anche questa sarebbe una follia.
Proprio per questo c’è bisogno di un’altra economia, di un altro sviluppo, che è lo sviluppo previsto dall’economia solidale: un’economia che non distrugge l’ambiente ma lo cura; una crescita che crea nuove risorse, specialmente risorse umane. Insomma, un tipo di sviluppo diverso, che implichi produrre, consumare, distribuire, accumulare e svilupparsi con solidarietà.
Non vogliamo diventare consumatori come lo sono gli Stati Uniti o l’Italia: quello è un modo di vita che non è possibile né sostenibile».

E l’economia di solidarietà è un’economia sostenibile?
«Noi riteniamo che lo sia. Noi pensiamo che lo sviluppo non sia solo una crescita quantitativa.
Crediamo che si possa avere un’alta qualità di vita senza necessariamente riempirsi di cose e di prodotti. Pensi a ciò che abbiamo detto prima: il fatto che, nell’economia di solidarietà, la proprietà privata sia condivisa e non escludente, fa sì che ci siano molti meno rifiuti, che la durata dei beni sia più lunga e che il bisogno di essi sia minore…».

Una strada questa che lei segue anche nella vita privata… Professore, è esatto dire che lei vive in modo alternativo?
«Vivo in una comunità ecologica, con la mia famiglia, moglie e quattro figli, che hanno dai 25 ai 34 anni. È una comunità posta alle falde della cordigliera delle Ande, in campagna, ma molto vicini a Santiago. Vi partecipano 250 gruppi familiari. È una scelta e soprattutto un progetto di vita».

Paolo Moiola

Box
Libri di Luis Razeto Migliaro:

• Le dieci strade dell’economia di solidarietà, Emi, Bologna 2003 (unico libro in italiano)
• De la economia popular a la economia de solidaridad ed un proyecto de desarrollo alternativo, Ediciones Pet, Santiago 1998
• Desarrollo, transformación y perfeccionamiento de la economia en el tiempo, Ediciones Universidad bolivariana, Santiago 2000

Altri libri sull’argomento:
• Andrea Saroldi, Costruire economie solidali, Emi, Bologna 2003
• Andrea Saroldi, Gruppi di acquisto solidali, Emi, Bologna 2003

Siti:
• www.economiasolidaria.net
• www.bilancidigiustizia.it

Paolo Moiola




PALESTINA – Le elezioni presidenziali (gennaio 2005)

PALESTINA: analisi delle elezioni presidenziali (gennaio 2005)

ABU MAZEN TENTA L’IMPRESA

Il neopresidente Mahmoud Abbas detto Abu Mazen è l’opposto del defunto
Yasser Arafat. Cocciuto e mite, è stato l’artefice occulto degli accordi di Oslo,
in seguito da altri affossati. Ha iniziato il suo mandato incontrando
(8 febbraio) Ariel Sharon. Ma la bomba ad orologeria è sempre innescata…


Mahmoud Abbas, meglio conosciuto col nome di battaglia, Abu Mazen (all’uso orientale = padre di Mazen, il figlio morto improvvisamente nel 2002), ha vinto le elezioni presidenziali palestinesi del 9 gennaio. Il 62,3% dei votanti lo ha scelto come presidente successore di Yasser Arafat.
Hanno votato il 60% degli aventi diritto. Tra questi non tutti hanno potuto esprimere il voto per la confusione organizzativa tipica orientale e per l’impegno d’Israele che, nonostante le promesse di un ritiro temporaneo dell’esercito per favorire lo svolgimento ordinato delle operazioni di voto, ha volutamente rallentato le operazioni di controllo ai check-point per non facilitare il primo diritto politico ufficialmente riconosciuto al popolo di Palestina. In tutta la Cisgiordania il 40% dei palestinesi non ha potuto votare. A Gerusalemme Est solo un migliaio di elettori su 120.000 aventi diritto ha potuto votare. E ha potuto farlo negli uffici postali, perché i seggi non erano neppure stati installati.
La percentuale di voti ottenuta da Abu Mazen equivale all’80/85% del totale dei votanti, se tutti avessero esercitato il loro diritto. Prendiamo comunque atto che le prime elezioni «abbastanza-democratiche» sono avvenute senza incidenti di rilievo e nell’euforia tipica degli eventi arabi.

IN NOME DEL POPOLO PALESTINESE
Abu Mazen non ha solo vinto, ma ha ricevuto un’investitura inequivocabile, riconosciuta anche dall’ala armata di Al Fatah e del gruppo irriducibile di Hamas. Morto Yasser Arafat, il padre-padrone dell’Olp, morto lo sceicco Yassin, fondatore della Jihad di Hamas, ora nessuno altro può formalmente presentarsi in nome di quel popolo se non Abu Mazen.
Scegliendo Abu Mazen, il tessitore cocciuto e mite, i palestinesi hanno impresso una svolta nel proprio futuro, chiedendo con un voto la fine della guerra e l’inizio delle trattative con Israele. La prima dichiarazione del vincitore, infatti, è stata lapidaria e in sintonia col sentire popolare: «Mi adopererò per porre fine alla sofferenza del popolo palestinese» e, per la prima volta, Israele è definito «vicino» e non nemico. Le sfumature terminologiche in Oriente hanno a volte una portata di trasformazione epocale e qualche altra sono più travolgenti di una rivoluzione.
Il secondo pensiero, una novità nelle procedure arabe, è stato il sentito ringraziamento alle donne che in massa hanno affollato i seggi/uffici postali e garantito lo svolgimento delle votazioni. Mossa vincente perché saranno le donne a decidere del futuro della Palestina, quando si alzeranno dalla loro sudditanza e allora anche il sole si avvicinerà alla terra. Da sottile diplomatico, Abu Mazen ha dedicato la vittoria a Yasser Arafat per obbligo di opportunità politica e con questa dedica ha sepolto il padre della resistenza palestinese in una nicchia di devozione onoraria e lo ha rimosso allo stesso tempo in quanto impedimento alla liberazione del popolo palestinese. Definitivamente.

DA OSLO A CAMP DAVID
Le reazioni inteazionali sono state unanimemente positive: si parla di pace vicina, di democrazia, di moderazione del vincitore, di ripresa del dialogo con Israele… tutti felici e contenti. Anche noi vogliamo essere contenti e felici, ma da persone serie che hanno a cuore la soluzione vera e giusta dello tsunami che devasta da 60 anni il Medio Oriente. La storia non fa salti qualitativi e una rondine non ha mai fatto primavera. Per fare baldoria, aspettiamo un poco per vedere compiersi alcune condizioni, premesse essenziali, perché il plebiscito per Abu Mazen si trasformi in vittoria.
Stimiamo Abu Mazen perché lo abbiamo visto all’opera negli ultimi vent’anni, quando tutti sparavano, si ammazzavano e si odiavano. Lui, solo ma lungimirante da vero patriarca antico e amante del suo popolo, preferiva incontrare quasi di nascosto personalità israeliane come Yossi Beilin che in Israele voleva lo stesso obiettivo. Mentre i responsabili politici e governativi maciullavano i loro figli in avventure disperate senza ritorno, seminando morte e odio a piene mani, due profeti nascosti e silenziosi costruivano mattoni di amicizia velata, lavorando per spalancare le porte al rivolo della pace nel deserto dell’odio e della morte.
I colloqui privati tra Abu Mazen e Yossi Beilin nel 1995 approdarono agli accordi di Oslo, dei cui meriti si appropriarono gli avversari degli stessi accordi che, infatti, li fecero fallire subito, dall’una e dall’altra parte. Il fallimento fu sancito definitivamente nel 2000 in America a Camp David da Ehud Barak e Yasser Arafat, testimone Bill Clinton. Abu Mazen si mise in disparte per non entrare in collisione con Arafat che appena lo tollerava perché lo ha sempre temuto come antagonista.
Egli non è un uomo di appeal e non ha quel carisma che gli eventi traumatici cucirono casualmente addosso ad Arafat che si trovò nel posto giusto al momento giusto. Uomo senza l’ossessione del potere ad ogni costo, Abu Mazen è sempre stato umile e non ha mai partecipato agli estenuanti riti orientali della spartizione della torta di potere. Quando fu nominato primo ministro da Arafat, si accorse che la sua era una carica vuota per coprire una facciata di corruttela ed ebbe il coraggio di dimettersi, dicendo apertamente che voleva governare e non regnare come un re travicello.

ABU MAZEN ED UNA DANZA IN SEI PASSI
Dopo l’euforia delle elezioni, per Abu Mazen e per il suo popolo inizia un lungo cammino, irto di trabocchetti e di pericoli che non saranno facili da superare, ma se qualcuno li può superare questi, oggi è solo Mahmoud Abbas detto Abu Mazen che deve guardarsi da un esercito di cecchini nascosti in ogni anfratto perché fallisca nel suo progetto di pacificazione.

Punto uno: la corruzione
Il primo nodo da sciogliere che è anche la prima battaglia, o meglio la prima guerra da vincere ad ogni costo, è la corruzione endemica in ogni struttura dell’apparato politico amministrativo palestinese. Arafat aveva creato ben 13 milizie dipendenti direttamente da lui che teneva saldo il cordone della borsa senza cederlo a nessun altro. Goveava pagando e manteneva la moglie e la figlia, che lo avevano abbandonato rifugiandosi in Francia, in un lusso sfrenato a spese della miseria dei palestinesi. Il suo popolo moriva letteralmente di fame e il raìs investiva in ogni parte del mondo, anche in società americane di bowling, senza mai rendere conto del suo operato e della destinazione dei fondi e intanto il popolo palestinese viveva nelle baracche dei campi profughi, privi di qualsiasi servizio sanitario. A Gaza gli scarichi delle acque nere sono ancora all’aperto. Una scelta politica calcolata ha anche giocato sui 60 campi profughi, senza risolvere un solo problema esistenziale delle persone per giocare la carta della mendicità internazionale e del sopruso israeliano su ogni tavolo. L’elemosina che il raìs elargiva benignamente, tipica della cultura tribale, aveva sostituito il concetto stesso dei diritti e dei doveri, tra l’altro assenti nel sentire arabo-orientale. Con l’elemosina ricevuta, i «sudditi» dovevano poi pagare funzionari e impiegati e polizia per qualsiasi pratica, qualsiasi atto pubblico e privato: targa della macchina, documenti personali, permessi e autorizzazioni.
Rompere questa spirale di corruttela comporterà una guerra civile sotterranea, se non dichiarata, tra le diverse fazioni palestinesi che non faciliteranno il compito ad Abu Mazen: se non porrà da subito la scure alla radice, «Abu-il padre» del popolo senza patria e senza terra rimarrà impigliato tra le spine di rovi potenti che lo soffocheranno senza pietà.

Punto due: la ricostruzione
Il secondo nodo da sciogliere, conseguenza diretta del primo è la ricostruzione economica che deve portare ad un minimo essenziale di stato sociale, attualmente del tutto assente. Abituato alla cultura del favore, l’arabo palestinese farà fatica ad accettare e rispettare le regole della convivenza democratica.
Golda Meir, primo ministro d’Israele dal 1969 al 1974, soleva dire: «Comincerò ad avere paura degli Arabi, il giorno in cui rispetteranno una fila in un pubblico ufficio». Aveva ragione. Nel mondo arabo, palestinese in particolare, esistono «traffici» non imprese o attività economiche strutturate, per cui la vera prima grande impresa da costruire sarà il rispetto delle regole condivise e accettate. Un’economia senza regole civili e sociali è solo una pia illusione.

Punto tre: un cambio di sistema
Il terzo nodo da sciogliere è la creazione di pesi e contrappesi giuridico-politici espressivi della realtà palestinese che deve essere artefice del proprio destino. È il superamento del concetto tribale del potere.
Non sappiamo se si possa impiantare in Oriente un sistema democratico (?) come quello occidentale, ma sono certo che Abu Mazen deve trovare un sistema che debba rendere efficace e autentica la rappresentatività decisionale che riguarda l’intero popolo senza ancora una patria intera. Ciò comporta la formazione di una classe dirigente giovane, composta di uomini e donne, proiettata sul futuro, ponendo così un freno all’emorragia dell’emigrazione che naturalmente coinvolge sempre le teste pensanti in ogni campo.

Punto quattro: i gruppi armati
Il quarto nodo da sciogliere riguarda i gruppi armati, da Hamas alla Jihad, ai martiri di Alaqsa alla stessa ala armata di Al Fatah, il partito che fu di Yasser Arafat e che ora esprime Abu Mazen. Sarà sufficiente che uno di questi gruppi spari, anche in aria, un colpo di kalashnikov in direzione di Israele ed ecco che il governo Sharon accuserà Abu Mazen di incapacità di governare la violenza e la non volontà politica di raggiungere un accordo. In questo modo anche il moderato Abu Mazen diventerà un estremista nemico di Israele con un requiem per altri 50 anni.

