HIROSHIMA E NAGASAKI
I loro nomi saranno uniti per sempre, memoriale e monito di come l’uomo sia capace di una incredibile distruzione e autodistruzione: Hiroshima e Nagasaki.
Ricordare i nomi delle due città giapponesi, le sole al mondo ad aver subito il bombardamento atomico, significa «aborrire la guerra nucleare e impegnarsi per il futuro e per la pace», rifiutare la «potenza nucleare come mezzo per mantenere l’equilibrio del potere attraverso l’equilibrio del terrore» affermava Giovanni Paolo ii il 25 febbraio 1981, davanti al Peace Memorial di Hiroshima.
Lo sanno tutti cosa è capitato in quelle due città; ma conviene sempre rinfrescare la memoria.
I l 25 luglio 1945, una gelida nota del comando militare Usa dirama il seguente comunicato: «La 20a unità delle forze aeree sgancerà la sua prima bomba speciale, appena le condizioni atmosferiche lo permetteranno, all’incirca dopo il 3 agosto 1945, su uno di questi obiettivi: Hiroshima, Kokura, Niigata, Nagasaki. Per permettere agli scienziati militari e civili di registrare gli effetti dell’esplosione, un ulteriore velivolo accompagnerà l’aeroplano che trasporterà la bomba».
Il lunedì 6 agosto mattino, un quadrimotore B29, battezzato Enola Gay, si leva in volo da Tinian, con a bordo 12 uomini di equipaggio e il Little Boy (bambino, ragazzino): si tratta di una bomba lunga tre metri e 5 tonnellate di peso, caricata con 10 kg di uranio 235, la cui potenza distruttiva è valutata in 13 mila tonnellate di Tnt (trinitrotoluolo-toluene).
L’obiettivo non è precisato nel piano di volo; lo sceglierà uno degli aerei meteorologici che lo precedono, a seconda delle condizioni atmosferiche. All’altezza di Iwo Jima, arriva l’atteso bollettino: «Nagasaki coperto totalmente, Hiroshima visibilità dieci miglia».
Alle 7.59 l’aereo raggiunge l’obiettivo; alle 8,15 il pilota Thomas Wilson Ferebee apre il portellone e lascia cadere nel vuoto il Little Boy. La bomba scende in picchiata. L’aereo ha 45 secondi per allontanarsi. Gli uomini sottovoce contano i secondi, poi un lampo accecante: si eleva una sfera di fuoco del diametro di 600 metri, il cui centro ha una temperatura di 100 milioni di gradi.
Dopo 7 secondi un rimbombo assordante rompe l’innaturale silenzio. Dal punto dello scoppio si sprigiona una colonna di fumo, vapore e polvere, che s’innalza verso il cielo e dilata la sua cima fino ad assumere la forma di un fungo. L’esplosione demolisce gli edifici nel raggio di tre chilometri; la devastazione si allarga su una superficie di dodici chilometri quadrati: saltano le condutture, scompaiono intere strade, dal cielo cadono goccioloni enormi e viscidi; le acque dei canali straripano invadendo il deserto di macerie.
In pochi istanti 71 mila giapponesi sono vaporizzati; 20 mila moriranno nella notte; altri 60 mila nel corso dell’anno; oltre 100 mila i feriti, su una popolazione di circa 245.000 abitanti.
In quella «fine del mondo», come è ribattezzato quel 6 agosto 1945, si vedono i sopravvissuti vagare come fantasmi, pelli bruciate che si staccano dai corpi, madri che stringono al petto i figli carbonizzati, disperati che si suicidano.
Oltre 4.800 reperti, conservati nel Museo della bomba atomica di Hiroshima, parlano ancora degli effetti devastanti di quell’inferno.
Il 9 agosto, alle ore 12.00, Bock’s Car, un altro B29, sgancia la seconda bomba atomica, al plutonio, detta Fat Man (grassone, ciccione), questa volta su Nagasaki. Gli effetti sono identici: la città interamente distrutta, 41 mila morti e 70 mila ustionati gravi, anch’essi destinati a una lunga agonia.
Ai morti e feriti delle due bombe vanno aggiunte le devastanti conseguenze genetiche su migliaia di migliaia di altre persone, su animali e piante dei territori circostanti prodotte dalle esplosioni nucleari.
I l 14 agosto 1945 l’imperatore giapponese firma la resa. Gli americani continuano l’occupazione fino al 1948. Il trattato di San Francisco del 1951 restituisce formalmente la sovranità ai nipponici e la possibilità di ricostituire una forza militare di polizia, ma la politica giapponese rimane subalterna alle direttive di Washington, nonostante le proteste di piazza degli anni ‘70.
Anzi, il filo che lega il Giappone agli Usa diventa sempre più solido, fino ad appoggiare la guerra in Afghanistan e inviare truppe in Iraq.
Dal 3 novembre 1946, data di nascita della Costituzione giapponese, nessun soldato delle Forze di difesa interna ha messo piede fuori dall’isola. L’articolo 9 sancisce: «Aspirando sinceramente a una pace internazionale basata sull’ordine e la giustizia, la popolazione giapponese rinuncia per sempre alla guerra come un diritto sovrano della nazione e all’uso della forza per sedare le dispute internazionali».
Il premier Koizumi, però, si è creato una legge di durata biennale che prevede la possibilità d’inviare truppe per «speciali misure di intervento umanitario e di ricostruzione» nelle zone devastate dalla guerra. Così un contingente di 1.000 soldati è atterrato a Balad, in Iraq, a fianco degli americani.
Il tabù è rotto. Ma cosa pensano i cittadini giapponesi del fatto di trovarsi a combattere a fianco della stessa potenza che ha fatto vedere loro la «fine del mondo» e che sta sperimentando nuove armi nucleari miniaturizzate, ma altrettanto devastanti di quelle di 60 anni fa?
B.B.
B.B.