Sono cinesi, peruviani, rumeni, maghrebini, mediorientali, africani, filippini. Le aule italiane sono sempre più colorate. I problemi aumentano, ma anche le speranze per un futuro veramente multietnico e dunque più ricco.
Torino, quartiere San Paolo. Il vecchio borgo operaio è ora diventato un rione ad alta densità di immigrati inseriti nel mondo del lavoro. L’epoca è diversa e anche le speranze: allora la città era in pieno boom economico, ora è in espansione edilizia e recita un copione di falso benessere truccando la propria immagine con mille nuovi cantieri, spot e cartelli pubblicitari a cui nessuno più crede.
Il San Paolo era un quartiere proletario socialmente attivo, e tale è rimasto: i nuovi proletari sono adesso gli immigrati da un «meridione» ancora più a sud. Gente che sgobba dalla mattina alla sera e che vuole costruirsi un futuro migliore di quello lasciato in patria (ammesso che le strette e spesso inumane maglie della legge Bossi-Fini, glielo permettano).
Sono peruviani, rumeni, maghrebini, mediorientali, africani subsahariani, filippini, cinesi ecc. Molte le giovani coppie, con figli che frequentano le scuole del quartiere.
NELLA SCUOLA NASCE L’ITALIA MULTIETNICA
Elementare Santorre di Santarosa: 102 bambini stranieri su un totale di circa 600 in età fra i 6 e gli 11 anni. In ogni classe ci sono dai 5 ai 12 piccoli immigrati su una media di 24 alunni.
Una scuola pilota nell’ambito dell’intercultura, con un «collettivo di docenti» motivato e attento alle esigenze dei vecchi e nuovi alunni, che ha saputo trasformare l’emergenza scolastica quotidiana in un esperimento di inserimento ben riuscito.
Il primo programma di Integrazione linguistica e culturale degli alunni stranieri è nato nel 2000. Le insegnanti della scuola elementare si erano confrontate con i colleghi della media vicina e avevano compreso di avere gli stessi problemi di inserimento scolastico: ragazzini che arrivavano dai paesi d’origine a metà anno, senza alcuna competenza nella nostra lingua, con tradizioni e abitudini completamente diverse che davano adito a incomprensioni e a difficoltà relazionali.
Era nato così un «progetto in rete», finanziato dalla circoscrizione, che prevedeva la presenza di mediatori che lavoravano in entrambe le strutture.
Negli anni successivi il progetto è stato inserito all’interno dei finanziamenti statali («per scuole ad alto flusso di immigrati») e regionali («inserimento stranieri e prevenzione del disagio scolastico»).
Le difficoltà avvertite dalle maestre erano causate anche dalle differenze culturali che agivano nella quotidianità, dalla mancanza di conoscenza di usi e costumi dei paesi di provenienza dei giovani scolari e delle regole educative in cui erano cresciuti.
«L’esperienza è iniziata con i cinesi – racconta Feanda Torsello, insegnante e responsabile del progetto interculturale di “Integrazione linguistica e culturale degli alunni stranieri” -. Erano i figli dei ristoratori. Poi, negli anni, sono arrivati i bambini arabi, latinoamericani, africani, e così via. Il primo boom è stato sei anni fa: avevamo parecchi maghrebini inseriti nelle prime classi».
«Alcuni mangiavano seduti per terra a gambe incrociate – aggiungono altre maestre -, com’erano abituati nelle loro case d’origine, dove i tavolini sono spesso bassi e ci si siede su cuscini o tappeti. Rifiutavano diversi cibi e c’era il problema di sostituire alcuni piatti con i pasti alternativi senza insaccati a base di maiale. Ora è più semplice, anche se le difficoltà continuano, soprattutto quando i bambini arrivano a metà anno scolastico e sono già grandicelli».