Punto cinque: con Israele
Il quinto e penultimo nodo da sciogliere prima di cantare vittoria, riguarda la posizione politica da assumere nei confronti di Israele. Su questo versante, il nuovo presidente palestinese può giocare la valanga di voti e il plebiscito che gli ha dato un ampio mandato popolare come l’ultima spiaggia per Israele. Abu Mazen deve stanare Israele e inchiodarlo alle sue responsabilità, ma senza giocare al rialzo come faceva Arafat, al quale in fondo non conveniva trovare un accordo con Israele come non conveniva a questi trovare un accordo con Arafat.
Il primo passo è approfittare di questo climax internazionale degno di un classico innamoramento e battere il ferro finché è caldo, sfruttando la simpatia e la stima che Abu Mazen porta in dote in tutte le cancellerie diplomatiche, Stati Uniti compresi. È il momento dell’audacia e della serietà che deve avere un solo obiettivo: porre finalmente fine alle sofferenze del popolo palestinese, affrontando il rodeo delle trattative con Israele non da solo, ma con il viatico delle cancellerie europee, asiatiche (Russia e Cina in primo piano), statunitense, latinoamericane e africane. O Abu Mazen sarà capace di trasformare il nodo palestinese in «nodo di Gordio internazionale» o morirà di asfissia e con lui anche le speranze del suo popolo.

Punto sei: l’educazione
Il sesto e ultimo nodo da sciogliere riguarda il futuro che è già iniziato. Il suo nome è plurimo: bambini, adolescenti e giovani. Questa è la scommessa più importante per la Palestina, per Israele, per Abu Mazen e per la pace del mondo intero. I rapporti tra Israele e i palestinesi da sessant’anni sono cementati dall’odio viscerale inculcato fin dal concepimento. L’altro è il nemico. Vale una sola legge: la vendetta. Si insegue un solo obiettivo: la distruzione dell’altro. Con un solo metodo: violenza e terrore.
Ora all’orizzonte spunta una nuova alba, di cui l’elezione di Abu Mazen è la premessa timida e forte. Inizia anche l’ora più buia che normalmente precede sempre l’aurora e in quest’ora buia si scateneranno tutte le forze contrarie sia all’interno dei palestinesi che all’interno di Israele. Il ritiro dei coloni dalla Cisgiordania potrebbe essere una valanga in discesa libera e potrebbe fare saltare qualsiasi governo, qualsiasi accordo. Occorre più che mai sapienza, lungimiranza e autorevolezza morale.
Abu Mazen possiede queste caratteristiche, Sharon sta tentando di ricostruirsi una verginità perduta da tempo col pronto soccorso di Perez e del partito laburista. Entro mille giorni dalle elezioni di Abu Mazen, è indispensabile raggiungere un accordo anche minimale che abbia l’avallo politico dei due popoli e non solo delle rappresentanze partitiche.
Un punto essenziale di questo accordo deve riguardare la costruzione di alcune scuole che segnino il confine tra i due Stati al posto dell’orrido e orrendo muro di apartheid costruito sulla viva carne della terra di Palestina. Segnare i confini con edifici scolastici aperti dai due lati confinanti dove educare insieme i bambini ebrei e palestinesi di oggi, i governanti di domani. Educarli a crescere insieme, imparando le rispettive lingue, con maestri dell’uno e dell’altro popolo per stemperare la diffidenza e la paura dell’altro fino a trasformarle in reciprocità libera e liberante. Solo così, fra 50 anni, Abu Mazen e il suo dirimpettaio israeliano potranno dire di avere vinto la sfida della Pace.
LA SANTA SEDE E L’ITALIA
Il punto di appoggio su cui fare leva per iniziare il pellegrinaggio del diritto nelle città dell’est e dell’ovest, del sud e del nord, dovrà necessariamente partire da Roma: dalla Santa Sede in particolare, perché essa fu la sola che, in epoca non sospetta (15 febbraio 2000), contro il parere dell’opinione comune mondiale, firmò un protocollo di reciproco riconoscimento con l’Autorità palestinese, compiendo così un raro atto diplomatico che ebbe le fattezze del gesto profetico nell’anno giubilare del secondo millennio cristiano. Quel riconoscimento oggi ha il suo peso e diventa un viatico di notevole portata nelle sedi diplomatiche del mondo ad Oriente come ad Occidente.
L’Italia berlusconiana, purtroppo, ha creato anche un vulnus nella politica mediorientale che era stato un distintivo d’onore degli ultimi 60 anni: punto di raccordo tra le esigenze di sicurezza d’Israele e il bisogno di giustizia del popolo palestinese, soggetto arabo di diritto.
La stessa posizione geografica dell’Italia ne ha sempre facilitato la missione di pontiera fra i tre continenti: arabico-asiatico, africano ed europeo. In questo ruolo di prim’ordine si distinse il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira che già negli anni ’50-’70 con i «Colloqui del Mediterraneo» fu indefesso profeta del «sentirnero di Isaia», che inesorabilmente conduceva i figli dispersi sulla stessa terra e nemici per condizioni storiche verso l’ineluttabilità dell’unica pateità: Abramo.
Israeliani e palestinesi, discendenza abramitica, possono violentare la Pace in modo sistematico con ogni forma di guerra, possono ritardare gli appuntamenti della Storia, ma sono condannati ad una inesorabile pacificazione.

L’INSEGNAMENTO DI ABRAMO E L’EREDITÀ DELLE «3P»
Come Abramo, Abu Mazen deve avere il coraggio di lasciare le «tre P»: il padre, il paese e la patria.
Il padre Arafat lo ha lasciato per sempre e senza rimpianti. Ora deve superare il concetto di «paese» ed accettare la convivenza con l’altro figlio di Abramo, Israele. Infine, deve porre mano all’aratro dell’identità palestinese e ritessere un concetto di «patria» che finalmente possa assidersi alla mensa del consesso dei popoli. Non più popolo-paria ai margini del deserto, senza petrolio e senza arte né parte, ma popolo di diritto che difende i suoi diritti e interessi non uccidendo i suoi stessi figli scagliati come kamikaze contro altri figli, ma innalzando l’emblema della giustizia che si conquista nella normale dialettica politica, nelle sedi mondiali dove ancora si esercita il magistero della legge internazionale come stativo di ogni popolo e Stato.
Solo allora inizierà un’era di Pace-Shalom-Salam.

Paolo Farinella


Box 1:
Piccolo glossario

Abramo
Secondo la tradizione è il primo patriarca biblico, fondatore della discendenza ebraica attraverso la moglie Sara. Anche i popoli arabi si attribuiscono la pateità abramitica attraverso la discendenza di Agar, schiava di Sara.
Accordi di Oslo
Oslo 1: Il 20-29 agosto 1993, a Oslo in Norvegia va in onda il 10° tentativo di pace degli ultimi 30 anni tra Israele e Palestinesi; tra il 9 e il 10 settembre Yitzhak Rabin e Yasser Arafat si scambiano lettere di reciproco riconoscimento formale. Oslo 2: Il 28 settembre 1995 l’Olp di Arafat e Israele firmano un accordo temporaneo sulla Cisgiordania e la striscia di Gaza su un parziale controllo palestinese sui territori occupati. Israele riconosce ufficialmente «i diritti dei palestinesi sull’acqua in Cisgiordania».
Al-Fatah
Partito maggioritario dell’Olp (v. sotto) fondato alla fine degli anni ’50 da Yasser Arafat che ne è stato il presidente fino alla morte (2004).
Camp David
Dopo la Casa Bianca, è la seconda residenza (estiva) ufficiale del presidente americano.
Coloni
Ebrei che si sono insediati abusivamente nei territori palestinesi, dove hanno costruito villaggi e attività agricole con l’obiettivo di riprendersi la «terra d’Israele», secondo loro, illegittimamente occupata dagli arabi palestinesi. Sostenuti da tutti i governi israeliani dal 1948 ad oggi, si considerano i pionieri del ritorno nella Terra Promessa e sono in grado di condizionare l’opinione pubblica e i governi. Sono Ebrei irriducibili che vogliono la distruzione totale dei Palestinesi e non accettano di lasciare pacificamente gli avamposti occupati.
Hamas
Acronimo di Harakat al-Muqawamah al-Islamiyyah (Movimento di resistenza islamico) fu fondata dallo sceicco Ahmed Yassin e Mohammed Taha nel 1987 con un solo motivo: la distruzione dello stato d’Israele al cui posto impiantare uno stato palestinese islamico. La guerra israelo-palestinese è «una lotta religiosa tra islam ed ebraismo che può essere risolta solamente per mezzo della distruzione dello stato di Israele». È presente specialmente nella Striscia di Gaza e Cisgiordania. Hamas si è assunto la pateità della maggior parte dei kamikaze che si sono fatti esplodere in Israele, seminando morte e terrore tra civili e anche militari. Ha grande seguito tra il popolo che da Hamas riceve sostegno economico e assistenza.
Jihad (Islamica)
Altro gruppo di irriducibili resistenti palestinesi che hanno fatto del terrore la loro arma privilegiata. Letteralmente «Jihad» significa «sforzo/impegno» e indica il «combattimento» spirituale, interiore sulla Via di Allah, poi, erroneamente passato ad indicare la lotta armata.
Muro
Dopo la seconda Intifada (2000-2002) che ebbe come conseguenza diretta decine di kamikaze che si facevano esplodere in centri affollati, il governo Sharon, appellandosi alla «sicurezza d’Israele», ha deciso la costruzione di un muro per isolare gli insediamenti dei coloni dagli attacchi palestinesi. Definito dalla maggior parte degli stati di diritto «muro della vergogna», in concreto, il muro ha finito per dividere e rinchiudere in un ghetto di apartheid interi villaggi arabi, separando i palestinesi dai luoghi di lavoro e dalle campagne, al fine di rendere impossibile la vita e costringere all’emigrazione.
Olp
Organizzazione per la Liberazione della Palestina è fondata a Gerusalemme Est il 2 giugno 1964 dal primo vertice della Lega araba. Nel gennaio del 1969, ne assume la guida Yasser Arafat, leader del partito maggioritario di Al Fatah.
Raís
Titolo arabo che significa, signore/padrone/capo.
Pa.F.

Box 2
E la pace darà buoni frutti

La pace produrrà mille pampini di giustizia e ogni pampino farà sbocciare mille grappoli di pace e ogni grappolo fruttificherà mille acini di giusti e ogni giusto pianterà mille ulivi e ogni ulivo vivrà e darà olio per mille anni. In quel giorno, i figli di Palestina e i figli di Israele, ambedue scaturiti dalle viscere di Abramo per Sara e per Agar, sosteranno al pozzo della Pace per attingere l’acqua della giustizia e nessuno dei due popoli avrà più sete per mille anni a venire perché l’acqua invaderà il deserto e il diritto scorrerà come un fiume che alimenta la vita. Solo allora sarà veramente iniziato il terzo millennio, un millennio in cui la Giustizia incontrerà la Pace che si baceranno davanti a Israele, davanti alla Palestina, coram mundo.
Auguri Mahmoud Abbas, che Dio Misericordioso abbia pietà di te e dei governanti israeliani e vi benedica nel vostro entrare e nel vostro uscire ( Dt 28,6).

Paolo Farinella




Il sogno di Mukiri


I bambini poliomielitici di Tuuru necessitano di acqua. E lui si accorge che, nella foresta-montagna del Nyambene, ogni mattina avviene quasi un miracolo: la nebbia nottua si condensa sulla chioma degli alberi e, con il sole, si disperde in mille rivoli sul terreno. Allora ha un’intuizione geniale: scava nel ventre della montagna e, attraverso gallerie, recupera l’acqua in bacini di raccolta. Nasce un acquedotto. Un’opera che, grazie a 270 chilometri di tubazioni, offre acqua a 250 mila persone. Ma il sogno non si esaurisce qui.

28 dicembre 2004.

Le chiese cattoliche risuonano, ancora una volta, del lamento altissimo delle mamme dei bimbi massacrati dal re Erode poco dopo la nascita di Gesù a Betlemme. Lacrime desolate. «Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più» (Mt 2, 18). Ma, il 28 dicembre 2004, la disperazione riempie anche tanti templi del mondo. L’urlo è straziante specialmente in Sri Lanka, Indonesia, India, Thailandia, Myanmar; raggiunge le coste della Somalia e del Tanzania. Persino i luoghi di culto islamici, indù, buddisti e cristiani sono stati squassati e violentati, due giorni prima, dallo tsunami, l’onda titanica e furiosa del maremoto. Le vittime appaiono subito molte: 10, 20, 30 mila. Addirittura 100, 200, 250 mila. Poi non si contano più. Sono troppe! Un anziano annaspa fra onde putride e vorticose: tiene anche stretto a sé un bimbo di pochi anni. Accortosi della telecamera che lo inquadra, ha ancora la forza di mormorare: «Water, please!» (acqua, per favore). Vecchio e bambino stanno soccombendo di terrore, di fatica. E di sete.

