SINKIANGGrattacieli nel deserto
La Cina «modea» avanza nel Sinkiang, l’estrema provincia del nord-ovest, a spese della cultura millenaria degli uiguri, emarginati e repressi nelle proprie aspirazioni di libertà. Anche i turisti sono mal sopportati dai cinesi.
La strada asfaltata era ormai alle spalle. Il taxi ci stava portando verso il deserto. Il grigio ocra della terra e del cielo s’imponeva più che in città, dove la sabbia sospesa nell’aria, che ricopriva ogni cosa di un velo uniforme, lasciava almeno intravedere i colori, sebbene sbiaditi, delle insegne e delle macchine. Tutto era uniformemente grigio, le case di argilla come il cielo, il fiume, gli animali e la ghiaia del deserto. Solo i fazzoletti delle donne suggerivano il ricordo di un mondo colorato, rimasto al di là del velo di sabbia.
CONVERSAZIONE… RISCHIOSA
Il deserto intorno a Hotan è pieno dei resti di antiche città. Avevo scelto il sito archeologico più vicino: a soli 10 chilometri si trovano le rovine di Yotkan, la capitale di un regno esistito tra i secoli iii e viii. Incerta su come raggiungere il posto, soprattutto su come comunicare col taxista, avevo incontrato fuori dell’albergo un signore che parlava inglese. Una fortuna insperata: era la prima volta che mi capitava, da quando avevo attraversato la frontiera cinese, una settimana prima.
Di lì a poco avevo saputo che il mio nuovo conoscente era venuto dal nord del Sinkiang per partecipare a un convegno del partito comunista regionale. Era un uiguro. Più che gli occhi, anch’essi a mandorla, lo tradiva il colore olivastro della pelle, che si distingueva da quello latteo dei cinesi. Era stato allettato dall’idea di ravvivare, con una gita fuori porta, la monotonia di quel convegno, il cui unico motivo d’interesse era il buffet offerto a mezzogiorno e sera. Io gli avrei offerto un passaggio sul taxi e lui ci avrebbe messo la favella.
Il sito era appena ai bordi del deserto e consisteva in alcuni cumuli di macerie grigie. Salendovi, si capiva che quei detriti erano stati edifici, perché sotto i piedi si aprivano di tanto in tanto spazi vuoti, un lontano ricordo delle stanze di un tempo.
Non c’era molto che potesse attirare l’interesse del profano, ma, nella sua irrealtà e assoluta desolazione, il luogo soggiogava. Veniva voglia di andare verso l’orizzonte di quel mondo di sabbia, dove il sole non bruciava, né si vedeva, seminascosto dal pulviscolo sospeso nell’aria.
C’incamminammo. Quando intorno era scomparso anche l’ultimo segno di vita, eccetto le lucertole albine che ci sfrecciavano davanti a coda levata, il mio conoscente intavolò una conversazione rischiosa.
Ce l’aveva coi cinesi, razzisti, che trattano gli uiguri come gente di seconda categoria, li discriminano, si riservano i lavori migliori, fanno una politica demografica spietata. Gli uiguri che vivono in campagna possono, sì, avere fino a tre figli, ma a distanza di tre anni uno dall’altro. Le donne che rimangono incinte portano avanti la loro gravidanza di nascosto; ma se vengono scoperte, sono costrette ad abortire.
Mi confidò che le stazioni radio più seguite sono la Bbc e la Voice of America. Sperava che l’America sarebbe arrivata anche lì a sistemare un po’ di cose.
Ascoltavo senza fare troppi commenti. Non volevo togliergli quell’illusione. Sul conto dell’America, intendo. Anche una speranza vana, finché rimane viva, scalda il cuore. E poi, potevo fidarmi di lui? Non lavorava, forse, per il partito?
ALLA LARGA DAI TURISTI
Eppure, quelle parole non dovevano sorprendere sulla bocca di un uiguro. Solo pochi giorni prima, a Kashgar, avevo misurato l’ampiezza dell’opera di ricostruzione che il governo di Pechino sta compiendo a spese della cultura locale.
Non era la mia prima visita in città; vi ero stata 10 anni prima; tuttavia, appena arrivata mi sembrò che la memoria mi tradisse fortemente. Mi ero fatta portare all’albergo dove avevo alloggiato la prima volta; ma il percorso mi era parso molto diverso da come me lo ricordavo; giunta a destinazione, non avevo riconosciuto né il quartiere, né la via.
Ricordavo case basse, filari di pioppi, carretti trainati da muli e risciò a motore. Adesso c’erano ampi marciapiedi, larghi edifici squadrati, automobili e taxi rossi. Non mi ricordavo i due aceri finti nell’aiuola accanto alla porta dell’albergo, uno dalle foglie di plastica verde smeraldo e l’altro rosso cardinale, né l’ascensore panoramico nell’atrio.