«Ricordo un bimbo russo che, quando mi avvicinavo, alzava le braccia in segno di difesa – aggiunge un’altra maestra -. Non riuscivo a comprendere quale fosse il problema, poi ho capito che a scuola, nel suo paese, lo picchiavano, e che ne era rimasto scioccato».
A fianco degli ostacoli nella comunicazione linguistico-culturale, il flusso continuo di arrivi e gli inserimenti ad anno scolastico già avviato costituiscono due fra le principali difficoltà che le scuole devono affrontare: le lezioni sono iniziate da tempo e le insegnanti devono trovare il modo per far recuperare ai nuovi scolari il percorso perduto, e contemporaneamente insegnar loro la lingua italiana. Le difficoltà sono facilmente intuibili. In particolare, i ragazzini cinesi e arabi manifestano i problemi maggiori: le loro lingue madri nulla hanno a che fare con le neolatine, e laddove un rumeno o un peruviano fa meno fatica a inserirsi, chi arriva dalla Cina, dal Maghreb o dal Medioriente, stenta di più. O meglio, necessita e richiede un maggior sforzo personale, la presenza di insegnanti di «sostegno» e di mediatori.
Un altro aspetto dolente, in certi casi, è quello delle relazioni tra insegnanti e genitori: i padri lavorano tutto il giorno e le mamme spesso non parlano italiano. Gli avvisi non vengono letti e i colloqui sono disertati. Anche se per alcune famiglie è vero proprio il contrario: la partecipazione è continua e positiva.
Il quadro generale è dunque complesso e, tra un taglio di finanziaria e l’altro, i fondi per le esigenze scolastiche sono sempre meno. Tuttavia, l’esperienza di questi anni di progetto, e l’impegno delle insegnanti, hanno dimostrato che, dopo i primi mesi di difficoltà, i piccoli immigrati si inseriscono bene e partecipano pienamente alle attività.
Una peculiarità della scuola Santorre di Santarosa rispetto ad altre, sia a Torino sia in altre città, è la scelta di avvalersi di mediatori linguistici italiani ma laureati nelle lingue straniere di appartenenza dei bambini: è loro convinzione, infatti, che l’integrazione passi attraverso la piena acquisizione degli strumenti linguistici e culturali del paese di residenza pur mantenendo legami con le proprie radici. In quest’ottica, «mediatore» significa «colui che media» tra la propria cultura e quella dei cittadini immigrati.
Per la mediazione di lingua araba, ad esempio, vengono usate sia le schede didattiche previste dai programmi ministeriali, con il supporto di altro materiale linguistico, sia il Lexico minimo, vocabolario interculturale illustrato, che si avvale di 320 cartoncini con altrettante parole scritte in arabo, traslitterate e tradotte in italiano e corredate da disegni. Uno strumento predisposto anche per altre lingue straniere e molto utile sia per acquisire termini in italiano sia per mantenerli o apprenderli in quella d’origine.
TRA SCUOLA E FAMIGLIA, TRA IDENTIFICAZIONE E TRADIZIONE
Se un ragazzino immigrato, ancora in età elementare, si trova a essere l’unico elemento straniero in una classe, è facile che possa tendere all’uniformazione, all’identificazione con il resto dei compagni e a provar disagio e vergogna per tutti quegli aspetti che possono contribuire a renderlo «diverso»: difficoltà linguistiche proprie o dei genitori, abbigliamento tradizionale o eccessiva religiosità.
Ne risulta una sorta di rifiuto per tutto ciò che rischia di separarlo dagli amici, dal gruppo di cui desidera, invece, fare parte.
Nel caso dei bimbi maghrebini, tale malessere talvolta è manifestato attraverso un’aggressività verbale indirizzata verso i compagni connazionali, e l’utilizzo in senso spregiativo di espressioni quali «marocchino» o «arabo».
Se in classe o nella scuola ci sono altri bambini stranieri – o della sua o di altre culture di appartenenza -, cercherà la solidarietà e l’amicizia con loro e poi, o contemporaneamente, l’integrazione con gli altri compagni.