A prescindere dalle calamità

naturali, oggi si muore veramente per mancanza d’acqua. O la si soffre acutamente, con conseguenze letali. Nel celebratissimo anno 2000 la comunità internazionale siglò la Millennium Declaration di New York, impegnandosi a dimezzare entro il 2025 il numero di persone senza una fonte sicura d’acqua. Però, tre anni dopo, al Forum Mondiale dell’acqua di Tokyo (marzo 2003), si prese atto che il traguardo restava irraggiungibile. Fino al 2020, dai 34 ai 76 milioni di individui rischieranno di morire per malattie legate all’acqua malsana. La piaga è endemica in Africa: qui, secondo l’Oxfam (Federazione di Organizzazioni non governative inglesi impegnate contro il sottosviluppo), nel 2015 le persone prive di acqua potabile saranno aumentate di quasi 100 milioni.

«Acqua, per favore!».

Lo dicono pure i turisti al termine di un assolato safari nella savana africana. Tre loro Land Rover, di ritorno al lodge, impolverano pesantemente alcune bambine ai margini della strada sterrata: bambine scalze, un po’ lacere, che recano sul capo o sulla schiena un pesante recipiente d’acqua attinta sul fondovalle, dopo due chilometri di discesa ed altrettanti di lenta e faticosa salita. Domani e dopo domani rifaranno il tragitto: due, tre volte, come oggi. È la loro vita. Giuseppe Argese lo sa (*). Giuseppe è un missionario della Consolata «fratello», in Kenya da quasi 50 anni. Esattamente dal 1957 osserva le polverose e ossessive camminate quotidiane di tante bambine, come quelle delle loro mamme e nonne: fratel Giuseppe guarda con attenzione, ma non proferisce parola. Ecco perché i bameru (la popolazione locale) l’hanno ribattezzato Mukiri, il silenzioso. Intanto, con altri missionari, erige l’artistica cattedrale della diocesi di Meru. Nei pomeriggi domenicali Mukiri passeggia. Lungo i sentirneri rivede le bambine con il loro fardello d’acqua sulla testa crespa. E medita. Non distante da Meru, sorge Tuuru, la missione di padre Franco Soldati, che ospita anche bambini poliomielitici. Un giorno Franco avvicina Giuseppe e lo scuote: «Mukiri, i bambini, colpiti da polio, hanno bisogno d’acqua, e non possono andare a cercarsela come gli altri. Inventa qualcosa. In fretta!». Mukiri, il silenzioso, tace; ma, fissando il torrente Mwamba, pensa di utilizzae le acque. La domenica continua le sue passeggiate. È attratto dalle sorgenti del Mwamba, che lo porta nel cuore di una foresta-montagna-vulcano: è il Nyambene, che dà il nome anche alla regione. Inoltrandosi nella selva di felci, nota come la vegetazione sia intrisa d’acqua nella sua interezza, tanto da essere pavimentata da uno strato di muschio gocciolante.

La fredda umidità dell’ambiente fa rabbrividire Mukiri. Ma rabbrividisce, soprattutto, allorché intuisce che, sulla foresta-montagna-vulcano del Nyambene, quotidianamente accade qualcosa di straordinario. Ossia: la grande escursione termica tra giorno e notte (dovuta ai pochi gradi di latitudine dall’equatore, e agli oltre 2 mila metri di altitudine del luogo) fa sì che, con il calare delle tenebre, il cielo sul Nyambene si ammanti di spesse nubi, che il torrido sole equatoriale dissolve al mattino. La nebbia, ristagnando per ore, si condensa sulla chioma della foresta e cola al suolo lungo le pareti della montagna, dove proliferano tappeti di muschio imbevuti di rugiada; essa, gocciolando, alimenta piccoli ruscelli (cfr. Valeria Bianchi, Il nostro Kenya, SGI, Torino 2004, p. 9-11). Quell’acqua dove va a parare? Mukiri ha quasi una folgorazione: l’acqua può essere risucchiata dal terreno poroso del vulcano spento, come una spugna; se si scavasse nelle sue viscere, forse si recupererebbe l’acqua infiltrata. Così avviene.

Con scarsi fondi

ed attrezzature rudimentali, Mukiri scava nel cuore del vulcano gallerie lunghe centinaia di metri, al cui interno le pareti trasudano una quantità d’acqua potabile purissima. Incomincia a sognare in grande. D’ora in poi le donne non saranno più schiave della diutua fatica del trasporto d’acqua sulla schiena o sulla testa. Il sogno di Mukiri diventa realtà con l’acquedotto di Tuuru. Un’opera imponente e geniale: una rete di 270 chilometri di tubazioni reca acqua potabile alle oltre 250 mila persone della circostante area, siccitosa a memoria d’uomo. L’acqua ha radicalmente mutato la vita sociopolitica nel Nyambene. Attoo al primo rubinetto d’acqua nella savana si sono stretti adulti e bambini, prima dando vita ad un mercato e poi ad un villaggio. Oggi ogni fontana è presidiata da un custode, che richiede un piccolo contributo in denaro ai beneficiari dell’acquedotto: non solo per scongiurare la passività della popolazione, ma anche per alimentare la modesta economia locale. A Mukululu, sede storica del laboratorio-officina di fratel Giuseppe, grazie all’acqua, sono fiorite anche piantagioni di tè. Il missionario continua ad occuparsi della direzione tecnica dell’acquedotto, mentre la gestione ordinaria è in mano delle comunità locali. Però il sogno di Mukiri perdura: oltre ad ampliare la chiesa di Mukululu, incastonata nei campi di tè, sta gettando alcune dighe imponenti, onde accumulare la maggior quantità d’acqua possibile. Questi invasi rispondono alle incessanti richieste d’acqua e servono, soprattutto, a fronteggiare le ricorrenti siccità.

Giuseppe Argese, missionario della Consolata, abita tutto solo in una casetta di legno, sulla cui entrata spicca la scritta «lo chalet dell’orso». Ve n’è pure un’altra in latino: «ursus in silvis». Forse Giuseppe, assai poco loquace, sa di essere un po’ orso nella foresta del Nyambene. Ma per i bameru è solo Mukiri… Il sole è tramontato. Mukiri, ursus in silvis, si rintana nel suo angusto chalet. Prima di cena, sosta in preghiera e meditazione. Si sofferma sul vangelo di Matteo: «Venite, benedetti dal Padre mio, entrate nel regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo… perché ho avuto sete e voi mi avete dato da bere» (Mt 25,18). È notte. Sulla foresta-montagna-vulcano del Nyambene ristagnano le nubi. La «missione acqua» continua.

Giuseppe Argese

(*) Giuseppe Argese nasce a Martina Franca (TA) il 10 novembre 1932. A 15 anni è apprendista muratore. Presso la parrocchia «San Francesco di Assisi» conosce i missionari della Consolata. Nel 1953 diventa uno di loro come «fratello». È in Kenya dal 1957. L’acquedotto di Tuuru, realizzato da fratel Argese, acquista notevole risonanza: – Il Corriere della Sera, 11 gennaio 1998, titola: «Il missionario dell’acqua. Un’impresa colossale»; – nel 1999 Daniele Giolitti si laurea in ingegneria idraulica, al Politecnico di Torino, presentando l’acquedotto ed evidenziandone il rispetto dell’ambiente; – Geo & Geo, di Rai 3, trasmette quest’anno il documentario «Missione acqua», realizzato dalla Società Generale dell’Immagine (SGI) di Torino; – Valeria Bianchi cura Il nostro Kenya, SGI, Torino 2004 (volume cartonato, formato 28 x 28, che raccoglie 97 splendide foto); esiste pure un CD. Altri riconoscimenti al missionario: la nomina di «Cavaliere al merito della Repubblica Italiana» e il conferimento della onorificenza «Servitor Pacis» delle Nazioni Unite.

Francesco Bernardi
foto: Valeria Bianchi, 2004




Isola ad alta tensione

Un anno fa la fuga di Aristide e l’inizio del governo provvisorio,
guidato da Gérard Latortue, incaricato di guidare Haiti verso la normalità.
Gli aiuti promessi per la ricostruzione sono ancora un miraggio, mentre violenze
e insicurezze continuano a insanguinare l’isola caraibica.

All’indomani dei sollevamenti popolari che hanno causato la fuga del presidente Jean-Bertrand Aristide (29 febbraio 2004), ad Haiti è stato messo in piedi un governo di transizione. Il suo mandato è ristabilire la pace sociale e portare il paese a elezioni libere nell’autunno di quest’anno.
Nonostante il dispiegamento dei caschi blu della Minustha (Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione di Haiti) le violenze nel paese non sono cessate. Il primo dicembre scorso le milizie dell’ex presidente hanno attaccato il palazzo presidenziale dove si trovava il segretario di stato americano Colin Powell in visita ufficiale. Altri disordini sono scoppiati contemporaneamente in vari quartieri della città.
Abbiamo incontrato il primo ministro al margine del 10° vertice della francofonia, che si è tenuto a Ouagadougou, in Burkina Faso.

Qual è il bilancio della partecipazione di Haiti al 10° vertice della francofonia?
Molto positivo, perché abbiamo ripreso contatto con tutti i paesi francofoni, in particolare quelli africani. Ma abbiamo incontrato un grosso problema: c’è stata una manovra per far sì che l’Unione Africana prendesse una posizione contraria al cambiamento della costituzione. Tuttavia, in questo incontro abbiamo potuto discorrere su quello che succede ad Haiti e abbiamo spiegato loro che non siamo un governo nato per prendere e conservare il potere, ma vogliamo semplicemente gestirlo per un periodo ben determinato, con mandato ben preciso: restituire l’ordine al paese e prepararlo alle elezioni.
I capi di stato hanno capito che questo è un governo che non vuole prendere una posizione e non parteciperà alla competizione elettorale. Ora c’è anche un certo interesse per il cammino intrapreso da Haiti, come modello di transizione, che può essere utilizzato per risolvere i problemi di altri paesi.
La cosa più importante è che tutta l’Organizzazione internazionale della francofonia (Oif) ha deciso di appoggiare il processo in corso e, allo stesso tempo, aiutarci nello svolgimento delle elezioni, inviando osservatori francofoni e poliziotti nell’ambito della cooperazione tra le polizie. Inoltre ci sono vari presidenti che vogliono venire ad Haiti, come il senegalese Wade e il segretario dell’Oif Adbou Diouf.

E dal punto di vista economico, avete insistito affinché alcuni paesi sblocchino una serie di fondi promessi?
Non abbiamo messo questo problema sul tavolo, perché i paesi che possono darci qualcosa, come Canada e Francia, hanno riaffermato la volontà di aiutarci e a breve. Sono soprattutto i grossi paesi come questi che giocano un ruolo effettivo sulla direzione dei finanziamenti inteazionali. I paesi francofoni nell’insieme hanno posto il problema della cooperazione internazionale, per cui il processo di sblocco dei fondi è troppo lento e non risponde sempre ai bisogni di finanziamento dei paesi in via di sviluppo.

E i fondi (un miliardo e ottocento milioni di euro) promessi dall’Unione Europea?
Non sono ancora stati sbloccati dall’UE: essi sono stati approvati nel luglio scorso; in agosto c’erano le vacanze e dopo è cambiata la Commissione europea. Nessuna decisione poteva essere presa. Ma il principio c’è: il pagamento si farà nei primi mesi di quest’anno.
Ma noi, come governo, abbiamo preso delle misure, senza aspettare questi soldi, per cominciare una serie di lavori. Il 15 novembre scorso abbiamo lanciato vari cantieri con i fondi del Tesoro haitiano e della Banca Interamericana di Sviluppo che ha già iniziato a pagare. Sono progetti per creare lavoro nel paese, perché la nostra opinione è nota: la causa essenziale dell’insicurezza è la disoccupazione, la miseria.

Ad esempio?
Intanto c’erano certe condizioni che dovevamo rispettare, come fare un decreto che crea la commissione per l’assegnazione dei mercati. Poi siamo in piena contrattazione per cominciare il più rapidamente possibile la ricostruzione di alcune importanti strade del paese, sia al nord che al sud.

A livello politico interno, i diversi attori sono oggi disposti a mettersi d’accordo per gestire la crisi?
Sanno bene che non c’è altra possibilità di uscire dalla crisi se non quella di assicurare il successo della transizione. In questi mesi tutte le attività pre-elettorali devono cominciare; quindi, se vogliamo veramente uscire da questa situazione per arrivare a un governo legittimo, non si può che appoggiare la transizione, per portare il paese alle elezioni a fine 2005.

Lo stato è in grado di garantire la sicurezza dei cittadini e di arrivare alle elezioni?
Abbiamo chiesto aiuto alle Nazioni Unite che hanno inviato i caschi blu della Minustha, perché fin dall’inizio abbiamo riconosciuto di non potercela fare da soli, con una polizia di 3 mila effettivi, mal formata, mal equipaggiata, che non aveva neanche le armi, per 8 milioni e mezzo di abitanti. Non sarà lo stato haitiano da solo che garantirà la sicurezza, ma in cooperazione con le Nazioni Unite e le truppe della Minustha.

