Ho visto meraviglie

Dopo aver predicato gli esercizi spirituali
a un gruppo di missionari di Reggio Emilia,
padre Alex, missionario della Consolata,
ne approfitta per visitare e raccontare
le loro attività.

«Sei fortunato ragazzo!» dico a un giovanotto, portatore di handicap e privo dell’uso di braccia e gambe, mentre viene imboccato da una volontaria di Reggio Terzo Mondo (Rtm). «La fortunata sono io» risponde Alessia Antonelli, 33 anni, arrivata in Madagascar per dirigere un progetto di sicurezza alimentare ad Ampasimanjeva. Per il momento sta studiando il malgascio nella «Casa della carità» di Fianarantsoa, 400 km a sud di Antananarivo, capitale del Madagascar.
Sono le sette di mattina. I disabili, puliti e rivestiti da suor Maddalena Razafiarisoa, coadiuvata da tre giovani consorelle malgasce e un paio di novizi, sono quasi tutti a tavola per la colazione: un abbondante piatto di riso e una tazza di latte. Altri ospiti, impossibilitati a nutrirsi da soli, sono imboccati dalle suore e personale locale.
«È il primo miracolo del vangelo dell’amore – spiega don Giovanni Caselli, da 8 anni in Madagascar, responsabile del ramo maschile delle Case della carità -. I malgasci accudiscono i portatori di handicap come fratelli o sorelle; prima venivano relegati in un angolo della casa ed erano gli ultimi a essere serviti».
Le Case della carità furono fondate, insieme a due famiglie religiose, da don Mario Prandi (1919-1989), per accogliere i disabili della diocesi di Reggio Emilia. Ben presto tale istituzione si estese in altre parti d’Italia e del mondo. Nel 1967, 3 suore, 3 preti e 5 religiosi laici delle Case della carità, inviati in nome e con il sostegno della diocesi di Reggio, aprirono la prima missione nel Madagascar. Per affiancare le loro attività, don Prandi dava vita a Reggio Terzo Mondo, organismo non governativo di volontari laici.
«Dopo 38 anni – spiega don Giovanni – in Madagascar ci sono 11 Case della carità, con 30-35 disabili ognuna, un ospedale con oltre 100 letti, un centro di preghiera, due case di formazione per vocazioni maschili e femminili, scuole e dispensari in varie parrocchie. Inoltre, le Case della carità contano 60 suore, 4 preti e 3 fratelli laici di origine malgascia. Una fioritura prodigiosa».

