Missionari in tutto.
Senza mezze misure.
Plasmati dalla Consolata.
Così il fondatore aveva sognato i suoi figli, perché fossero davvero «aiutanti di Dio»
nel salvare il mondo.
Come fondatore ed educatore di missionari e missionarie, il beato Giuseppe Allamano si qualifica anche per tre intuizioni «originali», in quanto la loro «origine» va ricercata dentro di lui, in quel punto profondo e riservato della sua coscienza, dove più che le idee desunte dalla lettura di libri, o suggerite da altre persone, giunge la luce dello Spirito. Sono intuizioni avute nella riflessione e nella preghiera, maturate in convinzioni e concretizzate in programmi operativi e proposte missionarie.
Sarebbe superficiale spiegare la ricca personalità di un uomo come l’Allamano, limitando a tre le sue intuizioni originali, perché ne ha avuto molte di più e di notevole spessore. Ma queste sono decisive per capire il nucleo centrale del suo carisma e la novità delle sue proposte. Ecco di cosa si tratta: l’Allamano ha compreso di essere chiamato a raccogliere attorno a sé uomini e donne giovani, disposti a coinvolgersi totalmente nella missione; inoltre, che questi giovani mirassero a diventare di prima qualità e, soprattutto, che fosse chiaro a tutti come la realizzazione di questo progetto non era opera sua, ma di Dio e della Consolata.
Nella testa e nel cuore
La prima proposta che l’Allamano faceva ai giovani, dunque, era esclusivamente di tipo missionario. Il suo impegno di fondatore e formatore era indirizzato a questo obiettivo: cercare, preparare e inviare missionari, adeguati per qualità e quantità. Lo diceva francamente ai primi aspiranti: «Non essendo potuto essere io missionario, voglio che non siano impedite quelle anime che desiderano seguire tale via». E ancora: «Qui, l’aria è buona solo per coloro che vogliono essere missionari».
È necessario, però, chiarire che cosa egli intendesse per missione e missionario. Ed è qui che è possibile scorgere una sua prima intuizione: la missione, prima che un’attività da svolgere, è una «comunione» di vita con il «missionario per eccellenza», Cristo Signore, l’inviato del Padre. Quindi, per esprimerci con un linguaggio odierno: «Prima essere missionario e poi operare». I giovani aspiranti venivano coinvolti dall’Allamano nell’appassionante avventura di vivere di Cristo, per collaborare con lui alla salvezza dell’uomo.
L’idea, poi, che l’attività missionaria avesse la caratteristica della «collaborazione» era chiarissima nella sua mente. La spiegava così: «Il missionario è chiamato a cornoperare con Dio alla salvezza di quelle anime che ancora non lo conoscono; a prendere parte attiva e impegnare la propria persona alla grande opera della conversione del mondo. È questa, quindi, un’opera essenzialmente divina». E, citando san Paolo, aggiungeva con un senso di compiacenza: «Siamo aiutanti di Dio!».
Ma c’è ancora un aspetto da non tralasciare. L’Allamano era così tenace nel sostenere la vocazione missionaria (tanto da essere criticato da alcuni, quasi «rubasse» forze giovani alla chiesa locale), perché la considerava la migliore in assoluto. E lo spiegava in modo semplice alle ragazze che si preparavano a diventare suore missionarie: «Non si dice per superbia, ma voi sapete che lo stato di missionaria è il più perfetto che ci sia, perché è quello che Gesù ha scelto per sé. Tant’è vero che, se il Signore avesse trovato sulla terra uno stato più perfetto, l’avrebbe abbracciato. Ora, lo stato che più imita Nostro Signore, che si avvicina di più a Lui, è il più perfetto».
Era perciò ovvio che l’ideale missionario da lui proposto toccasse direttamente il rapporto delle persone con Cristo: «Così voi dovete avere non solo lo spirito del Signore; ma i suoi pensieri, le sue parole e le azioni; perciò dovete essere missionari nella testa, nella bocca e nel cuore». In definitiva, l’Allamano aveva capito che l’essenziale era educare i giovani a formarsi una personalità genuinamente missionaria, seguendo Gesù, il modello per eccellenza. La loro idoneità ad operare sarebbe venuta di conseguenza.
Ma se il discorso si fermasse a questo punto, sarebbe limitato; occorre, dunque, completarlo. Nella mente dell’Allamano, ai missionari era affidato il compito di collaborare alla salvezza «integrale» dell’uomo. Il che significa: salvezza soprannaturale (la prima per importanza), ma anche salvezza terrena, perché l’uomo totale è costituito da corpo e anima e le sue esigenze sono, allo stesso tempo, terrene e soprannaturali.