Ma le violenze nella capitale e in altre città continuano…
Adesso va meglio e la Minustha sarà ben presto al completo, avrà il suo effettivo totale in questi giorni. Sono pronti a impedire ogni genere di disordine, come quelli che ci furono alla fine del mese di settembre. Entriamo in un periodo in cui la Minustha prende ancora più coscienza della necessità di garantire una sicurezza totale, affinché cessino le violenze e il processo elettorale possa realizzarsi nelle migliori condizioni possibili.

Alcuni vorrebbero ricreare le forze armate d’Haiti: lei cosa ne pensa?
Io non ho nessun problema affinché ci siano delle forze armate, ma noi non abbiamo il tempo di farlo. Occorre studiare la questione a fondo. Sarà il prossimo governo che entrerà in funzione il 7 febbraio 2006, a preparare uno studio sulla fattibilità di un esercito. Ristabilire un’istituzione così, dopo 10 anni, richiede un lungo periodo di preparazione. Non siamo contro, ma non abbiamo né il tempo, né i mezzi, né il mandato.

Ma ci sono le milizie, che si dicono ex militari, che dettano legge in alcune zone: ci sono due stati in Haiti?
No, è totalmente falso. Sono stato a Cap Haitien, il 19 novembre scorso, e c’era un solo stato che mi ha ricevuto. Per la questione dei militari è stato creato l’ufficio per la gestione dei militari smobilitati, che ha il compito di reinserirli. Sono pronti a rispettare gli accordi fatti tra il governo e questi ex militari. Abbiamo già 600 impieghi e aspettiamo che l’ufficio ci dia i nomi per assegnarli.

E come farete a eliminare il fenomeno delle bande armate?
Non tocca a me, ma alla Minustha insieme alla polizia nazionale. Vedremo, dobbiamo cominciare, per assicurare una certa stabilità, che non ci sia più la libertà di andare a sparare in qualsiasi momento in questo o in quel quartiere.

BOX 1

Haiti: paese suicida

I fondi promessi nello scorso luglio dalla comunità internazionale per la ricostruzione di Haiti (quasi un miliardo di dollari) non sono ancora arrivati. Ma il ministro degli esteri, Yvon Siméon, in seguito alla riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu dedicato ad Haiti, lo scorso gennaio, si è detto «ottimista» sullo sblocco imminente.
Intanto il primo ministro Gérard Latortue è riuscito a ottenere il finanziamento per le elezioni, previste a fine anno. Il 10 gennaio Canada, Stati Uniti e Unione europea si sono impegnati per un totale di 44 milioni di dollari necessari.
Ma ad Haiti, a un anno dai sanguinosi eventi terminati con la fuga del presidente Jean-Bertrand Aristide, oggi «ospite» in Sud Africa, e l’installazione dell’attuale governo di transizione, cos’è cambiato?
L’attualità è sempre dominata da violenza e da violazioni dei diritti umani. Le bande fedeli all’ex presidente continuano a imperversare nelle bidonvilles della capitale; gli ex ribelli, costituiti da ex militari, esponenti della destra storica ed ex putschisti si fanno ora chiamare Fronte di Resistenza Nazionale e controllano parte del paese, a dispetto della polizia nazionale, dei caschi blu dell’Onu e del governo che chiede a tutte le forze non ufficiali di deporre le armi.
Le Nazioni Unite, presenti con la missione di peacekeeping Minustha, forte di 7.400 effettivi sotto comando brasiliano (partecipano anche argentini, cileni, ecuadoriani, giordani, ecc.), che ha visto il suo mandato rinnovato fino a giugno 2006, ha seri problemi a mantenere l’ordine.

L’ agenzia stampa AlterPresse riporta che dal 30 settembre scorso un movimento violento è in corso in diversi quartieri della capitale. Le «chimere» rivendicano il «ritorno fisico» di Aristide. Ad oggi si registrano circa 200 morti, ufficialmente per scontri con la polizia. Da gennaio è in corso un’operazione di «pulizia» nelle enormi bidonvilles della capitale Port-au-Prince, che vede l’attuale amministrazione al centro di una polemica. Accuse di violenze, maltrattamenti ed esecuzioni sommarie, perpetrate dalla polizia, sono arrivate a decine alle organizzazioni per i diritti umani. La Coalizione nazionale per i diritti degli haitiani (Nchr) è stata informata di persone uccise dalla polizia: «Chiederemo alla polizia d’aprire le inchieste su questi casi e sugli atti di brutalità esercitati da poliziotti durante le operazioni» ha dichiarato il direttore Pierre Espérance all’agenzia Haiti Presse Network.
È nel corso di un rastrellamento della polizia a Cité de Dieu (nota bidonville) che è stato ucciso, il 14 gennaio, il giovane giornalista Abdias Jean. Sarebbe stato testimone scomodo di alcuni omicidi.
Nello stesso periodo altri due giornalisti del quotidiano Nouvelliste, sono stati malmenati, questa volta da sostenitori dell’ex presidente, mentre altri due colleghi hanno denunciato pressanti minacce di morte nei loro confronti.
Ma non basta. Il primo dicembre nel penitenziario nazionale di Port-au-Prince una rivolta è degenerata in massacro. Le cifre ufficiali di 10 morti e 40 feriti sono smentite da alcuni testimoni, che avrebbero visto molti più cadaveri. Le visite di parenti e giornalisti sono state, da allora, soppresse. Amnesty Inteational ha lanciato un appello affinché sia fatta chiarezza e rispettati i diritti dei prigionieri.

I ntanto sul piano diplomatico l’Unione Africana, per voce del presidente della Commissione Alpha Oumar Konaré ha espresso attaccamento al problema haitiano perché: «Haiti è un paese africano fuori dall’Africa». A Pretoria (Sud Africa) Konaré ha incontrato Aristide e Thabo Mbeki a gennaio, dopo aver fatto una visita il mese prima nel paese caraibico. Il risultato: un avvicinamento di Latortue, che ha sempre accusato Aristide di dirigere i suoi sostenitori dall’esilio, all’ex presidente per un’azione in favore del dialogo nazionale e la pace.
Nel paese, intanto, il progetto di dialogo inter haitiano, sostenuto dalla comunità internazionale, cerca di decollare. Una consultazione dei diversi partiti politici e settori della nazione è in corso sulle grandi questioni del paese. Micha Gaillard, politico e oppositore del regime di Aristide, incaricato della cosa, si è detto soddisfatto delle reazioni che ha incontrato nei confronti del dialogo nazionale. Il gruppo 184, gli oppositori democratici della società civile, tenta di formalizzare un progetto di contratto sociale e cerca fondi per realizzarlo. Il gruppo è deciso a contribuire alla realizzazione di elezioni trasparenti e corrette (9 ottobre, 13 novembre e 18 dicembre 2005). M.B.

Marco Bello




La storia sui… binari

Si tratta della «Transcanadese», pezzo del nostro immaginario collettivo
dove il viaggio è visto ancora come esplorazione e conquista.
Attraverso luoghi incantati, carichi di storia, i segni del non sempre facile rapporto tra nativi e «invasori», tra autonomia e cedimenti alla moda dei… vicini.

Le tratte ferroviarie entrate a far parte della mitologia del viaggio, inteso come esplorazione e conquista, sono diverse, ma soltanto queste due – Transiberiana e Transcanadese – continuano a destare nell’immaginario collettivo quella miscela di fascino, mistero, avventura di cui oggi molti sentono la mancanza.
Se la Transiberiana è riuscita in gran parte a mantenere intatta la sua seduzione e a riproporre luoghi e popolazioni cambiati poco o niente nel corso della vita centenaria, la Transcanadese si è evoluta di pari passo con le conquiste tecnologiche, il progresso, i nuovi usi e costumi, perdendo molto del significato originario che era stato alla base della sua costruzione.
La Transiberiana è il frutto di una cultura e di uno spirito – quello russo – già formatosi e radicato nella popolazione, mentre le ferrovie canadesi hanno anticipato il decorso storico del Canada stesso, tanto da non apparire esagerato affermare che, se oggi il paese americano è una nazione, lo si deve essenzialmente alle sue ferrovie.
La Nova Scotia, il New Brunswick nel 1864 e la British Columbia nel 1871 siglarono il trattato di unione con la Confederazione solo dopo aver ottenuto dall’allora primo ministro J.A. Macdonald la promessa che le loro province sarebbero state unite al resto del paese con collegamenti ferroviari: rispettivamente, l’Imperial Canada Railway e la Canadian Pacific Railway (Cpr).
Lungo i binari di queste strade ferrate si sono consumati drammi umani, come la sconfitta del leggendario meticcio franco-indiano Louis Riel, nel 1885; o scandali politici, come quello che costrinse lo stesso Macdonald alle dimissioni nel 1873. Per la costruzione della Cpr sono stati ingaggiati migliaia di lavoratori dall’Asia e dall’Europa, tra cui 8 mila italiani; nuovi ceppi etnici che hanno reso città canadesi come Toronto, Montreal, Vancouver vivaci insalatiere etniche.
Ma la Cpr è stata anche lo strumento che ha portato il Canada ad adottare un atteggiamento così differente dagli Stati Uniti nei confronti degli aborigeni: la colonizzazione dell’ovest canadese da parte degli europei è proceduta di pari passo con la legge dello stato, evitando l’anarchia e gli stermini avvenuti più a sud.
E leggere la storia di un paese sui binari di un treno, osservandone i cambiamenti in atto, è l’intento che io, mia moglie Yasuko e mio figlio Daigo, ci siamo dati per questo viaggio che, a differenza di quanto accaduto per la Transiberiana, ha visto ridurre al minimo l’improvvisazione, grazie alla disponibilità, la cordialità e l’efficienza delle persone e degli enti contattati per ottenere interviste e visite.
Così, se da un lato percorrere la Transcanadese non presenta inconvenienti e problemi, dall’altro questa perfezione organizzativa ha in parte dissolto il clima pionieristico che è ancora tangibile, mentre si percorre il tratto russo. Anche lo schoc culturale, che un visitatore del vecchio mondo subisce nel giungere nel paese, non è così traumatico come può sembrare, osservando sull’atlante geografico la distanza che separa i due continenti.

Nostalgia di indipendenza

Il Québec, la porta d’accesso al Canada per la maggioranza degli europei, ha mantenuto intatta quell’atmosfera da Nouvelle France che tanto la differenzia da ogni altro stato nordamericano: le vie delle cittadine ripropongono nomi di personaggi reali e della chiesa preconciliare, come Boulevard Roi Louis xvii o Pie ix; nei negozi si vendono formaggi speziati e i villaggi si preannunciano con i campanili delle chiese cattoliche, attorno a cui si stringe la vita comunitaria.
La religione, assieme alla lingua, è uno dei due caratteri che hanno permesso al Québec di mantenere quel carattere mediterraneo che lo rende così unico e diverso dalle altre province canadesi. Del resto, fu il cardinale di Richelieu che, dopo aver fondato la Compagnie de la Nouvelle France nel 1627, diede il via alla sistematica colonizzazione e alla cristianizzazione di tutti i possedimenti francesi del Nord America; e fu ancora la chiesa cattolica a divenire l’elemento di riferimento per la comunità francofona dopo il 1760, anno in cui gli inglesi conquistarono Montreal e s’impadronirono del Québec.
L’occupazione britannica risparmiò ai cittadini della Nouvelle France il crollo politico e morale della madrepatria di Luigi xiv e permise al clero di mantenere intatta quella considerazione popolare che gli venne tolta in Europa dalla rivoluzione francese.
Al di fuori dall’Asse Laurenziano, la regione compresa tra Montreal e Québec City, l’inglese diventa una lingua sconosciuta, parlata tutt’al più con un forte accento francese da ben poche persone. Mentre ci addentriamo nella regione della Gaspesie, tra villaggi che ricordano quelli della costa normanda o bretone, ci accorgiamo di quanto lontana sembra essere Ottawa, la capitale politica del Canada, e quanto vicina, invece, sia Parigi!
Qui, tutti ricordano la memorabile visita di De Gaulle a Montreal nel 1967, quando dal balcone del municipio gridò entusiasta: «Vive Montreal! Vive le Québec! Vive le Québec libre!».
Oltre a infervorare i secessionisti, il grido scosse le fondamenta del parlamento canadese, il quale iniziò a varare una serie di leggi che permisero al Québec di mantenere la sua autonomia culturale e politica, senza distaccarsi dalla madrepatria. «È stato il nostro Sessantotto» – ci dice Robert Yvon, responsabile del Dipartimento dell’educazione del distretto di Lac Saint Jean, oggi in pensione. «Non abbiamo vinto, ma abbiamo ottenuto l’indipendenza economica e amministrativa».
A Chicoutimi, all’estremità del Fiordo di Saguenay, l’idea separatista è ancora viva nel 90% della popolazione. Il Front de Libération du Québec, organizzazione armata particolarmente attiva negli anni Settanta, qui conta ancora diversi nostalgici e la storia della regione, scritta dai «Martyres patriotes» del 1826 o quelli delle Ribellioni del 1837-38, viene ancora insegnata con orgoglio ai bambini. «Je me souviens»: io mi ricordo, si legge sulle targhe automobilistiche della provincia del Québec; un ricordo che nessuno vuole cancellare, così come nessuno, nel vicino Ontario, desidera dimenticare l’eredità britannica ricevuta dagli antichi colonizzatori.