Non volevo stare lì. Avevo letto che c’era una pensione uigura nel cuore della città, nel groviglio di vicoli intorno alla grande moschea Id Kah. Ne avevo un ricordo vivido, perché 10 anni prima quello era il quartiere più interessante per il visitatore: vi pulsava la vita, piazza e strade erano un susseguirsi di botteghe e locali dove gli uiguri si ritrovavano a mangiare kebab, a fumare e bere innumerevoli bicchieri di tè. Ora camminavo nella via affollata, tra la polvere e il rombo di macchine al lavoro. A un certo punto mi apparve il vuoto: case sventrate, macerie, voragini, ruspe.
In un moncone di strada trovai finalmente la pensione uigura, ma il proprietario non volle accettarmi. Al vedere la mia sorpresa per un rifiuto che contraddiceva le millenarie leggi d’ospitalità, cercò la parola inglese, evidentemente detta ad altri prima di me, che spiegava tutto: polizia. Le autorità non vedono di buon occhio la presenza di stranieri in quel luogo.
DUE MONDI A PARTE
Difficile descrivere il senso di perdita che si percepisce nell’osservare un mondo che scompare. Kashgar, uno dei più grandi mercati dell’Asia Centrale, millenario centro sulla via della seta e cuore della cultura uigura, si sta trasformando a ritmo serrato in una modea città cinese.
Nella piazza-cantiere, davanti alla moschea, un cartellone illustra il progetto di ricostruzione dell’intera area. Accanto alla moschea, che non verrà abbattuta, sorgeranno modei edifici, un centro commerciale. Il pavimento verrà ben lastricato e in questo ambiente, finalmente nuovo, pulito e asettico, la popolazione potrà ritrovarsi per fare compere o godersi il fresco della sera.
Si può obiettare che Kashgar non è l’unica città soggetta a tali rivoluzioni urbanistiche. Ciò accade in molti altri centri della Repubblica Popolare, per ragioni che non sono sempre quelle di dare agli abitanti condizioni di vita migliori.
Spesso interi quartieri centrali sono spazzati via per far posto a uffici, grandi magazzini o edilizia di lusso; ma a Kashgar c’è un motivo in più per stravolgere lo spazio urbano: cancellae il volto centroasiatico, privare delle sue radici la popolazione di etnia turca, che non ha mai accettato di buon grado il dominio del governo cinese.
La nuova Kashgar è pacchiana e posticcia. Me ne sono resa conto meglio il giorno dopo il mio arrivo, alla luce del mattino. L’architettura è a effetto, con trovate di dubbio gusto e pretese di originalità, ma realizzata in economia; invecchierà in fretta.
La città uigura continua a vivere nelle stradine a sud della moschea, dove per il momento non sono arrivati i piani di ricostruzione. Lì ci sono gli artigiani con le loro botteghe, ci sono le rudimentali chaikhane, con pochi tavolini intorno a specie di enormi samovar alimentati a legna; lì si possono ancora vedere le insegne dei dentisti: uno spaccato di bocca che mette a nudo muscoli, cavità, orifizi, il tutto in colori diversi. Sotto, in vetrina, ci sono protesi e sacchetti di denti. Anche i sarti hanno le loro insegne: vestiti da donna, uomo o bambino, disegnati con poche ingenue pennellate.
Nelle giornate calde è un sollievo fermarsi a mangiare un dogh, sorta di granita fatta con ghiaccio, sciroppo e yogurt, in una gelateria improvvisata con due panche e un carrettino. Ricevuta l’ordinazione, il gelataio si affretta a preparare il miscuglio, rimestandolo a larghi gesti con un cucchiaione di legno; poi lancia il tutto a mezz’aria, proprio come si fa con le frittate, e lo riacchiappa con grande destrezza, senza versare neanche una goccia.
Kashgar è famosa per il mercato domenicale, la cui sezione più pittoresca è quella degli animali. Pastori e allevatori fanno chilometri per venire a portare qui le loro bestie. Adesso questa attività è stata relegata in un campo a qualche chilometro dalla città. Lì ritrovo l’animazione che ricordavo.
Quando arrivo nel grande recinto dove sono raccolti gli animali, le trattative sono in pieno corso, nelle varie sezioni in cui sono suddivisi gli animali: quella delle pecore e montoni, la più rappresentata, quella degli asini e delle mucche. C’è anche qualche cavallo, ma nessun maiale, naturalmente.
Terminate le trattative, non guasta un po’ di svago: ci si può far dare una ripulita dai barbieri, che hanno messo le loro sedie proprio davanti all’entrata del recinto, per poi concedersi un piatto di langhman, spaghetti serviti con un sugo alle verdure, e un bicchiere di tè nella trattoria accanto; da ultimo, giocare una partita a biliardo attorno ai tavoli piazzati in strada.