I primi missionari, accompagnati dalla saggezza del fondatore, avevano maturato la convinzione che il primo lavoro da compiere era di «elevare l’ambiente». Questa formula, da essi inventata, significava impegnarsi concretamente, perché il livello di vita della gente migliorasse. Ecco, allora, l’attenzione alle coltivazioni, all’istruzione, alla salute, ecc. Dunque, senza fare troppe discussioni teoriche, già all’inizio del secolo scorso, l’Allamano e i suoi giovani missionari avevano intuito che la promozione umana è parte integrante dell’evangelizzazione.
Nell’ambiente della chiesa torinese, però, dove si aspettavano notizie di conversioni in massa, non erano mancate critiche e l’Allamano ne aveva sofferto. Fortunatamente, in favore dei missionari della Consolata, intervenne la Santa Sede, che ufficialmente lodò il loro metodo di azione. È bello notare il sollievo dell’Allamano, quando poté scrivere ai missionari: «Il decreto della Santa Sede che ha approvato ufficialmente il nostro istituto, le attestazioni di Propaganda fide e le stesse parole del papa approvarono il metodo del nostro apostolato. Bisogna degli indigeni fae tanti uomini laboriosi, per poi poterli fare cristiani: ameranno una religione che, oltre le promesse dell’altra vita, li rende più felici su questa terra».
Non sembra vero, ma a questa vicenda si è richiamato ancora lo stesso Giovanni Paolo ii nel messaggio per il centenario del nostro istituto. Riportando le parole dell’Allamano appena riferite, il papa scriveva: «A questo proposito, vorrei evidenziare ancora un altro aspetto del vostro peculiare carisma. Fin dagli inizi, i vostri missionari hanno unito all’evangelizzazione un concreto sforzo di promozione umana, privilegiando la cura per i più poveri e gli emarginati. È uno stile apostolico che potremmo chiamare “integrale”, perché in esso sono tenute presenti tutte le esigenze dell’essere umano».
Gente di prima qualità
Un bel sogno che l’Allamano non smise mai di cullare era che i suoi missionari fossero tutti di «prima qualità». Sembra una pretesa, ma così lui li aveva immaginati, di fronte alla Consolata, prima ancora di dare vita ai due istituti.
Certamente, non si illudeva riguardo a quei giovani che stavano preparandosi per essere mandati in Africa. Li conosceva troppo bene; anche se sembrava felice, per il bene che voleva loro, di ammettere bonariamente: «Io vi credo più di quello che siete» e non temeva di offenderli, ricordando loro che «nessuno di voi è santo»; «non vi credo ancora santi». Così percepiva la propria vocazione: «Io ho il ministero di santificare le vostre anime»; perciò «non voglio altro che voi, cioè i vostri cuori, per aiutarli a santificarsi».
L’intuizione dell’Allamano su questo punto era chiara: quanti intendono seguire Cristo nella missione lo devono fare anzitutto nello stile di vita, cioè nella perfezione. Senza santità, non c’è apostolato. Anche questa intuizione era maturata nella sua esperienza personale. Fin da giovane, non aveva mai disgiunto il proposito di diventare sacerdote da quello di tendere alla perfezione più elevata possibile.
Per l’Allamano, dunque, il missionario deve tendere alla santità di vita, perché è un apostolo di frontiera. Ciò emerge chiaro dalla sua pedagogia: «Uno tanto più sarà santo, tante più anime salverà»; «dobbiamo prima essere buoni e santi noi, dopo faremo buoni gli altri; altrimenti, non saremo buoni né per gli altri, né per noi». «Prima santi, poi missionari»: sono ancora sue parole. Dove le avrà attinte, se non dalla sua coscienza? Solo un santo può avere idee del genere.
Al riguardo, c’è ancora un aspetto che merita la nostra attenzione: egli aveva compreso che la santità del missionario deve avere un «di più», proprio perché continuatrice della missione di Gesù. E si domandava: «Ma quale deve essere questa santità?». Ecco la risposta, di una semplicità disarmante: «Maggiore di quella dei semplici cristiani, superiore a quella dei semplici religiosi, distinta da quella dei sacerdoti secolari. La santità dei missionari deve essere speciale, anche eroica e all’occasione straordinaria da operare miracoli»!