Influsso anglo-americano

In questa provincia, grande più di tre volte l’Italia, ma con una popolazione sei volte inferiore, le bandiere nazionali canadesi sventolano accanto all’Union Jack. La fedeltà alla Corona è ancora oggi testimoniata dall’orgogliosa ostentazione nei cognomi dell’appellativo UE (United Empire), concesso nel 1789 dalla regina per ringraziare i 40 mila lealisti inglesi che, pur di non sottostare alle leggi dei Rebels, si trasferirono in Canada durante la guerra d’indipendenza americana. Attraversiamo città, i cui nomi ricopiano quelli dell’Inghilterra: Kingston, London, Thames, sino ad arrivare a Toronto, che fino al 1834 si chiamava York.
Oggi, con i suoi 4 milioni di abitanti, le vie che si intersecano ad angolo retto, i grattacieli che si specchiano nel lago, le fabbriche che circondano la periferia, Toronto è la città più grande del Canada, ma anche la più statunitense, sebbene nessun «toronter» ami questo accostamento. Loro sono canadesi e la sola idea di essere considerati una copia culturale e politica dei vicini è insopportabile.
Costeggiando il lago Ontario, arriviamo alle cascate del Niagara, la cui naturale maestosità è stata rovinata dalla mano dell’uomo che, per attirare il turismo dagli Stati Uniti, ha costruito un guazzabuglio indecente di locali nottui, sale da gioco, fast-food, negozietti stracolmi di gadgets. Preferiamo la quiete di Niagara-on-the-Lake, cittadina piuttosto artificiale, ma immersa nelle colline coperte di vigneti, da cui si produce il famoso e costoso Ice Wine.
Vicino a Fort Gorge, dove il fiume Niagara si tuffa nell’Ontario, un cartello indica che nel xviii secolo i gloriosi anglo-canadesi sconfissero gli «invasori» americani (è scritto proprio così: invasori). Il contrasto fra le due Niagara è stridente: tanto insulsa, americana, pacchiana è la Falls, quanto colta, rilassante e aristocratica è la On-the-Lake.
Qui, ogni anno, si apre lo Shaw Festival, che attira appassionati di teatro da tutto il mondo. E, sempre qui, vive una delle più numerose comunità di italo-canadesi del paese, discendenti di quei 410 mila emigranti italiani che, dal 1945 al 1967, hanno solcato l’oceano in cerca di una vita più dignitosa per sé e i propri figli.
Maria Rocca, che assieme al marito Léon Martin gestisce la B&B dove alloggiamo, è la figlia di uno di questi: professoressa di lettere e italiano, rappresenta un esempio di integrazione sociale e culturale, conclusasi con successo.
Ma la storia canadese ha conosciuto anche posizioni di rigetto, sino a rasentare la xenofobia. All’inizio del secolo, il teorico dell’imperialismo, George Parkin, affermava che il rigido clima invernale canadese aveva risparmiato al Canada la creazione di città come New York, Chicago, Saint Louis che, oltre a quello che lui definiva il «problema negro», attiravano «masse di vagabondi dall’Italia o da altri paesi dell’Europa del Sud».
Pochi anni prima a Regina, nel Saskatchewan, Louis Riel era stato impiccato al termine di una rivolta iniziata a Winnipeg, nel 1869. Riel guidò una ribellione di meticci, appoggiata anche dalla chiesa cattolica, per evitare che gli inglesi protestanti si appropriassero delle loro terre. Ancora oggi, nel quartiere francese di Saint-Boniface a Winnipeg, la piccola comunità francofona considera Riel un eroe.
Nel cimitero di fronte alla cattedrale cattolica, la sua tomba è meta di pellegrinaggi, mentre a Regina, durante l’estate, nella sala comunale viene riproposto il processo che lo condannò a morte.

Giubbe rosse (di sangue)

Daigo, invece, è molto più attratto dai Royal Mounted Canadian Police (Rmcp, le famose Giubbe Rosse che a Regina hanno la loro accademia) e dalla loro mascott, Safety Bear, una sorta di orso Yoghi sempre circondato da bambini (e non solo da loro).
Al confine tra il Saskatchewan e l’Alberta, visitiamo il Cypress Hill, il luogo dove nel 1876 Ta-tanka I-yotank, da noi conosciuto come «Toro seduto», si rifugiò dopo la battaglia di Little Big Ho, per evitare la vendetta delle truppe statunitensi. Le Giubbe Rosse (colore scelto anche per distinguersi dalle famigerate Giubbe Blu), protessero i rifugiati e amministrarono tutti i territori della Corona, evitando che l’anarchia della «legge del Far West» si propagasse anche in Canada.
Ma anche le divise della Rmcp sono macchiate del sangue di canadesi. Nella memoria delle lotte sindacali è rimasto indelebile il Bloody Saturday, il sabato di sangue, consumatosi il 21 giugno 1919 a Winnipeg, al termine di una serie di scioperi per richiedere la settimana lavorativa a 40 ore. Quel giorno il sindaco della città, stanco delle rimostranze dei lavoratori, richiese l’aiuto delle Giubbe Rosse per ristabilire l’ordine. Il loro intervento lasciò per le strade cittadine due morti.
Il 1° luglio 1935, nel pieno della crisi economica, a Regina 500 agenti Rmcp si scontrarono con 2 mila lavoratori disoccupati, organizzati dal Relief Camps Worker Union, che tentavano di raggiungere Ottawa per perorare la loro causa al parlamento. I feriti, in quel caso, furono decine, mentre 130 manifestanti furono arrestati.
Le Montagne Rocciose dell’Alberta fanno da sfondo alle numerose tribù indiane che celebrano il pow-wow, la festa più importante dell’anno, con balli, danze, musiche. I variopinti colori dei costumi si mischiano con le mandrie di bufali, i rodei, i laghi cristallini in cui si specchiano le cime innevate. E dalle Montagne Rocciose discendiamo lentamente verso l’Oceano Pacifico, dove si concluderà il nostro viaggio.
Tutta questa terra, oggi facente parte della provincia della British Columbia, è stata a lungo contesa al Canada dagli Stati Uniti. Nel 1846, James Knox Polk scelse come parola d’ordine per la sua campagna presidenziale il terribile motto «Fifty-Four-Fifty or Fight!» (letteralmente: 54 gradi e 50 minuti di latitudine nord o guerra!) che fissava le cornordinate dei confini settentrionali statunitensi voluti da Polk, comprendendo il vasto territorio oggi occupato dalla British Columbia fino al confine con l’Alaska (allora territorio russo).
Lo slogan restò fortunatamente solo sulla carta, ma gli screzi con gli Stati Uniti e il pericolo di colonizzazione continuano ancora oggi, tanto da costituire, secondo la scrittrice Margaret Atwood, il tema centrale della specificità culturale e politica canadese.
Nel 1987, i rapporti con i due paesi si erano fatti così tesi, che il ministro della difesa canadese annunciò di voler acquistare dei sottomarini nucleari per difendere le proprie coste, continuamente violate dalla marina statunitense che oltrepassava i limiti territoriali, senza chiedere alcun permesso.
Il Canada ha comunque bisogno degli scomodi vicini, specie ora che Vancouver è stata designata sede dei giochi olimpici invernali del 2010. La città, immersa in una baia spettacolare che la rende una delle più belle di tutto il Nordamerica, è già in fermento; ma le associazioni di aiuto sociale e quelle ambientaliste si stanno giustamente preoccupando per l’inevitabile degrado che puntualmente colpisce le città olimpiche una volta passata l’ubriacatura dei giochi. Sono ancora troppo evidenti i tristi esempi di Montreal e Calgary, le cui comunità debbono ancora oggi, a distanza di decenni, pagare i costosi e inutili impianti, costruiti in occasione delle manifestazioni olimpiche, togliendo fondi preziosi agli investimenti sociali.

Il nostro viaggio si conclude a Vancouver Island, accolti dalla sua aristocratica capitale, che prende il nome dalla regina Vittoria. Ma è alla baia di Tofino, duecento chilometri più a nord, che prendiamo realmente congedo dalla Transcanadese. La costa si affaccia sull’Oceano Pacifico nel punto in cui questo si apre all’infinito ai nostri occhi. Daigo, a cui abbiamo detto che dall’altra parte della distesa d’acqua si trova il Giappone, si diverte tra le onde, fissando lo sguardo all’orizzonte. Davanti a sé ha un mondo intero da scoprire.

BOX 1

La danza propiziatoria, perché la caccia si concluda con esito positivo, sta terminando. Le mogli invocano la protezione del cielo sui loro mariti, i bambini corrono ad abbracciare i loro padri e i fratelli maggiori prima di vederli allontanare dai loro teepee.
I bisonti pascolano pacificamente a poche ore di marcia. Sono migliaia, tanto da trasformare la prateria in un’immensa coperta verde, punteggiata da macchioline marroni. I guerrieri si avvicinano lentamente, senza far rumore, mimetizzandosi con le stesse pelli dei bisonti uccisi l’anno prima. Poi, a un segnale convenuto, si alzano in piedi all’unisono, gettando le pelli sull’erba e mostrando i loro volti dipinti. Lanciano urli e gli animali, spaventati, iniziano a galoppare. Una corsa sfrenata di diverse miglia verso il baratro di una scarpata, che sprofonda per diverse decine di metri. Intuiscono il pericolo, poi lo vedono, ma non possono arrestare la loro marcia perché dietro migliaia di altri bisonti impauriti li sospingono inesorabilmente.
Le carcasse si accumulano, una sopra l’altra, schiacciando e soffocando gli animali che sono riusciti a sopravvivere al grande salto. Anche quest’anno la caccia è stata fruttuosa. La tribù avrà carne per sfamare i propri componenti e sufficienti pelli per difendersi dal rigido inverno delle pianure del Nordamerica.
Questa scena si è ripetuta per migliaia di anni a Head Smashed-In Buffalo Jump, nell’Alberta, il luogo più sacro di tutta la comunità aborigena del Canada, oggi trasformato in museo e dichiarato dall’Unesco patrimonio culturale dell’umanità.

Tutti gli aborigeni del Nord America (quelli che noi, persistendo nell’errore commesso da Cristoforo Colombo chiamiamo indiani d’America), cercano di recarsi, almeno una volta nella vita, in questo ombelico della loro cultura millenaria. Molti arrivano per assistere al pow-pow, la sacra cerimonia che saluta il culmine dell’estate con danze e balli, tenuti in ogni parte del continente. Ogni tribù, ogni clan, indossa propri abiti, intona propri canti, esegue le proprie danze che li contraddistingue da ogni altra nazione aborigena americana. In questo modo, perpetuano tradizioni e riti ancestrali tramandati di bocca in bocca, di generazione in generazione.
Nazioni, dicevamo. Gli aborigeni considerano la loro appartenenza tribale al rango di un qualsiasi altro stato del globo. Duroni, Iroquesi, Piedi Neri, Sioux, Apache… ogni gruppo è dotato di lingua, leggi, religioni, strutture sociali e di comando completamente differenti l’uno dall’altro. E, come qualsiasi altra nazione, anche queste si combattevano, creavano alleanze, commerciavano, massacravano, tradivano, complottavano.
L’arrivo degli europei e la creazione di quelle invisibili, ma invalicabili, barriere geografiche chiamate confini, hanno impresso una biforcazione storica al mondo aborigeno nordamericano. Al sud, la disordinata e individualistica corsa al lontano West dei coloni americani, non regolamentata da alcuna legge, ha causato lo sterminio degli abitanti originari. La disperata difesa del proprio territorio da parte di questi ultimi ha permesso, poi, di creare nel «viso pallido» la fobia del pellerossa, legalizzando i genocidi perpetrati dalle Giubbe Blu.
A nord, invece, il Royal Proclamation Act del 1763, che impediva ai coloni di appropriarsi dei terreni, se questi non erano prima acquistati dalla Corona, garantiva una sorta di ordine e legalità nell’espansione verso il Pacifico.
Del resto, l’incontro culturale tra le diverse etnie era già in atto sin dalla seconda metà del xvii secolo, quando i coureurs-de-bois (i commercianti franco-canadesi che trattavano con gli aborigeni l’acquisto di pelli) cominciarono a prendere per mogli (o amanti) le ragazze delle tribù visitate. I figli meticci nati da queste unioni diedero origine ai métis, il cui rappresentante più celebre rimane Louis Riel. Oggi, a fronte di 624 mila nativi canadesi, i métis sono 153 mila.

