DOSSIER NUOVI ITALIANINon eravamo tanto amati

Un tempo non lontano l’Italia era un paese di emigrazione. Fuori dei confini geografici, oggi vivono almeno 60 milioni di connazionali. Nel frattempo, siamo divenuti terra d’immigrazione. E in molti storcono il naso, alzano la voce, o sbattono la porta, non sapendo o fingendo di non sapere la nostra stessa storia.

Lo schermo della sala video di una scuola superiore di Torino proiettava due immagini in bianco e nero così simili da sembrare prese da una stessa fonte. Nella prima, una poverissima famigliola di migranti, composta da madre e tre figli, era ferma sul marciapiede di una stazione; per terra si vedeva una valigia sgualcita e legata con una corda; sulle spalle del figlio maggiore faceva capolino un sacco a righe; sguardi schiusi in un sorriso di speranza si perdevano dentro l’obiettivo del fotografo. Nella seconda, un altro gruppo di migranti appoggiati a transenne di contenimento aspettava il proprio tuo, presumibilmente davanti a un ufficio immigrazione.
Perplessi i trenta ragazzi cercavano di dare un’identità nazionale alla mamma e ai suoi tre figli: «Sono degli zingari rom», proponeva uno; «No, sono marocchini», gli faceva eco un’altra; «Ma dai, sono albanesi!», incalzava un terzo; «Tunisini, sono tunisini», rispondeva il compagno dall’ultima fila; «A me sembrano iracheni», «Curdi?», insinuavano altri due.
«Italiani. Sono italiani. Nostri connazionali. Migranti di inizio Novecento» – spiegava infine l’insegnante -. «La seconda foto è invece recente e ritrae dei cittadini immigrati in Italia. Lo sapete vero che eravamo un paese di emigranti, gente povera che se andava via all’estero, nelle Americhe, in Francia, in Germania, per trovare un lavoro con cui mantenere la famiglia lasciata in patria?».

Già, siamo ex emigrati – i nostri connazionali nel mondo sono circa 60 milioni, un’altra Italia, dunque -, persone spesso abituate a svolgere professioni modeste, quelle che gli abitanti dei paesi che ci ospitavano non volevano più fare, o quelle che spettavano agli schiavi, successivamente liberati.
Abitavamo in tanti in uno stesso appartamento misero e sporco; quando ce lo permettevano e le nostre condizioni miglioravano, ci facevamo raggiungere da mogli, mariti, figli e genitori. Ricongiungevamo così le nostre famiglie spezzate, magari dopo anni di duro lavoro, e allora, con un po’ di benessere nelle tasche, ci compravamo il vestito bello con cui farci fotografare nella bottega del quartiere più carino della città e mandavamo la nostra immagine sorridente e decorosa ai nostri parenti rimasti al paese natio. Che gioia quando uno dei nostri figli si laureava in quel luogo straniero! La nostalgia di casa ci riempiva di gioia e di orgoglio: di senso finalmente offerto alla nostra struggente lontananza. Erano le radici che germogliavano in angoli del mondo a noi spesso ostili. I nostri sacrifici cominciavano a dare frutti e avrebbero assicurato una vita agiata alla nostra discendenza.
Non eravamo sempre amati, noi italiani all’estero: ci gridavano «mafiosi», «spaghetti» e «pizza». Dicevano che dovunque andassimo portavamo criminalità e malattie. Ma noi volevamo solo lavorare, migliorare quell’esistenza misera che avevamo lasciato nelle nostre campagne o nelle nostre valli, o nei rioni più poveri delle nostre città.
Ricordi, racconti, immagini. Memorie racchiuse in molte delle nostre famiglie. Ora dimenticate. Rimosse. Adesso ci sentiamo i padroni del mondo, o semplicemente «gli amici cari dei padroni del mondo». Dalle copertine di giornali e riviste, e dalle pagine di libercoli best-seller, spesso gridiamo il nostro «vade retro» ai nuovi immigrati, nostri fratelli odiei di sventure passate. Li descriviamo come «orde pronte a invaderci e a sporcarci le strade. A colonizzarci. A islamizzarci. A portarci ogni sorta di epidemie e di disastri». Il cavallo di Troia astutamente posto nelle terre dei discendenti degli antichi celti e romani. In realtà, capri espiatori delle politiche economiche e sociali di una classe dirigente senza etica e senso dello stato, che, servendosi del potere concesso dai mezzi di informazione, tuona semplice e stupida propaganda.

Certo, in questo bel paese spaccato in due tra nuove povertà e nuove ricchezze ostentate con sfacciataggine, in quest’Italia rimbalzata indietro di decenni in ogni campo, ma soprattutto in quello politico – culturale – economico, il momento storico non è dei più favorevoli per parlare di «incontro di civiltà» e di integrazione. Per raccontare delle seconde generazioni di immigrati: quelle che stanno crescendo a fianco dei nostri figli, che stanno arrivando a seguito dei ricongiungimenti familiari; che giungeranno o che nasceranno nei prossimi anni.
Il contesto non è dei migliori, forse per questo abbiamo voluto parlarvene attraverso le pagine di questo nostro dossier. Perché la memoria del passato è il miglior deterrente contro gli errori del presente e del futuro.
Angela Lano

Angela Lano