Nei 400 km tra Antananarivo a Fianarantsoa, di meraviglie ne vedo molte altre. La strada si snoda su un altopiano oscillante tra 1.000-1.300 metri di altitudine, correndo lentamente lungo una serie infinita di crinali, vallette e terrazze disseminate di risaie, colline di laterite rosso sangue, da cui il Madagascar deriva il soprannome di «isola rossa».
Ad Antsirabe, una cittadina di 100 mila abitanti a 160 km dalla capitale, gli ospiti della Casa della carità ci accolgono con grida di gioia, anche perché riportiamo a casa suor Lucia, di ritorno dagli esercizi spirituali.
Suor Lucia Ghini fa parte del primo drappello inviato nel Madagascar: a 80 anni suonati, insieme a tre suore malgasce, dirige la Casa della carità con l’entusiasmo che aveva nel 1967.
Incontro July, una ragazza focomelica, che parla benissimo italiano: è stata per alcuni anni ospite di una famiglia di Sassuolo, che le aveva procurato le protesi. Toata a casa, però, non le ha più usate: dice che si sente meglio senza. I suoi moncherini non misurano più di 15 centimetri; eppure, mentre parla, continua a tagliare il radicchio con tutta naturalezza. Le chiedo di darmi il suo nome: prende carta e penna e scrive il proprio nome, insieme all’indirizzo dei benefattori in Italia.
Un’altra missionaria della vecchia guardia la incontro ad Ambositra: è suor Margherita Brandizzo. A 76 anni è ancora superiora della comunità e continua il ritmo di vita come 38 anni fa: sveglia alle 4,55 ogni mattino; levata e pulizia degli ospiti, insieme alle suore malgasce, alle aspiranti e agli aspiranti, per essere pronti alla messa delle 6,30.
Da questo incontro mattutino e da altri appuntamenti giornalieri, dice, le viene la capacità di riconoscere Gesù in persona nei disabili fisici e mentali e servirli con amore.
È soprattutto dal suo esempio che altre 58 ragazze malgasce hanno fatto la sua stessa scelta di consacrarsi al servizio dei fratelli e sorelle, dentro e fuori del paese. Tra italiani e malgasci, sono oltre un centinaio i membri delle congregazioni delle Case della carità e da vari anni hanno aperto altre missioni in Brasile, Rwanda e India.
Non lontano dalla Casa della carità sorge il Foyer, un complesso ambulatoriale diretto dal laico reggiano Luciano Lanzoni, dove vengono curati circa 5 mila pazienti: lebbrosi, tubercolosi, handicappati fisici e mentali.
Come ai tempi di Gesù «gli zoppi camminano, i lebbrosi sono guariti». «Ai disabili fisici sono applicate protesi di vario tipo e tornano a camminare – racconta Luciano -; ai lebbrosi, grazie alle cure tempestive e costanti, viene restituita una nuova vita nella società; i tubercolosi sono trattenuti per tre mesi e rimandati a casa completamente guariti. Per gli handicappati mentali la cosa è più complessa; tuttavia, sono molti quelli che vengono recuperati, perché la loro malattia deriva spesso dall’estrema miseria in cui sono costretti a vivere».
D opo un buon caffè di arabica, coltivata sul posto, riprende il viaggio verso sud-est. La Land Rover è strapiena di scatoloni di medicine. Alcuni devono essere lasciati per far posto a Massimo, laico del Rtm, suor Maria Goretti, suora malgascia, e sottoscritto.
È alla guida don Gino Bolognesi, prete fidei donum della diocesi di Reggio Emilia, da 10 anni responsabile della comunità e delle opere di Ampasimanjeva, aiutante del parroco malgascio nel lavoro pastorale, professore di sacra scrittura nel seminario teologico della capitale.
Dall’altopiano scendiamo gradualmente verso la costa, attraverso una foresta dalla vegetazione spettacolare e primitiva, intramezzata da qualche coltivazione di riso. Dopo un centinaio di chilometri, caracolliamo su colline verdi, punteggiate di palme e bananeti, disseminate di piccoli villaggi con le case in legno e tetti di foglie di palma.
La vegetazione riesplode in prossimità dell’Oceano Indiano. Costeggiamo un fiume popolato da coccodrilli, unici animali selvatici della fauna africana presente nell’isola, insieme ai lemuri, una specie di scimmie tipiche del Madagascar.
Dopo oltre 7 ore di viaggio, entriamo nel complesso ospedaliero di Ampasimanjeva. A cena la comunità, internazionale ed eterogenea, è al completo: don Gino e quattro suore locali, il dottor Martin, primario malgascio, Matteo e Massimo, volontari del Rtm. Ma la mia attenzione è tutta per Giorgio Predieri, 56 anni, dal 1972 missionario ad Ampasimanjeva. È lui il fondatore dell’ospedale, vero fiore all’occhiello della missione reggiana: con oltre 100 posti letto e il servizio giornaliero a circa 200 malati estei, è l’unica struttura sanitaria di una regione grande come l’Emilia.
Oltre all’ospedale, lo stesso missionario ha provveduto a tutte le costruzioni della parrocchia, come scuole, chiese e dispensari; e continua ad amministrare il complesso sanitario, avendo alle sue dipendenze 50 persone locali, tra le quali 4 dottori. Per il suo indefesso lavoro, ha ricevuto il premio dell’organizzazione Cuore Amico di Brescia come «laico dell’anno 2002», una specie di mini Nobel per la missione.
Dopo cena, mentre il dottor Martin lava i piatti e Massimo, Matteo e il sottoscritto li asciughiamo, vedo un biberon messo in acqua bollente per la sterilizzazione. Domando a suor Mariane Rahuntanirina se c’è qualche altro ospite.
«Certo – risponde -. È Patrice Rafanomezantzoa (dono profumato), un gemello abbandonato da sua madre che ha partorito all’ospedale. Purtroppo l’abbandono dei gemelli più deboli è un costume ancora in voga. Grazie a Dio, però, riusciamo a salvarli: li alleviamo e poi cerchiamo chi li adotta».
La suora lo prende in braccio e me lo mostra: sembra più piccolo della mano della religiosa; pesa un chilo e mezzo, ma sta bene e sopravvivrà.
«Dono Profumato», un nome simpatico per esprimere un’altra meraviglia del vangelo, che sconfigge superstizioni e tradizioni culturali che puzzano di morte.