I rapporti tra Ottawa e gli aborigeni non sono sempre stati pacifici. Nel 1759, ad esempio, il generale Jeffrey Amherst, comandante in capo delle truppe britanniche in Nord America, cercò di sterminare gli autoctoni, regalando loro coperte contaminate di vaiolo, inaugurando l’epopea della guerra biologica.
Furono però i vicini statunitensi a creare i maggiori problemi: nel maggio 1873, un gruppo di contrabbandieri, che commerciava whisky in cambio di pellicce, si scontrò a Cypress Hill con guerrieri cree, piedi neri e assinibone, uccidendone 36 e creando pericolose tensioni con l’innocente governo di Ottawa, intervenuto in favore degli aborigeni.
Fu per evitare il ripetersi di simili scontri che, il 23 giugno 1874, il colonnello Patrick Robertson Ros creò le famose Giubbe Rosse. Solo due anni dopo, l’ispettore James Walsh venne chiamato a proteggere i sioux di Ta-tanka I-yotank, (da noi conosciuto come Toro Seduto), rifugiatisi in Canada per evitare rappresaglie dopo la battaglia di Little Big Ho e la sconfitta del Generale Custer (25 giugno 1876).
Queste prese di posizione, hanno creato nei nativi canadesi un clima di relativa fiducia nei confronti del governo di Ottawa, che mai si è riscontrato nei loro fratelli statunitensi.
Ma la creazione di riserve, iniziate nel 1876 con la stipula dell’Indian Act e le sovvenzioni ancora oggi elargite alle comunità locali, se da una parte hanno permesso il mantenimento di tradizioni, istituendo scuole e centri culturali, dall’altra hanno alimentato una sorta di passività nell’animo aborigeno. La disoccupazione tra le comunità indigene, molto più elevata rispetto alle altre etnie, è dovuta non solo a un reclutamento settario nel mondo del lavoro, ma anche a un senso di impotenza ed emarginazione che le generazioni si sono tramandate nel corso dei secoli.
I generosi sussidi di disoccupazione garantiti dallo stato disincentivano i giovani a trovare un lavoro stabile, mentre la crescente mancanza di valori morali, sommata all’asperità del clima e degli elementi naturali, viene spesso colmata dall’alcornol e dalla droga. L’antica e profonda saggezza degli avi rischia in questo modo di scomparire.
Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Futuro… in costruzione

Fratel Domenico ha sfidato i rischi della lunga guerra che ha insanguinato lo Zaire, oggi Repubblica democratica del Congo.
La pace non sembra ancora in vista, ma egli continua, mattone su mattone,
a costruire un futuro di speranza per i congolesi.

Da oltre 20 anni mi trovo nella Repubblica Democratica del Congo, precisamente nella regione nord-orientale dell’Alto Uele. La mia attività si è svolta in tre centri missionari: Neisu, Doruma, Isiro.

PRIMO AMORE
Per 8 anni a Neisu, ebbi la fortuna di lavorare insieme al compianto padre Oscar Goapper, medico missionario della Consolata, portando avanti la costruzione dell’ospedale da lui ideato e gestito. Erano anni felici.
Oltre all’ospedale, con una capacità di 150 posti letto e relativi servizi, ero impegnato nell’edificazione della scuola elementare, della residenza dei missionari e di altre strutture necessarie al funzionamento delle attività religiose e di sviluppo promosse dalla missione.

A PIEDI SCALZI
Nel 1994 ero a Doruma, un grosso villaggio a una decina di chilometri dal confine con il Sudan. Vi rimasi per 5 anni. Oltre all’amministrazione, mi occupavo dell’officina meccanica e della falegnameria. Al tempo stesso mi fu affidata la responsabilità di portare a termine alcune cappelle rimaste da molto tempo incompiute.
Isolata dal resto del paese, Doruma era dimenticata dal governo centrale e le poche strutture pubbliche erano in pessime condizioni. Il superiore della missione decise di affidarmi il compito di provvedere anche alle riparazioni dell’ospedale locale e delle scuole pubbliche.
Intanto era scoppiata la guerra dei Grandi Laghi, che ben presto si estese allo Zaire, provocando la caduta del regime di Mobutu e lo sfascio del suo esercito. Tra la fine del 1996 e l’inizio del ’97, vivemmo momenti drammatici. Inseguiti dagli invasori ugandesi e rwandesi, i soldati di Mobutu si diedero alla fuga, abbandonandosi a razzie e saccheggi dovunque passassero, non esitando a uccidere chiunque opponesse resistenza. Le missioni dell’Alto Uele furono depredate.
Anche a Doruma, fummo costretti ad abbandonare la missione e rifugiarci nella foresta, insieme con le suore congolesi. Per 15 giorni vivemmo sotto un tendone, finché riuscimmo a imbarcarci insieme agli altri missionari della regione su un piccolo aereo, provveduto da varie ambasciate europee, e raggiungemmo Kisangani e poi Kinshasa.
Quando nella regione, ormai sotto il controllo dei soldati ugandesi, sembrò ritornata la calma, affrontammo varie peripezie per raggiungere Isiro; quindi ci preparammo a rientrare nelle rispettive missioni.
Il superiore padre Ariel Hoyos mi accompagnò a Doruma, insieme a padre Honoré Tsiditeta, giovane confratello congolese. Il viaggio fu lungo, ma senza intoppi. Anzi, lungo la strada la gente ci salutava calorosamente, felice per il nostro ritorno. Arrivati nella parrocchia, le suore congolesi e la popolazione si strinsero attorno a noi, mostrandoci tutta la loro gioia e il loro affetto.
Riprendemmo le nostre attività. La gente pensava che la guerra fosse finita. Noi lo speravamo. Ma all’inizio di ottobre del 1998, arrivò a Doruma una colonna di ribelli sudanesi, che circondarono la missione, dicendoci che erano venuti con intenzioni pacifiche. Invece, ci fecero sedere tutti nella veranda, guardati da quattro «angeli custodi», armati di fucile e granate, mentre gli altri svuotarono le camere, uffici e magazzini. Requisirono pure le nostre auto, per portare il bottino oltre il confine.
Il giorno seguente, sfruttando una loro disattenzione, riuscimmo a eludere la loro sorveglianza e, con l’aiuto della popolazione, ci rifugiammo in un lontano villaggio nella foresta. Vi restammo per un mese, alloggiati in una capanna, affrontando i numerosi disagi della situazione, sostenuti dalla generosità dei nostri cristiani.
All’inizio di novembre, dopo aver derubato e saccheggiato tutta la popolazione di Doruma, i ribelli sudanesi si decisero a rientrare nel proprio paese e potemmo tornare alla missione: la trovammo spoglia di tutto. Ma riprendemmo lentamente le nostre attività per quanto fu possibile.
Seguirono tre mesi di grande incertezza. A più riprese, gli allarmi di eventuali scorribande di ribelli ci costrinsero a mettere in un sacco le poche cose personali che ci erano rimaste e fuggire nella foresta.
Uniti ai nostri cristiani celebrammo il natale nella più squisita semplicità e povertà. Approfittando di un momento di calma relativa, un giovane riuscì a portarci i saluti del nostro superiore, percorrendo in bicicletta i 350 km di strada tra Isiro e Doruma.
Nel suo messaggio padre Ariel diceva che sarebbe giunto da noi al più presto e ci avrebbe portato le cose di prima necessità, comprese le lampade a petrolio. Infatti, arrivò ai primi di febbraio del ’99. La sera facemmo un po’ di festa e ci scambiammo le notizie: erano otto mesi che non ci vedevamo.
La notte trascorse nella calma, ma alle prime ore del mattino fummo svegliati da rumori strani, come sbattere di porte. Ci alzammo in fretta per vedere che cosa stesse succedendo; ma nell’aprire la porta ci trovammo le armi puntate dei militari sudanesi. Ci intimarono di lasciare tutto; ci spinsero fuori; ci fecero sedere sui gradini, e cominciarono a rastrellare tutto quello che trovavano, compresi materassi, coperte e biciclette. Al padre Ariel tolsero pure le scarpe e le calze, lasciandolo a piedi nudi.
Tutto ciò durò circa un’ora, quando si udirono degli spari provenienti dal villaggio. Sentendosi circondati dai giovani armati di Doruma, i ribelli sudanesi, una quarantina, cominciarono a sparare e lanciare granate, per coprirsi la ritirata. Ognuno di noi cercò un rifugio per scampare dai tiri incrociati.
La sparatoria durò un’ora buona. Ne aspettammo un’altra, prima di uscire dai nostri nascondigli e radunarci sotto il porticato della nostra casa. Ci ritrovammo con ciò che avevamo addosso. Seduta stante, il superiore, padre Ariel, decise di ritirarci momentaneamente dalla missione, in attesa di tempi migliori.

RICOSTRUIRE LA SPERANZA
Alle 9.30 del 4 febbraio 1999, salimmo sulla Land Rover, che i ribelli non ebbero tempo di rubare, e lasciammo Doruma con tanta tristezza, promettendo ai nostri cristiani in lacrime di tornare presto. Era invece un addio definitivo, poiché il vescovo decise di sostituirci con due preti diocesani locali, affidando ai missionari della Consolata il compito di organizzare una nuova missione a Mbengu, a 30 km dalla sede vescovile di Dungu.
La sera raggiungemmo la missione comboniana di Rungu, dove celebrammo la messa di ringraziamento per lo scampato pericolo. All’indomani riprendemmo il viaggio e giungemmo a Isiro accolti con gioia dai nostri confratelli.
A Isiro, fin dai primi mesi, sono stato coinvolto nell’iniziativa, lanciata dal superiore regionale, per aiutare i giovani e bambini in difficoltà. Per tale scopo, ci fu dato un terreno con una costruzione non terminata, che abbiamo completato e adattato come Centro di alimentazione per bambini debilitati e ammalati, vittime degli effetti della guerra. Il Centro funziona a pieno ritmo. Siamo riusciti a salvare molti bambini, dando anche una formazione igienica e sanitaria alle loro mamme.
Oltre a fornire alimenti, il Centro ha un laboratorio di analisi, in base alle quali possiamo fornire gratuitamente le medicine necessarie per guarire. Abbiamo ottenuto ottimi risultati con centinaia di bambini. Il 90% dei casi hanno riacquistato la completa guarigione. Alcuni di essi, purtroppo, sono così debilitati, che i risultati sono incerti, soprattutto con i sieropositivi. Tuttavia anche per questi facciamo tutto il possibile per salvarli.
Ci occupiamo pure di bambini che non frequentano la scuola, perché sono orfani o di genitori in estrema povertà. Ad essi paghiamo mensilmente la retta scolastica. Una volta la settimana, il Centro accoglie oltre 200 poveri, ai quali viene dato un po’ di riso, sapone, sale e qualche soldo per poter sopravvivere.
Ogni mercoledì visitiamo i carcerati. Sono una sessantina, alloggiati in un capannone in disuso, diviso in due: una parte riservata alle donne, l’altra agli uomini. Dopo una breve preghiera, i miei collaboratori mi aiutano a distribuire cibo e medicine a chi ne ha bisogno.

IL FUTURO E’ GIOVANE
In questi ultimi mesi buona parte del mio tempo è occupato nella costruzione e ristrutturazione della Maison père Oscar, una casa per studenti provenienti dalle nostre missioni, che frequentano le scuole superiori e universitarie di Isiro. È intitolata al nostro indimenticabile missionario medico padre Oscar Goapper.
La Maison sorge accanto alla clinica universitaria, su un terreno donato dal capo tradizionale della missione di Neisu, di recente convertito e battezzato da padre Antonello Rossi. Le sue strutture murarie sono state completate e ospitano già alcuni giovani studenti, anche se la casa non è completamente arredata. Si è provveduto anche a fornire l’ostello di un’ampia biblioteca, che sarà aperta a tutti gli studenti della città, e di un auditorium, intitolato al nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano.
Inoltre, la Maison ospita il dipartimento di Scienze religiose, per la formazione di insegnanti di religione, agenti di pastorale e diaconi permanenti. L’iniziativa vuole essere un contributo per elevare la situazione culturale della gente tra cui siamo chiamati a testimoniare il vangelo.
Speriamo, inoltre, che quest’opera sia un piccolo tassello per costruire la pace, il dono più desiderato dai nostri congolesi.

Domenico Bugatti




Ho visto meraviglie

Dopo aver predicato gli esercizi spirituali
a un gruppo di missionari di Reggio Emilia,
padre Alex, missionario della Consolata,
ne approfitta per visitare e raccontare
le loro attività.

