Fratel Domenico ha sfidato i rischi della lunga guerra che ha insanguinato lo Zaire, oggi Repubblica democratica del Congo.
La pace non sembra ancora in vista, ma egli continua, mattone su mattone,
a costruire un futuro di speranza per i congolesi.
Da oltre 20 anni mi trovo nella Repubblica Democratica del Congo, precisamente nella regione nord-orientale dell’Alto Uele. La mia attività si è svolta in tre centri missionari: Neisu, Doruma, Isiro.
PRIMO AMORE
Per 8 anni a Neisu, ebbi la fortuna di lavorare insieme al compianto padre Oscar Goapper, medico missionario della Consolata, portando avanti la costruzione dell’ospedale da lui ideato e gestito. Erano anni felici.
Oltre all’ospedale, con una capacità di 150 posti letto e relativi servizi, ero impegnato nell’edificazione della scuola elementare, della residenza dei missionari e di altre strutture necessarie al funzionamento delle attività religiose e di sviluppo promosse dalla missione.
A PIEDI SCALZI
Nel 1994 ero a Doruma, un grosso villaggio a una decina di chilometri dal confine con il Sudan. Vi rimasi per 5 anni. Oltre all’amministrazione, mi occupavo dell’officina meccanica e della falegnameria. Al tempo stesso mi fu affidata la responsabilità di portare a termine alcune cappelle rimaste da molto tempo incompiute.
Isolata dal resto del paese, Doruma era dimenticata dal governo centrale e le poche strutture pubbliche erano in pessime condizioni. Il superiore della missione decise di affidarmi il compito di provvedere anche alle riparazioni dell’ospedale locale e delle scuole pubbliche.
Intanto era scoppiata la guerra dei Grandi Laghi, che ben presto si estese allo Zaire, provocando la caduta del regime di Mobutu e lo sfascio del suo esercito. Tra la fine del 1996 e l’inizio del ’97, vivemmo momenti drammatici. Inseguiti dagli invasori ugandesi e rwandesi, i soldati di Mobutu si diedero alla fuga, abbandonandosi a razzie e saccheggi dovunque passassero, non esitando a uccidere chiunque opponesse resistenza. Le missioni dell’Alto Uele furono depredate.
Anche a Doruma, fummo costretti ad abbandonare la missione e rifugiarci nella foresta, insieme con le suore congolesi. Per 15 giorni vivemmo sotto un tendone, finché riuscimmo a imbarcarci insieme agli altri missionari della regione su un piccolo aereo, provveduto da varie ambasciate europee, e raggiungemmo Kisangani e poi Kinshasa.
Quando nella regione, ormai sotto il controllo dei soldati ugandesi, sembrò ritornata la calma, affrontammo varie peripezie per raggiungere Isiro; quindi ci preparammo a rientrare nelle rispettive missioni.
Il superiore padre Ariel Hoyos mi accompagnò a Doruma, insieme a padre Honoré Tsiditeta, giovane confratello congolese. Il viaggio fu lungo, ma senza intoppi. Anzi, lungo la strada la gente ci salutava calorosamente, felice per il nostro ritorno. Arrivati nella parrocchia, le suore congolesi e la popolazione si strinsero attorno a noi, mostrandoci tutta la loro gioia e il loro affetto.
Riprendemmo le nostre attività. La gente pensava che la guerra fosse finita. Noi lo speravamo. Ma all’inizio di ottobre del 1998, arrivò a Doruma una colonna di ribelli sudanesi, che circondarono la missione, dicendoci che erano venuti con intenzioni pacifiche. Invece, ci fecero sedere tutti nella veranda, guardati da quattro «angeli custodi», armati di fucile e granate, mentre gli altri svuotarono le camere, uffici e magazzini. Requisirono pure le nostre auto, per portare il bottino oltre il confine.
Il giorno seguente, sfruttando una loro disattenzione, riuscimmo a eludere la loro sorveglianza e, con l’aiuto della popolazione, ci rifugiammo in un lontano villaggio nella foresta. Vi restammo per un mese, alloggiati in una capanna, affrontando i numerosi disagi della situazione, sostenuti dalla generosità dei nostri cristiani.
All’inizio di novembre, dopo aver derubato e saccheggiato tutta la popolazione di Doruma, i ribelli sudanesi si decisero a rientrare nel proprio paese e potemmo tornare alla missione: la trovammo spoglia di tutto. Ma riprendemmo lentamente le nostre attività per quanto fu possibile.
Seguirono tre mesi di grande incertezza. A più riprese, gli allarmi di eventuali scorribande di ribelli ci costrinsero a mettere in un sacco le poche cose personali che ci erano rimaste e fuggire nella foresta.
Uniti ai nostri cristiani celebrammo il natale nella più squisita semplicità e povertà. Approfittando di un momento di calma relativa, un giovane riuscì a portarci i saluti del nostro superiore, percorrendo in bicicletta i 350 km di strada tra Isiro e Doruma.