Racconta Nasira, una giovane universitaria marocchina: «Ricordo come fosse ora il mio primo giorno di scuola: ero vestita di rosso, avevo i capelli raccolti sulla nuca. In classe c’erano altri stranieri: tre ragazzini sinti che mi hanno accolto con un bel saluto. (…) Ho sentito subito quella solidarietà come qualcosa di bello, di familiare. Ero una di loro. Siamo diventati amici subito ed è stato una sorta di rito di iniziazione: un’introduzione a un mondo per me totalmente sconosciuto».
I ragazzini di famiglia modesta, con una scarsa preparazione scolastica e culturale, con limitate competenze linguistiche, hanno una percezione di sé, e del proprio ambiente, piuttosto inferiore, e tendono quindi a identificarsi con la società occidentale, nella speranza di cambiare la propria condizione sociale.
L’atteggiamento muta significativamente, invece, per chi proviene da famiglie immigrate benestanti e colte: tenderà infatti ad accettare e a vivere con più serenità sia le tradizioni d’origine (in certi casi, tuttavia, già molto «occidentalizzate») sia quelle del paese di residenza.
È motivo di orgoglio, per i ragazzi e per le famiglie stesse, l’uso di un italiano corretto e fluente e la buona conoscenza della cultura italiana.
DUE VOLTE STRANIERI: NE’ ITALIANI, NE’ ALTRO
Frequente, tra i bambini, è dunque il desiderio di somigliare ai compagni. Una ragazzetta di quarta elementare arrivata tre anni fa dal Marocco, ha attraversato alcune fasi contrapposte: l’anno scorso aveva più volte manifestato il desiderio di «essere come le altre compagne», di «essere pienamente italiana» e «non voler essere araba». Abbigliamento, diario scolastico, gadget, tutto richiamava la moda infantile diffusa tra le amiche italiane. Anche la lingua araba standard che, appena giunta in Italia, riusciva a scrivere e a leggere abbastanza correttamente e con orgoglio, era finita nel dimenticatornio, rimossa, relegata nell’oblio. È bastato, tuttavia, un periodo di vacanze estive passate nella sua bella casa con giardino a Marrakech, dove poteva «giocare fuori fino a notte inoltrata», per risvegliare il suo senso di appartenenza: «Io sono marocchina – ha infatti affermato recentemente -, e voglio tornare in Marocco, perché lì è più bello di qui».
Un altro problema da non sottovalutare è infatti quello dello «sradicamento»: il sentirsi, cioè, né «italiani né immigrati», senza una buona e corretta conoscenza della lingua e delle tradizioni del paese in cui si vive e si cresce, senza più strumenti di comunicazione nella lingua d’origine e di decodificazione della cultura di appartenenza. Stranieri in terra d’immigrazione e in patria: forse una tra le esperienze più destabilizzanti che un bambino straniero possa provare.
In particolare, per i ragazzi arrivati in Italia alla fine dell’infanzia o all’inizio dell’adolescenza, da soli (cioè senza genitori ma affidati alle cure di fratelli o cugini più grandi), il problema dello sradicamento, della incapacità a comunicare con l’ambiente che li circonda è ancora più forte e ha un peso enorme sull’auto-percezione e sull’auto-stima. Essi tenderanno infatti a difendersi con una buona dose di ribellione e di aggressività, di diffidenza costante nei confronti degli adulti e dei compagni.
Quando trovano, tuttavia, un insegnante, un educatore disposto ad accoglierli e a seguirli nel loro percorso di inserimento scolastico e sociale, riescono a recuperare in fretta il divario linguistico e culturale e a riempire il vuoto che sentono attorno a sé.