«Sei fortunato ragazzo!» dico a un giovanotto, portatore di handicap e privo dell’uso di braccia e gambe, mentre viene imboccato da una volontaria di Reggio Terzo Mondo (Rtm). «La fortunata sono io» risponde Alessia Antonelli, 33 anni, arrivata in Madagascar per dirigere un progetto di sicurezza alimentare ad Ampasimanjeva. Per il momento sta studiando il malgascio nella «Casa della carità» di Fianarantsoa, 400 km a sud di Antananarivo, capitale del Madagascar.
Sono le sette di mattina. I disabili, puliti e rivestiti da suor Maddalena Razafiarisoa, coadiuvata da tre giovani consorelle malgasce e un paio di novizi, sono quasi tutti a tavola per la colazione: un abbondante piatto di riso e una tazza di latte. Altri ospiti, impossibilitati a nutrirsi da soli, sono imboccati dalle suore e personale locale.
«È il primo miracolo del vangelo dell’amore – spiega don Giovanni Caselli, da 8 anni in Madagascar, responsabile del ramo maschile delle Case della carità -. I malgasci accudiscono i portatori di handicap come fratelli o sorelle; prima venivano relegati in un angolo della casa ed erano gli ultimi a essere serviti».
Le Case della carità furono fondate, insieme a due famiglie religiose, da don Mario Prandi (1919-1989), per accogliere i disabili della diocesi di Reggio Emilia. Ben presto tale istituzione si estese in altre parti d’Italia e del mondo. Nel 1967, 3 suore, 3 preti e 5 religiosi laici delle Case della carità, inviati in nome e con il sostegno della diocesi di Reggio, aprirono la prima missione nel Madagascar. Per affiancare le loro attività, don Prandi dava vita a Reggio Terzo Mondo, organismo non governativo di volontari laici.
«Dopo 38 anni – spiega don Giovanni – in Madagascar ci sono 11 Case della carità, con 30-35 disabili ognuna, un ospedale con oltre 100 letti, un centro di preghiera, due case di formazione per vocazioni maschili e femminili, scuole e dispensari in varie parrocchie. Inoltre, le Case della carità contano 60 suore, 4 preti e 3 fratelli laici di origine malgascia. Una fioritura prodigiosa».

Nei 400 km tra Antananarivo a Fianarantsoa, di meraviglie ne vedo molte altre. La strada si snoda su un altopiano oscillante tra 1.000-1.300 metri di altitudine, correndo lentamente lungo una serie infinita di crinali, vallette e terrazze disseminate di risaie, colline di laterite rosso sangue, da cui il Madagascar deriva il soprannome di «isola rossa».
Ad Antsirabe, una cittadina di 100 mila abitanti a 160 km dalla capitale, gli ospiti della Casa della carità ci accolgono con grida di gioia, anche perché riportiamo a casa suor Lucia, di ritorno dagli esercizi spirituali.
Suor Lucia Ghini fa parte del primo drappello inviato nel Madagascar: a 80 anni suonati, insieme a tre suore malgasce, dirige la Casa della carità con l’entusiasmo che aveva nel 1967.
Incontro July, una ragazza focomelica, che parla benissimo italiano: è stata per alcuni anni ospite di una famiglia di Sassuolo, che le aveva procurato le protesi. Toata a casa, però, non le ha più usate: dice che si sente meglio senza. I suoi moncherini non misurano più di 15 centimetri; eppure, mentre parla, continua a tagliare il radicchio con tutta naturalezza. Le chiedo di darmi il suo nome: prende carta e penna e scrive il proprio nome, insieme all’indirizzo dei benefattori in Italia.
Un’altra missionaria della vecchia guardia la incontro ad Ambositra: è suor Margherita Brandizzo. A 76 anni è ancora superiora della comunità e continua il ritmo di vita come 38 anni fa: sveglia alle 4,55 ogni mattino; levata e pulizia degli ospiti, insieme alle suore malgasce, alle aspiranti e agli aspiranti, per essere pronti alla messa delle 6,30.
Da questo incontro mattutino e da altri appuntamenti giornalieri, dice, le viene la capacità di riconoscere Gesù in persona nei disabili fisici e mentali e servirli con amore.
È soprattutto dal suo esempio che altre 58 ragazze malgasce hanno fatto la sua stessa scelta di consacrarsi al servizio dei fratelli e sorelle, dentro e fuori del paese. Tra italiani e malgasci, sono oltre un centinaio i membri delle congregazioni delle Case della carità e da vari anni hanno aperto altre missioni in Brasile, Rwanda e India.
Non lontano dalla Casa della carità sorge il Foyer, un complesso ambulatoriale diretto dal laico reggiano Luciano Lanzoni, dove vengono curati circa 5 mila pazienti: lebbrosi, tubercolosi, handicappati fisici e mentali.
Come ai tempi di Gesù «gli zoppi camminano, i lebbrosi sono guariti». «Ai disabili fisici sono applicate protesi di vario tipo e tornano a camminare – racconta Luciano -; ai lebbrosi, grazie alle cure tempestive e costanti, viene restituita una nuova vita nella società; i tubercolosi sono trattenuti per tre mesi e rimandati a casa completamente guariti. Per gli handicappati mentali la cosa è più complessa; tuttavia, sono molti quelli che vengono recuperati, perché la loro malattia deriva spesso dall’estrema miseria in cui sono costretti a vivere».
D opo un buon caffè di arabica, coltivata sul posto, riprende il viaggio verso sud-est. La Land Rover è strapiena di scatoloni di medicine. Alcuni devono essere lasciati per far posto a Massimo, laico del Rtm, suor Maria Goretti, suora malgascia, e sottoscritto.
È alla guida don Gino Bolognesi, prete fidei donum della diocesi di Reggio Emilia, da 10 anni responsabile della comunità e delle opere di Ampasimanjeva, aiutante del parroco malgascio nel lavoro pastorale, professore di sacra scrittura nel seminario teologico della capitale.
Dall’altopiano scendiamo gradualmente verso la costa, attraverso una foresta dalla vegetazione spettacolare e primitiva, intramezzata da qualche coltivazione di riso. Dopo un centinaio di chilometri, caracolliamo su colline verdi, punteggiate di palme e bananeti, disseminate di piccoli villaggi con le case in legno e tetti di foglie di palma.
La vegetazione riesplode in prossimità dell’Oceano Indiano. Costeggiamo un fiume popolato da coccodrilli, unici animali selvatici della fauna africana presente nell’isola, insieme ai lemuri, una specie di scimmie tipiche del Madagascar.
Dopo oltre 7 ore di viaggio, entriamo nel complesso ospedaliero di Ampasimanjeva. A cena la comunità, internazionale ed eterogenea, è al completo: don Gino e quattro suore locali, il dottor Martin, primario malgascio, Matteo e Massimo, volontari del Rtm. Ma la mia attenzione è tutta per Giorgio Predieri, 56 anni, dal 1972 missionario ad Ampasimanjeva. È lui il fondatore dell’ospedale, vero fiore all’occhiello della missione reggiana: con oltre 100 posti letto e il servizio giornaliero a circa 200 malati estei, è l’unica struttura sanitaria di una regione grande come l’Emilia.
Oltre all’ospedale, lo stesso missionario ha provveduto a tutte le costruzioni della parrocchia, come scuole, chiese e dispensari; e continua ad amministrare il complesso sanitario, avendo alle sue dipendenze 50 persone locali, tra le quali 4 dottori. Per il suo indefesso lavoro, ha ricevuto il premio dell’organizzazione Cuore Amico di Brescia come «laico dell’anno 2002», una specie di mini Nobel per la missione.
Dopo cena, mentre il dottor Martin lava i piatti e Massimo, Matteo e il sottoscritto li asciughiamo, vedo un biberon messo in acqua bollente per la sterilizzazione. Domando a suor Mariane Rahuntanirina se c’è qualche altro ospite.
«Certo – risponde -. È Patrice Rafanomezantzoa (dono profumato), un gemello abbandonato da sua madre che ha partorito all’ospedale. Purtroppo l’abbandono dei gemelli più deboli è un costume ancora in voga. Grazie a Dio, però, riusciamo a salvarli: li alleviamo e poi cerchiamo chi li adotta».
La suora lo prende in braccio e me lo mostra: sembra più piccolo della mano della religiosa; pesa un chilo e mezzo, ma sta bene e sopravvivrà.
«Dono Profumato», un nome simpatico per esprimere un’altra meraviglia del vangelo, che sconfigge superstizioni e tradizioni culturali che puzzano di morte.

La mattina faccio un giro in ospedale e scopro altre novità. In una zona del complesso vedo varie costruzioni modeste e domando chi vi abita. «Vi sono i malati di tubercolosi – spiega la dottoressa Isabelle Hortense Ranaivo -. Li alloggiamo qui per almeno tre mesi, cioè, per tutto il tempo necessario alla cura completa della malattia. Restando a casa, ogni cura sarebbe inutile, per l’incostanza nel prendere le medicine, oltre al rischio di propagare la malattia».
Mi informo a lungo sulle malattie più frequenti della zona. «La tubercolosi è in aumento, insieme ad altre infezioni respiratorie – spiega la dottoressa -. L’Aids non sembra ancora diffusa; ma non abbiamo mezzi sufficienti per fare tutti gli esami necessari per diagnosticarla. Tuttavia, la malattia più diffusa è la malaria. Per ora colpisce in forme curabili, ma per i bambini è spesso mortale e produce molta gente anemica. Molto frequente è pure la drepanocitosi, una malattia genetica per cui si nasce con i globuli rossi a forma di banana anziché rotondi. Il morbo lascia poche speranze di vita; chi sopravvive la trasmette ai propri figli.
Verminosi e infezioni tifoidee, soprattutto, sono all’ordine del giorno per mancanza di igiene e per l’acqua altamente inquinata. Mancando i servizi igienici, le piogge convogliano tutto nei fiumi e risaie, da cui viene attinta l’acqua per usi domestici. I bambini sono le vittime più colpite da tale situazione di miseria sociale e ambientale».
«L’aborto è praticato?» domando timidamente. «Ci sono alcuni casi; ma le gravidanze indesiderate sono rare: il bambino è sempre ritenuto un dono di Dio».
A ccanto alla Casa della carità sorge la sede dei volontari di Reggio Terzo Mondo. Massimo Ambrosini, trentenne, da un paio d’anni segue un progetto di sicurezza alimentare, che prevede la costruzione di 8 dighe in terra battuta per la raccolta e distribuzione dell’acqua per la coltivazione del riso.
La prima diga (50 metri di lunghezza, 15 metri di base e 3,5 di altezza) è già stata completata nel giro di tre mesi, impiegando una ventina di operai, muniti di pale e carriole, senza alcun mezzo meccanico. L’opera è completata da due pozzi scavati a mano.
Un altro laico del Rtm è il trentunenne Matteo Caprotti, che da tre anni segue un progetto per il contenimento della filariosi (elefantiasi). «Questa malattia – spiega – è causata dall’elevato numero di punture di zanzare, fino a depositare nel sangue una tale quantità di microfilaria da invadere e ingorgare il sistema linfatico, facendo ingrossare alcune membra, le gambe soprattutto. Si calcola che il 50% della popolazione della zona ne sia affetto, anche se non tutti ne mostrano le conseguenze più appariscenti. Il nostro progetto segue circa 170 mila persone».
Generalmente l’impegno di questi volontari dura tre anni; eppure si rivela preziosissimo per sostenere ed estendere l’attività dei missionari e missionarie delle Case della carità, che alla missione dedicano tutta la vita. Anch’essi compiono meraviglie di vario genere.
Simona Puttini, per esempio, cornordina un progetto di aiuti alimentari (World Food Programme). Buona parte di tali aiuti provvedono il pranzo a migliaia di alunni delle scuole nella periferia della capitale malgascia. Oltre al settore scolastico, il programma raggiunge bambini denutriti, portatori di handicap, carcerati, malati di tubercolosi in 45 centri nella capitale e nelle zone rurali.
Da due anni Andrea Guerrini ed Elisa Alberti gestiscono un programma di sviluppo dell’artigianato. Oltre a promuovere corsi di formazione per gli artisti e procurare loro strumenti e materiali per sviluppare i loro talenti, li aiutano nella gestione e commercializzazione dei prodotti. È nata così la Fiavotana, associazione di 181 artisti, divisi in 14 gruppi, che affrontano con disinvoltura le sfide del mercato.
Goffredo Sacchetti cornordina un progetto di promozione agricola e artigianato a 220 chilometri a ovest di Antananarivo. Controparte locale del progetto sono i gesuiti, che hanno un Centro di formazione agricola e scuola professionale.
«Il futuro del Madagascar è all’ovest – afferma il volontario -. Qui il terreno non è ancora sfruttato ed è ricco di acqua. Noi formiamo giovani all’agricoltura e al rispetto dell’ambiente; insegniamo nuove tecniche di allevamento, a gestire i loro prodotti e diamo gli strumenti agricoli per cominciare a sviluppare il terreno messo a disposizione dallo stato. Dopo 25 anni di lavoro sulla stessa terra, i coltivatori ne diventano proprietari».
Il progetto dura tre anni, ma Goffredo, 46 anni, dal 1989 con Rtm, non vuole sentire parlare di ritorno in Italia. «Anzi – conclude -, vorrei fare appello ai giovani italiani, perché vengano a dare una mano allo sviluppo di questo paese; è una vera fortuna: si riceve molto più di quanto si possa dare».