La mattina faccio un giro in ospedale e scopro altre novità. In una zona del complesso vedo varie costruzioni modeste e domando chi vi abita. «Vi sono i malati di tubercolosi – spiega la dottoressa Isabelle Hortense Ranaivo -. Li alloggiamo qui per almeno tre mesi, cioè, per tutto il tempo necessario alla cura completa della malattia. Restando a casa, ogni cura sarebbe inutile, per l’incostanza nel prendere le medicine, oltre al rischio di propagare la malattia».
Mi informo a lungo sulle malattie più frequenti della zona. «La tubercolosi è in aumento, insieme ad altre infezioni respiratorie – spiega la dottoressa -. L’Aids non sembra ancora diffusa; ma non abbiamo mezzi sufficienti per fare tutti gli esami necessari per diagnosticarla. Tuttavia, la malattia più diffusa è la malaria. Per ora colpisce in forme curabili, ma per i bambini è spesso mortale e produce molta gente anemica. Molto frequente è pure la drepanocitosi, una malattia genetica per cui si nasce con i globuli rossi a forma di banana anziché rotondi. Il morbo lascia poche speranze di vita; chi sopravvive la trasmette ai propri figli.
Verminosi e infezioni tifoidee, soprattutto, sono all’ordine del giorno per mancanza di igiene e per l’acqua altamente inquinata. Mancando i servizi igienici, le piogge convogliano tutto nei fiumi e risaie, da cui viene attinta l’acqua per usi domestici. I bambini sono le vittime più colpite da tale situazione di miseria sociale e ambientale».
«L’aborto è praticato?» domando timidamente. «Ci sono alcuni casi; ma le gravidanze indesiderate sono rare: il bambino è sempre ritenuto un dono di Dio».
A ccanto alla Casa della carità sorge la sede dei volontari di Reggio Terzo Mondo. Massimo Ambrosini, trentenne, da un paio d’anni segue un progetto di sicurezza alimentare, che prevede la costruzione di 8 dighe in terra battuta per la raccolta e distribuzione dell’acqua per la coltivazione del riso.
La prima diga (50 metri di lunghezza, 15 metri di base e 3,5 di altezza) è già stata completata nel giro di tre mesi, impiegando una ventina di operai, muniti di pale e carriole, senza alcun mezzo meccanico. L’opera è completata da due pozzi scavati a mano.
Un altro laico del Rtm è il trentunenne Matteo Caprotti, che da tre anni segue un progetto per il contenimento della filariosi (elefantiasi). «Questa malattia – spiega – è causata dall’elevato numero di punture di zanzare, fino a depositare nel sangue una tale quantità di microfilaria da invadere e ingorgare il sistema linfatico, facendo ingrossare alcune membra, le gambe soprattutto. Si calcola che il 50% della popolazione della zona ne sia affetto, anche se non tutti ne mostrano le conseguenze più appariscenti. Il nostro progetto segue circa 170 mila persone».
Generalmente l’impegno di questi volontari dura tre anni; eppure si rivela preziosissimo per sostenere ed estendere l’attività dei missionari e missionarie delle Case della carità, che alla missione dedicano tutta la vita. Anch’essi compiono meraviglie di vario genere.
Simona Puttini, per esempio, cornordina un progetto di aiuti alimentari (World Food Programme). Buona parte di tali aiuti provvedono il pranzo a migliaia di alunni delle scuole nella periferia della capitale malgascia. Oltre al settore scolastico, il programma raggiunge bambini denutriti, portatori di handicap, carcerati, malati di tubercolosi in 45 centri nella capitale e nelle zone rurali.
Da due anni Andrea Guerrini ed Elisa Alberti gestiscono un programma di sviluppo dell’artigianato. Oltre a promuovere corsi di formazione per gli artisti e procurare loro strumenti e materiali per sviluppare i loro talenti, li aiutano nella gestione e commercializzazione dei prodotti. È nata così la Fiavotana, associazione di 181 artisti, divisi in 14 gruppi, che affrontano con disinvoltura le sfide del mercato.
Goffredo Sacchetti cornordina un progetto di promozione agricola e artigianato a 220 chilometri a ovest di Antananarivo. Controparte locale del progetto sono i gesuiti, che hanno un Centro di formazione agricola e scuola professionale.
«Il futuro del Madagascar è all’ovest – afferma il volontario -. Qui il terreno non è ancora sfruttato ed è ricco di acqua. Noi formiamo giovani all’agricoltura e al rispetto dell’ambiente; insegniamo nuove tecniche di allevamento, a gestire i loro prodotti e diamo gli strumenti agricoli per cominciare a sviluppare il terreno messo a disposizione dallo stato. Dopo 25 anni di lavoro sulla stessa terra, i coltivatori ne diventano proprietari».
Il progetto dura tre anni, ma Goffredo, 46 anni, dal 1989 con Rtm, non vuole sentire parlare di ritorno in Italia. «Anzi – conclude -, vorrei fare appello ai giovani italiani, perché vengano a dare una mano allo sviluppo di questo paese; è una vera fortuna: si riceve molto più di quanto si possa dare».

Alex Moreschi

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