DOSSIER NUOVI ITALIANI”Non tornerei in Marocco”

La cultura di provenienza è una ricchezza enorme. Ma – spiegano le due ragazze islamiche – «il nostro paese ora è l’Italia».

Fatima e Sarah, due ragazze marocchine, sono sedute ai tavolini di un bar di un grande albergo che ospita il festival islamico di al-Aqsa, una ricorrenza annuale per raccogliere fondi da mandare a orfani e vedove in Palestina. Sorseggiano del caffè mentre sembrano immerse in una fitta conversazione.
Vivono in Italia da tanti anni: universitaria la prima, liceale la seconda, hijab intorno al capo, entrambe fanno parte del direttivo del Gmi, Giovani musulmani italiani.
Stanno discutendo di integrazione e di conflitti familiari. L’argomento è interessante …

Fatima, come ti percepisci, italiana, marocchina, tutte e due le cose?
«Mi sento di appartenere sia a questa cultura sia alla mia. Sono cresciuta qui, tra i miei amici italiani. Mi sento alla pari con loro. Il primo giorno di frequenza all’università, i miei compagni mi hanno osservata con interesse ma senza diffidenza. Considerata la situazione internazionale, mi sarei aspettata un atteggiamento negativo. Invece è andato tutto bene e abbiamo fatto subito amicizia. Studiamo insieme in biblioteca o in aula. Amo questo paese ma non mi sembra una contraddizione indossare l’hijab, come richiede la mia religione. Credo che ciò che non si riesce a capire è che noi siamo italiani a tutti gli effetti: la cultura di provenienza è un’enorme ricchezza.
Noi giovani musulmani costituiamo un ponte tra le culture. Molti aspetti legati alle tradizioni di provenienza possono essere abbandonati, i principi della fede, no. Tutti noi siamo di fronte a una sperimentazione di un islam italiano.
Uso il velo dall’età della pubertà: è stata una scelta serena, i miei genitori non me l’hanno imposto. Nessuno può obbligare qualcun altro a usarlo. E non ritengo giusto giudicare chi, pur praticante, decide di non indossarlo».

E in famiglia, come vanno le relazioni tra le generazioni?
Sarah: «Esistono tanti tipi di famiglie, sia quelle legate alle tradizioni sia quelle che si oppongono se i figli vogliono seguirle, qui in Italia. Ci sono anche i giovani che non hanno ricevuto alcun approccio religioso. D’altro canto, si trovano anche genitori che addirittura vietano ciò che l’islam non vieta: la libertà di movimento e di relazione umana con altre persone. Per esempio, non lasciano uscire di casa le ragazze, le discriminano proibendo loro l’accesso allo studio. I miei genitori sono religiosi praticanti ma non tradizionalisti: mi lasciano uscire fino a tardi con le mie amiche, studiare e pensare al mio futuro. Quelli più tradizionalisti e duri sono in disaccordo con i figli e in casa ci sono gravi conflitti. Sono intransigenti e poi neanche sanno che fanno e dove vanno i ragazzi una volta usciti. Ci vuole fiducia e apertura mentale».
Fatima: «Abbiamo una doppia identità: a casa, in genere, si parla arabo, fuori, italiano. Pensiamo anche in italiano. Certe volte abbiamo paura che il nostro sentirci italiani possa offendere i nostri genitori, come se avessimo dimenticato le nostre radici e le nostre tradizioni».

Il mito del ritorno in patria dei padri è ancora condiviso dai figli, secondo voi?
Fatima: «I miei genitori sanno che io non toerei in Marocco con loro, nonostante sia nei loro programmi. E lo accettano. Ma non è così per tutti i ragazzi: spesso si creano dei “giochi di ruolo”, due identità. In casa sono in un modo, fuori in un altro. E ciò porta a una situazione di disagio, anche a livello psicologico: si è scissi in due in contesti importanti per la propria vita. Non si è se stessi. Ecco, l’islam ci aiuta a trovare la strada e la serenità». •

Angela Lano