Alex Moreschi




LETTERE – “Altri 4 anni di guerre e terrorismo?” Le reazioni

Riguardava la rielezione di George W. Bush
a presidente degli Stati Uniti.
Nel pubblicare, lo scorso febbraio,
alcune lettere sull’argomento, abbiamo titolato:
Uno «0» e quattro «10»,
per indicare le bocciature e le promozioni.
Ora c’è ancora uno «0», mentre i «10» sono cinque.

Leggo sempre con piacere la rivista Missioni Consolata, corredata da foto meravigliose. Sul numero 12/2004, tuttavia, Paolo Moiola ha pubblicato un articolo circa la rielezione di George W. Bush alla Casa Bianca che non condivido affatto.
È una noiosa e settaria «collezione» di interventi di giornalisti e opinionisti che sparano, come di consueto, le frecce che hanno nella loro faretra (sempre uguali e sempre quelle!).
La vostra prestigiosa rivista cerchi di non ospitare tendenziose opinioni su fatti di rilevanza mondiale, essendo un mezzo di comunicazione rivolto alle «famiglie».
don Achille Lumetti
Sassuolo (MO)

Leggo con estremo interesse l’articolo di Missioni Consolata, dicembre 2004, passatami da un amico. Non è facile trovare sulla stampa, in tempi di pensiero unico, articoli così completi e circostanziati. Mi sembra opportuno ed «etico» che una rivista missionaria tratti problemi che toccano tutti. Personalmente la penso alla don Milani «I care» («mi interessa», «vi partecipo»…).
L’etica si dovrebbe incontrare con la politica! Sappiamo invece che si incontra solo con l’olio (petrolio). La chiesa è fedele quando «dice» la Parola ricevuta, senza riguardi ai potenti. È giusto valutare atti e parole. Denunciare! Tacere significa rinunciare alla funzione profetica. Oggi occorre schierarsi. Schierarsi forse può essere il primo gradino della giustizia.
Gianluigi Villa
(e-mail)

Ho letto con interesse l’articolo «Altri quattro anni di guerre e terrorismo?» e vi ho trovato molte informazioni che non conoscevo, come la storia delle tre suore detenute o la citazione di Ettore Masina sulle guerre dei poveri.
Vi auguro di poter continuare il vostro lavoro con lo stesso coraggio e la stessa determinazione.
Marco Colucci
Genova

Un amico mi ha segnalato l’articolo «Altri quattro anni di guerre e terrorismo?». Non solo condivido tutto quello che vi è scritto, ma sento il dovere di ringraziarvi per aver avuto il coraggio di pubblicarlo. Ho sempre apprezzato la rivista Nigrizia, mentre consideravo con diffidenza le altre riviste missionarie, ritenendole allineate con il Vaticano e con quelle posizioni della chiesa, o delle chiese, che, pur di ottenere qualche aiuto o qualche privilegio, non osano criticare coloro che sono al potere.
D’ora in poi seguirò con maggiore attenzione la vostra rivista.
Carlo Ferraris,
responsabile del Segretariato
Attività Ecumeniche – Genova

Ringrazio Paolo Moiola dell’articolo sugli USA e voi della redazione, che non vi siete trincerati dietro la solita prudenza. Il mio vivere m’insegna che c’è un tempo per tacere e uno per parlare. Questo è il momento di gridare con forza contro l’ipocrisia di potenti «messia», che nel nome di Dio esportano violenza e morte.
È il momento in cui anche noi, che ci riteniamo cristiani, prendiamo posizione: o politiche inteazionali di giustizia, solidarietà, collaborazione e pace (quindi disarmo, rispetto di ogni essere umano e dell’ambiente), oppure politiche imperiali di dominio, sfruttamento, violenza e guerra (altri recinti e nuove mura per difendere ciò che da secoli stiamo «rubando»).
È il momento di prendere sul serio il «servire Dio» e l’umanità, che egli ama, o «servire mammona».
Auguri di buon lavoro, anche se Vi arriveranno… tirate d’orecchie!
Giovanni Russotto
Genova

Su Missioni Consolata, dicembre 2004, leggo un lucido articolo di Paolo Moiola: «Altri 4 anni di guerre e terrorismo?». È eloquente e ineccepibile sull’opera «pacificatrice» degli Usa e del loro comandante in campo.
Non si è, però, detto che gli Usa, primi al mondo, destinano gran parte del loro Prodotto interno lordo alla foitura di armi e neppure si è detto che, in Iraq (soltanto in Iraq?), terroristi sono solo gli Usa. Infatti terrorista è chi aggredisce uno che non ha arrecato offesa ad altri e non può difendersi, proprio come è avvenuto in Iraq.
Nella babele del linguaggio, i patrioti iracheni sono stati presentati come «guerriglieri», «ribelli» e, preferibilmente, «terroristi»; altrimenti i media (in primis i nostrani Libero, Il Gioale, Il Foglio ecc.) che cosa ci stanno a fare?
In Iraq i «fedelissimi del deposto regime» non devono essere «2.000», come scrivono i servi dell’informazione; altrimenti non si spiega come «tutto l’Iraq è in fiamme». Solo a Falluja si è parlato di «1.600 vittime ribelli». Ormai la propaganda bellicista non regge neppure alla più elementare logica euclidea…
Le (sagge) parole di Kofi Annan e Boutros Ghali rappresentano il sigillo istituzionale e democratico ad un vero e proprio sterminio. Nessuno che parli mai delle vittime civili. Eppure è questo un mondo dove le chiacchiere abbondano, oltre alle menzogne. Tutti ricordiamo all’Onu (telecronaca in tempo reale in molti paesi e continenti) la «colomba» americana Powell con la manipolata provetta in mano? Sì, chiarissimo.
Tutto decorre dall’«11 settembre 2001», supportato da un racconto molto fantasioso ad uso e consumo di Usa e Israele. Ci si è pure inventati un aereo sul Pentagono, che nessuno ha mai «visto»; di Al Qaeda si è saputo «tutto dopo» e «nulla prima» e non si è approfondito niente. Chissà perché…
Al Zarkawi è sempre imprendibile e nessuno lo conosce; Bin Laden, che da anni non telefona (neppure ai suoi numerosissimi figli), è sempre ammalato di diabete, ma, al contempo, dirige il «terrore nel mondo». A me pare che l’unico che rompa gli equilibri nel mondo sia il rieletto comandante in campo, del quale qualcuno ha scritto: «Ha gli occhi troppo vicini per essere intelligente».
O Bush o Kerry, le multinazionali non fanno sconti. Dei 500 mila bimbi iracheni la responsabilità è dei «liberali» Clinton e Albright, tanto per capirci. Ricordo un intelligente Vittorio Sgarbi che ne mostrava gli effetti fotografici su Canale 5, anche se tutto si è limitato ad una sola «sterile» trasmissione… Beh, meglio non disturbare il manovratore!
Berlusconi è al passo del padrone atlantico, e la sinistra (che aggredì la Serbia per apparire «credibile» al gendarme planetario)… anche. Salvo solo Missioni Consolata e poco altro.
Ma, davvero, si può credere che gli Stati Uniti siano venuti in Italia per «liberarci» e basta? È ovvio che non sia stato così; infatti è normale che uno stato impieghi uomini e mezzi a decine di migliaia anche per il proprio tornaconto.
Il flagello umanitario in America Latina è da secoli sotto gli occhi di tutti: basta chiederlo a chi si reca sul posto. Come chi va in Palestina si accorge della quotidiana repressione di Israele verso i legittimi proprietari di quella terra, mentre la stampa svolge un’operazione molto più «filtrata»: tutto poggia (e viene «compensato») su «Auschwitz e dintorni», dove «gli ebrei sono le vittime per eccellenza».
Ci sarà mai un tempo per una (macabra) contabilità delle vittime dei pellerossa o dei regimi latinoamericani al soldo delle lobbies economiche? Per chi crede in maniera irriducibile nel valore della vita e/o si autorninveste in maniera preventiva del ruolo di latore dei valori democratici, ciò non dovrebbe essere che di conforto, anzi auspicato.
Ricordo che Lozada, predecessore dell’attuale presidente boliviano Carlos Mesa (su Missioni Consolata, dicembre 2004, vi è una bella intervista di Paolo Moiola), è stato prima cacciato dal suo popolo, dopo averlo represso, e in seguito ospitato e presentato negli Usa come «difensore della democrazia». Uno schema consolidatissimo.
Se Saddam Hussein era un dittatore, l’egiziano Moubarak, amico dell’Occidente, da chi è stato eletto e quando? Delle famose «fosse comuni» di Saddam, anticipate da una marea di chiacchiere, non si è vista una fotografia… come del resto con Milosevic, il cui processo è «opportunamente silenziato» al patetico Tribunale penale internazionale dell’Aja.
È reato affermare di simpatizzare con la resistenza irachena? Forse sì.
Il male non è dato dal balbettio minimalista dei nostri politicanti, bensì sta nei nostri modelli di vita: se comperassimo meno prodotti inutili, toglieremmo in maniera pacifica e radicale a molte sovrastrutture industriali ed economiche la loro ragione di esistere, sfruttare e… uccidere (e intaseremmo meno le aule dei tribunali nostrani).
Tutte le idee per definizione sono «belle», mentre il male sta esclusivamente nei nostri modelli di vita, dove è sempre bene tenere un occhio attento alla realtà, perché c’è chi con cinismo, perfidia e «sapiente» cosmesi mediatica la sovverte.
Max Cole
Brescia

L’ultima lettera è diversa dalle precedenti, e non solo per la lunghezza (l’abbiamo in parte ridimensionata, sforzandoci di non travisare i contenuti). Il lettore mette molta carne al fuoco; talora è allusivo, a scapito della comprensione.
Non sempre siamo d’accordo con lui: per esempio, non condividiamo che «in Iraq… terroristi sono solo gli Usa»…
Diverso è pure l’intervento di don Achille, che ci raccomanda di «non ospitare tendenziose opinioni su fatti di rilevanza mondiale, essendo (la rivista) un mezzo di comunicazione rivolto alle “famiglie”». Raccomandazione sacrosanta che dovrebbe valere per tutti, magari dopo aver stabilito cosa si intenda per «tendenziose opinioni».
Risponde Paolo Moiola – Nell’articolo contestato da don Lumetti, tra le tante autorevoli opinioni ci sono anche quelle di: don Paolo Farinella, don Raffaele Garofalo, don Gianfranco Formenton, don Aldo Antonelli, padre Roy Bourgeois.
Le famiglie italiane dovrebbero accontentarsi di sentire Bruno Vespa, Giuliano Ferrara, Emilio Fede o Mara Venier?

Autori vari




LETTERE – “Disagio giovanile, disagio del mondo

Gentile redazione,
mi congratulo per il dossier di gennaio 2005 «Disagio giovanile, disagio del mondo», che ho letto tutto d’un fiato. È assai interessante e centra in pieno il problema giovanile e della scuola.
Sono un’insegnante ormai disgustata dell’attuale andamento che la riforma Moratti sta dando. La scuola sta affondando con le implicazioni sui giovani che ne conseguono e che voi avete così bene descritto.
L’idea del dossier è stata non solo buona, ma ottima. Spesso è più facile trattare problemi distanti dalla nostra realtà di quelli che quotidianamente ci toccano da vicino. Il pianeta giovani rappresenta una nuova terra di missione, per quanto le povertà e/o i problemi di cui soffre attualmente siano diversi da quelli più concreti dei paesi del cosiddetto terzo mondo.
Voi li avete messi a nudo assai bene. Spero che il dossier aiuti a riflettere sull’importanza di investire sul presente e futuro dei giovani (cosa che si sta facendo poco e male), oppure si offrano immagini sulle quali investire per impostare il proprio stile di vita, le proprie priorità, i valori in cui credere.
Ma un mondo che sta perdendo l’etica per strada, giustificando tutto come accettabile o possibile, in cui il concetto di bene si mescola con quello di male (anch’esso inteso come esperienza), che sta creando falsi miti, può portare i giovani a credere ancora in qualcosa?
Silvana Vergnano
Torino

All’osservazione «spesso è più facile trattare problemi distanti dalla nostra realtà…» rispondiamo che bisogna saper guardare sia lontano sia vicino. La missione è, nello stesso tempo, e «qua» e «là».
Di fronte ad un quesito finale, così significativo oltre che angosciante, come in altre occasioni coinvolgiamo i nostri lettori… confidando però nello Spirito Santo. Questo «gigante invisibile» sa illuminare molti: per esempio, i sottostanti ragazzi di Cava de’ Tirreni

Silvana Vergnano