INCOMUNICABILITÀ
A Yarkant, un’oasi ai margini del Taklamakan, a quattro ore di autobus da Kashgar, l’aria del rinnovamento non soffia ancora. Qui la città cinese è cresciuta accanto a quella uigura, inizia esattamente dove l’altra finisce; le due comunità vivono gomito a gomito, ma è come se fossero a mille miglia di distanza, tanta è l’estraneità tra i due mondi.
La città cinese è attraversata da un ampio viale, che è anche l’arteria di collegamento con la parte uigura. Non appena vi si arriva, però, il viale si scioglie in un reticolo di stradine non asfaltate e polverose, gli autobus fanno dietro front e se ne tornano in fretta nella civiltà.
All’imbrunire la strada principale a ridosso della moschea si riempie di gente e, finalmente, appaiono i venditori ambulanti di specialità uigure, con un campionario di mercanzie, la cui varietà offusca quella di Kashgar: teste di montone bollite, polpettoni di riso, frattaglie cotte, pesce affumicato, specie di patate ovali bollite, di un rosso intenso.
I pastai tirano gli spaghetti per il langhman, mentre alcuni clienti hanno già affondato le loro bacchette nelle ciotole con le porzioni già pronte. I bambini fanno girare le trottole a suon di frustate, mentre i grandi si raccolgono attorno a un televisore, che un venditore intraprendente ha portato in strada per attirare i clienti e che alimenta con un rumoroso generatore.
Mi dispiace di non potere comunicare con la gente. In Cina le barriere linguistiche sono insormontabili; ma qui, nella città uigura, sento che c’è curiosità nei miei confronti: non abbiamo una lingua in comune, però me lo dicono i gesti e gli sguardi. Una donna mi fa cenno di sedermi accanto a lei; le sorrido, le faccio capire che apprezzo il suo invito, ma che non riuscirei a parlarle. Lei è contenta così, le basta aver attirato la mia attenzione.
È già scuro, too nella città cinese, al mio albergo cinese.
La vera incomunicabilità la sperimento qui. La mattina ho faticato a trovare un hotel. Uscita dalla stazione degli autobus ho girato a lungo col mio bagaglio avanti e indietro per il viale prima di infilarmi nel portone giusto. Non è solamente un problema di lingua e di alfabeto: non un gesto, non un cenno, non il minimo tentativo di cercare un contatto. Per fortuna non è sempre così, ogni tanto trovi chi tenta di aiutarti; ma spesso agli occhi dei cinesi mi sono sentita alla stregua dei muri delle case, materia inerte, priva d’interesse.
TRA GRATTACIELI E MUMMIE
A qualche ora di strada a sudest di Hotan parte una camionabile di recente costruzione, che consente di attraversare l’immensa distesa del deserto del Taklamakan, invece di girarci intorno. Così si può arrivare a Urumchi, la capitale del Sinkiang, in meno di 30 ore di autobus.
Urumchi è una modea città cinese; la presenza uigura è molto ridotta. Anche qui faccio fatica a orientarmi; i ricordi di 10 anni prima non mi sono di molto aiuto. Ho cercato di nuovo l’albergo dove ero stata in precedenza; ma al suo posto vi ho trovato un palazzo di 30 piani, bassettino, tutto sommato, rispetto a quelli che gli stavano crescendo intorno.
Urumchi ha una skyline da fare invidia a Manatthan e continua ad arricchirsi di nuovi grattacieli, sempre più alti e avveniristici. Anche case di media altezza non sono al sicuro dalla smania costruttrice degli amministratori locali.
«Se in questa remota provincia la corsa alla modeità ha raggiunto simili livelli di frenesia, cosa sta accadendo a Pechino?» mi chiedo; ma la mia fantasia non riesce a immaginare niente di plausibile. Molto meglio usare l’energia rimasta per andare a rivedere le mummie custodite nel museo locale: uomini, donne, bambini di tremila anni fa, perfettamente conservati dal clima asciutto del Taklamakan.
Il deserto li ha preservati con tale cura, che nulla è andato perduto: capelli, ciglia, sopracciglia, denti, occhi, abiti, monili. Nell’osservare le fattezze di quei volti provo un senso di vertigine: mi sento diventata d’un tratto testimone diretta di quella vita lontana, come se il tempo fosse stato d’improvviso risucchiato.
Così, viaggiando tra il xxi secolo e il 1000 a.C., sono arrivata all’aeroporto di Urumchi. L’edificio per i voli inteazionali è assai male in aese: niente a che vedere con il modeissimo terminal dei voli nazionali, che ho potuto ammirare da lontano.
Noi passeggeri del volo per Mosca ci accalchiamo davanti al check in senza quasi lo spazio di rigirarci con i nostri bagagli. Le operazioni d’imbarco, già lente, s’interrompono, perché tutti i computer sono andati in tilt. Nell’attesa che riprendano, do una sbirciata alla copia del China Daily, il giornale in inglese, che ho preso in albergo. Devo sfogliarlo tutto per trovare finalmente quello che sto cercando: le notizie dal mondo sono alle ultime due pagine.
Bianca Maria Balestra