Nel suo messaggio padre Ariel diceva che sarebbe giunto da noi al più presto e ci avrebbe portato le cose di prima necessità, comprese le lampade a petrolio. Infatti, arrivò ai primi di febbraio del ’99. La sera facemmo un po’ di festa e ci scambiammo le notizie: erano otto mesi che non ci vedevamo.
La notte trascorse nella calma, ma alle prime ore del mattino fummo svegliati da rumori strani, come sbattere di porte. Ci alzammo in fretta per vedere che cosa stesse succedendo; ma nell’aprire la porta ci trovammo le armi puntate dei militari sudanesi. Ci intimarono di lasciare tutto; ci spinsero fuori; ci fecero sedere sui gradini, e cominciarono a rastrellare tutto quello che trovavano, compresi materassi, coperte e biciclette. Al padre Ariel tolsero pure le scarpe e le calze, lasciandolo a piedi nudi.
Tutto ciò durò circa un’ora, quando si udirono degli spari provenienti dal villaggio. Sentendosi circondati dai giovani armati di Doruma, i ribelli sudanesi, una quarantina, cominciarono a sparare e lanciare granate, per coprirsi la ritirata. Ognuno di noi cercò un rifugio per scampare dai tiri incrociati.
La sparatoria durò un’ora buona. Ne aspettammo un’altra, prima di uscire dai nostri nascondigli e radunarci sotto il porticato della nostra casa. Ci ritrovammo con ciò che avevamo addosso. Seduta stante, il superiore, padre Ariel, decise di ritirarci momentaneamente dalla missione, in attesa di tempi migliori.
RICOSTRUIRE LA SPERANZA
Alle 9.30 del 4 febbraio 1999, salimmo sulla Land Rover, che i ribelli non ebbero tempo di rubare, e lasciammo Doruma con tanta tristezza, promettendo ai nostri cristiani in lacrime di tornare presto. Era invece un addio definitivo, poiché il vescovo decise di sostituirci con due preti diocesani locali, affidando ai missionari della Consolata il compito di organizzare una nuova missione a Mbengu, a 30 km dalla sede vescovile di Dungu.
La sera raggiungemmo la missione comboniana di Rungu, dove celebrammo la messa di ringraziamento per lo scampato pericolo. All’indomani riprendemmo il viaggio e giungemmo a Isiro accolti con gioia dai nostri confratelli.
A Isiro, fin dai primi mesi, sono stato coinvolto nell’iniziativa, lanciata dal superiore regionale, per aiutare i giovani e bambini in difficoltà. Per tale scopo, ci fu dato un terreno con una costruzione non terminata, che abbiamo completato e adattato come Centro di alimentazione per bambini debilitati e ammalati, vittime degli effetti della guerra. Il Centro funziona a pieno ritmo. Siamo riusciti a salvare molti bambini, dando anche una formazione igienica e sanitaria alle loro mamme.
Oltre a fornire alimenti, il Centro ha un laboratorio di analisi, in base alle quali possiamo fornire gratuitamente le medicine necessarie per guarire. Abbiamo ottenuto ottimi risultati con centinaia di bambini. Il 90% dei casi hanno riacquistato la completa guarigione. Alcuni di essi, purtroppo, sono così debilitati, che i risultati sono incerti, soprattutto con i sieropositivi. Tuttavia anche per questi facciamo tutto il possibile per salvarli.
Ci occupiamo pure di bambini che non frequentano la scuola, perché sono orfani o di genitori in estrema povertà. Ad essi paghiamo mensilmente la retta scolastica. Una volta la settimana, il Centro accoglie oltre 200 poveri, ai quali viene dato un po’ di riso, sapone, sale e qualche soldo per poter sopravvivere.
Ogni mercoledì visitiamo i carcerati. Sono una sessantina, alloggiati in un capannone in disuso, diviso in due: una parte riservata alle donne, l’altra agli uomini. Dopo una breve preghiera, i miei collaboratori mi aiutano a distribuire cibo e medicine a chi ne ha bisogno.
IL FUTURO E’ GIOVANE
In questi ultimi mesi buona parte del mio tempo è occupato nella costruzione e ristrutturazione della Maison père Oscar, una casa per studenti provenienti dalle nostre missioni, che frequentano le scuole superiori e universitarie di Isiro. È intitolata al nostro indimenticabile missionario medico padre Oscar Goapper.
La Maison sorge accanto alla clinica universitaria, su un terreno donato dal capo tradizionale della missione di Neisu, di recente convertito e battezzato da padre Antonello Rossi. Le sue strutture murarie sono state completate e ospitano già alcuni giovani studenti, anche se la casa non è completamente arredata. Si è provveduto anche a fornire l’ostello di un’ampia biblioteca, che sarà aperta a tutti gli studenti della città, e di un auditorium, intitolato al nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano.
Inoltre, la Maison ospita il dipartimento di Scienze religiose, per la formazione di insegnanti di religione, agenti di pastorale e diaconi permanenti. L’iniziativa vuole essere un contributo per elevare la situazione culturale della gente tra cui siamo chiamati a testimoniare il vangelo.
Speriamo, inoltre, che quest’opera sia un piccolo tassello per costruire la pace, il dono più desiderato dai nostri congolesi.
Domenico Bugatti