Per i bambini cinesi sorgono problemi a più dimensioni: per via dello stretto legame linguistico e culturale con la famiglia e la comunità a cui appartengono, si crea in loro una situazione di confusione e di crisi d’identità. Come tutti i ragazzini, da un lato vorrebbero essere uguali ai compagni italiani, aver diritto alle stesse opportunità, dall’altro sentono la pressione sociale del proprio gruppo di appartenenza e si riconoscono nei valori e nelle tradizioni in cui sono cresciuti. Finiscono così per assumere una sorta di «identità costruita», cercando di adeguare le due culture, quella di appartenenza e quella di arrivo, spesso e volentieri senza alcun sostegno da parte dei genitori (sprovvisti dei mezzi culturali per aiutarli). Per ciò che riguarda la lingua, a casa usano il cinese perché i familiari non sono in grado di capire l’italiano, e a scuola si sforzano di apprendere quest’ultima.
La relazione tra la lingua e la cultura di partenza e quella di approdo è decisamente meno complessa per i latinoamericani e per i rumeni.
Julia è una studentessa di origine peruviana iscritta al terzo anno di un istituto tecnico superiore di Torino. È arrivata quando aveva 10 anni ed è stata inserita in quinta elementare. Racconta delle iniziali difficoltà di comunicazione ma anche dell’entusiasmo che l’ha portata ad apprendere abbastanza velocemente vocaboli, verbi e sintassi della nuova lingua.
Ora è una delle migliori della classe: studia volentieri e molto, è ben inserita e molto stimata da compagni e insegnanti. Per il forte senso di responsabilità e per la maturità che la distinguono, è diventata la referente per le attività di biblioteca e per altri laboratori.
La scuola è dunque un luogo privilegiato per monitorare il fenomeno dell’immigrazione minorile, sia regolare sia irregolare, e dei suoi cambiamenti.
Le sanatorie degli anni Novanta hanno portato ai ricongiungimenti familiari – mogli e figli dei lavoratori stranieri presenti sul territorio – e a nuovi immigrati: questo significa, tra l’altro, che la loro presenza nelle scuole per l’infanzia, nelle elementari e nelle medie inizia a compensare la scarsa natalità delle famiglie italiane. Per esempio, i nuclei familiari maghrebini, e spesso anche rumeni, hanno in media dai tre ai cinque – sei figli.
«SENTIRSI ITALIANI»:LE SECONDE GENERAZIONI
Come abbiamo visto, i ragazzi stranieri cresciuti in Italia tendono a «sentirsi italiani» a tutti gli effetti, soprattutto grazie alla scuola. Lo spiega bene don Fredo Olivero, responsabile dell’ufficio migranti della Caritas torinese: «La loro patria è questa: qui desiderano vivere e diventare adulti, studiare, laurearsi, trovare un posto di lavoro. Vogliono divertirsi, uscire con gli amici, e immaginano un futuro diverso da quello dei propri genitori. Questa nuova condizione e prospettiva crea, in non poche famiglie – non solo musulmane ma anche peruviane, cinesi, albanesi, ecc. -, frequenti conflitti e grandi tensioni. Qualcuno addirittura se ne va di casa».
Nelle associazioni di volontariato arrivano spesso ragazzi in rotta con le famiglie: sono campanelli di allarme di un disagio interiore e dell’incapacità degli adulti a relazionarsi con i figli che cambiano, che crescono, che incontrano nuove realtà, magari diverse o opposte rispetto a quelle a cui erano abituati da generazioni. I quartieri-ghetto delle grandi metropoli italiane possono costituire un rifugio per un malessere che colpisce giovani italiani e immigrati, e la prevenzione, attraverso l’accoglienza, l’educazione, l’ascolto, l’offerta di opportunità e speranze, rimane l’unico strumento vincente.
Secondo alcune proiezioni, tra il 2010 e il 2020, in Italia, le seconde generazioni raggiungeranno la cifra di un milione. Molti di loro, come già sta accadendo da alcuni anni, saranno nati qui e avranno frequentato le scuole insieme ai coetanei italiani «figli di italiani».