È interessante notare che l’Allamano non proponeva l’ideale di santità in modo astratto o generico. I suoi discepoli potevano vederla prima di tutto incarnata concretamente nella sua persona e poi proposta da una pedagogia pratica e «mirata». Non si limitava ad affermare che il missionario «deve» essere santo, ma insegnava anche «come» esserlo nelle situazioni della vita di ogni giorno. Ispirandosi all’esempio di Gesù, il quale «ha fatto bene tutte le cose» (Mc 7,37) e seguendo la spiritualità dello zio, san Giuseppe Cafasso, avanzava una proposta in questi termini: «Fare bene il bene, meglio che si può, nelle cose ordinarie della vita, senza rumore, con costanza e riprendendosi subito dopo ogni sbaglio».
La convinzione che il «vero missionario è il santo» la troviamo espressa in modo quasi ufficiale nella lettera enciclica di Giovanni Paolo ii sulle missioni, dal celebre titolo Redemptoris missio (la missione del Redentore), nella quale si legge: «La rinnovata spinta verso la missione ad gentes esige missionari santi. Non basta rinnovare i metodi pastorali, né organizzare e cornordinare meglio le forze ecclesiali…: occorre suscitare un nuovo “ardore di santità”». Queste parole dell’enciclica sembrano proprio «copiate» dagli scritti dell’Allamano, tanto evidente è la concordanza. Di fatto, egli ne aveva pronunciate di simili almeno 80 anni prima!
La vera fondatrice
Anche l’Allamano, come tutti i fondatori di istituti religiosi, era convinto che la sua opera fosse originata da Dio e lo ha affermato più volte. La sua intuizione caratteristica è di avere saputo scorgere, proprio all’origine dell’istituto, anche la presenza attiva della Madonna Consolata. È lei la vera «fondatrice»!
Ne consegue che egli non accetta il titolo di fondatore. Sentiamolo dalla sua viva voce: «Questa casa l’ha posseduta Nostro Signore fin da principio ed è proprio sua come un campo è del proprietario. Quindi, non dite bugie affermando che il tale o il tal altro l’ha fondata. No, no, è la Madonna che l’ha fondata e il principio è venuto da Dio stesso». «Accetto di cuore i vostri auguri per l’onomastico, ma non dite più “fondatore”, questo è uno sproposito! La fondatrice è la Madonna».
Merita di essere riferita ancora questa testimonianza di un missionario dei primi tempi, per lo scherzoso gioco di parole che contiene: «Ci sono alcuni che mi chiamano fondatore dell’Istituto. Fondatrice di questo istituto è la Consolata. Io sono il “fonditore”, perché faccio fondere le offerte dei benefattori».
Perché un atteggiamento così deciso, da non ammettere repliche? Immaginiamo l’Allamano, prima della fondazione dell’istituto, da solo nel coretto del santuario, dove trascorreva lunghe ore in preghiera e da dove poteva ammirare l’effigie della Consolata, intento a discutere con lei sull’opportunità di una nuova fondazione. Certamente la Consolata lo aveva incoraggiato, forse anche convinto, vincendo la sua ritrosia, come lui stesso poi confiderà. Prima ancora che i missionari della Consolata esistessero, l’Allamano li aveva pensati e voluti, sostenuto direttamente dalla Madonna. Con un’esperienza così intensa, come avrebbe potuto, in seguito, anche solo supporre di essere lui il vero fondatore?
Partendo da questa profonda intesa con la Madonna, ecco la sintesi della proposta mariana che l’Allamano faceva ai suoi missionari e missionarie: «Portate il titolo della Consolata come nome e cognome»; «Il nome che portate deve spingervi a divenire ciò che dovete essere»; «Voi siete “consolatini”».
Nel 2001, congratulandosi per i nostri cento anni di vita, il papa ha voluto confermare questa proposta dell’Allamano: «Con l’aiuto della Consolata, carissimi fratelli, diffondete la vera “consolazione”, la salvezza cioè che è Cristo Gesù, salvatore dell’uomo».
L’Allamano ha maturato anche un’altra delle sue idee originali, con la quale vogliamo concludere, pur non avendola inserita nelle famose «tre intuizioni». Egli sentiva interiormente che avrebbe potuto accompagnare i suoi missionari e missionarie anche dopo la morte. Non era solo il suo affetto a suggerirglielo, ma la certezza di una vocazione speciale, che gli conferiva una «pateità perenne». E lo disse più volte, in tanti contesti differenti, tutti proiettati al futuro: «Quando sarò in Paradiso, e ciò sarà presto, pregherò per te, non perché ci venga subito anche tu, ma perché te lo prepari pieno di meriti»; «Farò più di là che di qua»; «Fare rumore non è nel mio spirito, ma dal Paradiso farò, farò»; «Quando sarò in Paradiso, sarò sempre al balcone; vi guarderò e vi benedirò ancora di più».
L’esperienza ci mostra che il fondatore sta mantenendo le sue promesse…
Francesco Pavese