Come sostengono i ricercatori della Fondazione Agnelli, saranno persone non più classificabili come «immigrati» o come «stranieri», ma neppure come «italiani» tout court. Abbiamo iniziato a vederlo ora con i ragazzi arabi, latinoamericani, africani, ormai «naturalizzati», perché hanno visto la luce nei nostri ospedali o sono arrivati da piccoli.
Hanno accenti regionali marcati o nessuna inflessione dialettale, vanno alle feste delle comunità di appartenenza e a quelle di compleanno dei propri amici o compagni di classe, portano il foulard o i jeans a vita bassa, i pantaloni che arrivano fin sotto le scarpe e i maglioni con la scritta alla moda, si fanno le treccine fitte fitte o si colorano di henné le mani. Come la maggior parte degli adolescenti, parlano in fretta «mangiandosi» le finali di ogni frase, usano fraseologie gergali e parolacce, oppure, per distinguersi, ostentano una sintassi e un lessico impeccabili; scaricano musica dai computer e l’ascoltano con il portatile durante gli intervalli, si esaltano per divi della Tv o del cinema. Insomma, a scuola e per strada sono in quasi tutto uguali ai compagni «italiani da generazioni»…
Tranne che a casa: lì, infatti, molti rientrano negli «schemi familiari» previsti per loro. Quasi avessero una doppia esistenza o fossero costretti a vivere in una «schizofrenia» più o meno lucida e consapevole. Ciò accade, ovviamente, quando la famiglia è conservatrice ed estremamente tradizionalista, o non ha gli strumenti intellettuali per accettare nuovi stili di vita, e quando il comportamento «esterno» dei figli è radicalmente diverso da quello domestico. Esistono comunque tante «vie di mezzo» meno stridenti e traumatiche.
UN GIORNO IL PRIMATO, OGGI L’ABBANDONO
Quando proseguono gli studi alle superiori, i ragazzi immigrati sono spesso tra i più bravi della classe: s’impegnano, sono partecipi, si documentano. Quando emergono sono dei leader tra i compagni. Assimilano il meglio di due culture e fanno da «mediatori naturali». Come afferma Fredo Olivero, «quando le condizioni familiari e della società in cui vivono glielo permettono…».
Attualmente, invece, ci troviamo di fronte a numerose situazioni di abbandono scolastico subito dopo la terza media. Le motivazioni possono essere molteplici: la famiglia richiede al ragazzo/a di contribuire al bilancio domestico; i genitori sono rimasti in patria e lui/lei deve provvedere a mandare soldi per il mantenimento dei cari; mancanza di interesse per gli studi e scelta lavorativa; fallimento del percorso di inserimento scolastico, sociale e identitario – o perché il minore ha trovato un ambiente ostile e insegnanti poco preparati ad accoglierlo, o perché la famiglia non l’ha sostenuto e appoggiato -; ritorno al paese d’origine, e altro ancora.
Come l’esempio francese insegna, le seconde e le terze generazioni avranno ben chiaro in mente ciò che desiderano o rifiutano: saranno meno disponibili ad accettare i mestieri scartati dagli italiani – in genere umili e poco gratificanti -; si svilupperanno (già sta accadendo) conflitti familiari a causa delle differenze maturate; qualche tendenza ortodossa o, al contrario, estremamente liberale, si trasformerà in integralista; l’ottenimento della nazionalità sarà considerata una delle priorità. Insomma, avremo di fronte uno scenario in continuo movimento.
Sulle seconde generazioni, spiegano ancora i ricercatori della Fondazione Agnelli , «si gioca veramente l’integrazione e tutto dipenderà dalla capacità di accoglienza della società italiana».
I RUMENI, LA SORPRESA
Sono tanti, i rumeni e hanno battuto i maghrebini nel totale italiano delle presenze. In genere si integrano abbastanza bene e sono oggetto di minori pregiudizi, perché fisicamente «più simili agli italiani» dei loro concorrenti nelle statistiche sull’immigrazione: gli arabi marocchini, appunto.
Ma anche loro sono noti nelle cronache giornalistiche soprattutto per quella parte che delinque, che si prostituisce o che sfrutta i minori anche nel mercato del sesso.
La comunità dei rumeni in realtà è formata da due gruppi diversi: i cattolici, molto meglio assimilati, e gli ortodossi, molto meno. I primi sono qui da almeno due generazioni e i figli si sentono del tutto italiani, gli altri costituiscono un’immigrazione più recente.
Il grande afflusso è iniziato 10 anni fa circa, con adulti e minori che arrivavano qui in cerca di lavoro. Nei decenni precedenti si era trattato invece di migranti per matrimonio: giovani donne maritate a italiani maturi.
Chiediamo a Zamfira, mediatrice culturale, moglie di un italo-rumeno e madre di una ragazzina di seconda media, del tutto italiana, come vivono i suoi giovani connazionali. La sua risposta potrebbe adattarsi bene sia al caso dei cinesi sia a quello dei maghrebini.
«Sono scissi tra due identità: da una parte sono legati alle proprie tradizioni familiari e culturali, dall’altra vorrebbero essere come i loro coetanei, che imitano nel consumismo e nelle mode. C’è un senso di sradicamento che spesso prevale e tanti conflitti interiori e familiari. Non credo vivano bene, e sto parlando di chi è qui con la famiglia o almeno con dei parenti. La situazione per quelli soli è ben peggiore, ovviamente. Dobbiamo capire che in patria hanno lasciato una realtà di povertà e qui si trovano di fronte a tanti stimoli materiali ma ad altrettanta solitudine. Tra i compagni, nelle superiori, c’è un certo razzismo: loro sono figli di gente che, seppure spesso con una laurea in tasca, svolge lavori umili, che gli italiani non fanno più: assistenza a malati e anziani, mansioni nell’edilizia, nei mercati alimentari, nel settore delle pulizie. Mestieri di cui si vergognano, quando stanno in mezzo agli italiani, e di cui non parlano quando si ritrovano con i connazionali. Tra loro c’è un tacito sorvolare sull’argomento: tanto, quasi tutti i loro genitori sono impegnati nelle stesse modeste attività».
Viene da pensare che, forse, se sapessero che questi percorsi professionali e questa vergogna per gli umili impieghi dei propri cari erano molto diffusi fra i giovani italiani figli di immigrati dal Sud dell’Italia o dal Veneto o dalle campagne piemontesi, si sentirebbero meno frustrati. Forse sono le nuove generazioni nostrane ad aver dimenticato di essere, in molti casi, la discendenza di migranti poveri e senza mezzi culturali.
«In effetti, la situazione di molti immigrati è piuttosto simile a quella dei vostri, nel Novecento – riflette Zamfira -. I ragazzini rumeni spesso inventano realtà che non esistono: benessere, lavori ben pagati, soddisfazione. Raccontano che i genitori hanno una bella professione e che guadagnano tanti soldi: sono bugie che servono per coprire il loro disagio. Anche il fatto di abitare in due-tre famiglie in uno stesso appartamento non aiuta a risolvere i problemi.
Un’altra nota dolente è la prostituzione e la delinquenza minorile. Qualche giorno fa mi trovavo sul tram e ho assistito a una scena che mi ha angosciata molto: tre donne rumene, di cui una adolescente, stavano discutendo animatamente. Erano prostitute. La giovane si stava ribellando a quella che doveva essere sua madre, affermando di non voler fare più quel mestiere. La mamma e l’altra donna, forse la maman del giro, erano visibilmente in disaccordo con lei. Poi, a un certo punto, la ragazzina ha notato il pulsante per la prenotazione della fermata e, tutta contenta e stupita, ha iniziato a schiacciarlo ripetutamente, come in un gioco infantile. Ho capito che forse era arrivata da poco da qualche villaggio della Romania per fare la prostituta. Ma era rimasta una bambina dentro, come giusto». •
Angela Lano