DOSSIER GIAPPONE… E la chiamarono
Richieste di pace del Giappone prima del lancio delle bombe
Recenti documenti rivelano che l’ecatombe di Hiroshima e Nagasaki poteva essere evitata: il delirio di onnipotenza degli scienziati, il cinismo degli Alleati, la corsa al bottino tra Usa e Urss resero vani i tentativi diplomatici.
Alamogordo, New Mexico: 16 luglio 1945, ore 5, 29 minuti e 45 secondi del mattino.
La terra sussulta in un ultimo spasmo. Poi un bagliore accecante si sprigiona dalle sue viscere, come se un nuovo sole dovesse essere partorito. Pochi secondi dopo, tornato il silenzio, una voce riprende a parlare:
«Ora sono diventato morte, il distruttore dei mondi».
Versi della Bhagavad Gita, ma chi li pronuncia non è Vishnu, bensì J. Robert Oppenheimer, lo scienziato direttore di Los Alamos, nei cui laboratori è stata progettata e costruita la prima bomba atomica.
La citazione sacra non era solo il frutto dell’emozione del momento. La manipolazione e l’«addomesticamento» dell’atomo, avevano creato nelle menti della società scientifica, militare e politica statunitense, un senso di onnipotenza che portava ad innalzare l’uomo al pari di Dio. Non è certo un caso che, nella storia della più terribile arma di distruzione di massa ideata dalla «bestia umana», i riferimenti religiosi trabocchino.
«Come sono uno Oriente e Occidente
Nella piattezza delle carte e mia
Così la morte e la resurrezione».
Questa poesia di John Donne, intitolata Inno al Signore mio Dio nella mia infermità, aveva convinto Oppenheimer a dare al test di Alamogordo il nome di «Trinità».
La bomba, agli occhi di molti, tra cui lo stesso Oppenheimer, sarebbe stata così potente da mietere talmente tante vittime, che i giapponesi avrebbero chiesto la resa e posto finalmente fine alla guerra del Pacifico. L’uomo era colui che aveva creato la morte e la resurrezione. Il nuovo Dio in terra.
E il 16 luglio 1945, l’era nucleare ebbe inizio. Un’era lastricata di vite umane, ma che, come dimostrano i documenti recentemente resi noti dal Dipartimento di Stato americano, avrebbe potuto essere ben diversa, se solo si fosse voluto aprire uno spiraglio di dialogo.
IL CONTO ALLA ROVESCIA
Il 9 marzo 1945, gli Stati Uniti avevano lanciato su Tokyo un raid con 325 bombardieri, radendo al suolo 267 mila edifici e uccidendo in poche ore 89 mila persone, con la speranza che questo inducesse il governo imperiale alla resa immediata.
L’obiettivo di Roosevelt era quello di evitare una Yalta asiatica, così da impedire la spartizione delle sfere d’influenza con l’Urss di Stalin.
Il 12 maggio, quattro giorni dopo la fine della guerra in Europa, il rappresentante giapponese in Svizzera, Shunichi Kase, fece sapere a William Donovan, direttore dell’Ufficio servizi strategici, che il suo governo sperava di «trovare un accordo che permettesse di cessare le ostilità». Era il primo dei numerosi segnali di trattativa lanciati dai nipponici agli Alleati.
Ma a quel tempo, il comitato atto a scegliere gli obiettivi dei lanci atomici (si parlava già al plurale), si era riunito indicando una serie di città su cui scatenare la furia atomica: Kyoto, Hiroshima, Kokura e Niigata. Di queste se ne sarebbero scelte due. Il conto alla rovescia era partito e il punto di non ritorno superato.
Già il 1 giugno 1945 il Comitato ad interim affermava che la «selezione finale degli obiettivi è una decisione essenzialmente militare. L’opinione del Comitato è che le bombe devono essere usate contro il Giappone il più presto possibile; devono essere usate contro una fabbrica di guerra, circondata dalle case dei lavoratori e devono essere usate senza avvertimenti».
Il 31 maggio, l’Ufficio dei servizi strategici, ricevette da un diplomatico giapponese in Portogallo una proposta di pace in cui, come unica condizione richiesta, non apparisse il termine «resa incondizionata».
Sulla base di questi nuovi sviluppi, lo stesso giorno, John McCloy, assistente al segretario della guerra Henry Stimson, suggeriva al suo diretto superiore di iniziare a intavolare negoziati con il Giappone, eliminando, appunto, l’espressione avversata da Tokyo: «Resa incondizionata – affermava McCloy -, è una frase che implica la perdita della faccia e io mi chiedo se non potremo rivolgerci al Giappone senza l’uso di tale termine».
Lo stesso Joseph Grew, vice segretario di Stato, confidò a Truman, succeduto alla Casa Bianca il 12 aprile subito dopo la morte di Roosevelt, che «il più grande ostacolo alla resa incondizionata del Giappone è la convinzione che una resa in questi termini porterebbe alla distruzione e alla rimozione permanente dell’imperatore e dell’istituzione imperiale. Se riuscissimo a dare qualche indicazione ai giapponesi che essi, una volta arresi e resi impotenti militarmente, potranno da soli determinare il futuro della loro struttura politica, affronteranno la possibilità di arrendersi salvando la faccia».
EVITARE L’UMILIAZIONE
Sul fronte scientifico, Leo Szilard, assieme a Walter Bartky e Harold Grey, tutti scienziati che avevano lavorato al «Progetto Manhattan», chiesero al segretario di Stato Jimmy Byes di mostrare a una delegazione giapponese il potenziale distruttivo della bomba atomica, in modo da facilitare eventuali trattative di pace.
La stessa richiesta, questa volta diretta a Stimson, venne ripetuta il 27 giugno 1945 dal sottosegretario della Marina Ralph Bard.
All’inizio di luglio, la volontà di Tokyo a porre la parola fine alla guerra si fece più concreta. Una serie di dispacci tra il ministro degli Esteri Shigenoria Togo e l’ambasciatore imperiale a Mosca, Sato, furono intercettati dai servizi statunitensi. In queste missive, Togo chiedeva a Sato di conferire urgentemente con il ministro degli Esteri sovietico, Molotov, per avviare una serie di colloqui:
«Dato che stiamo segretamente prendendo in considerazione la fine della guerra – scriveva Togo -, deve estendere la nostra volontà alla Russia, perché si faccia portavoce (presso gli Alleati) della nostra volontà.
Sua Maestà l’Imperatore, preoccupato del fatto che la presente guerra porta gioalmente grandi sacrifici ai popoli di tutte le potenze belligeranti, desidera dal suo cuore che essa termini velocemente. Ma dato che l’Inghilterra e gli Stati Uniti insistono sulla resa incondizionata, (…) l’Impero giapponese non ha altra alternativa se non quella di combattere con tutte le sue forze per l’onore e l’esistenza della madrepatria. Sua Maestà è profondamente recalcitrante a versare altro sangue tra i popoli di entrambi i fronti; per questa ragione, ed è questo il suo desiderio, chiede di restaurare la pace il più presto possibile per il bene dell’umanità».
I messaggi tra i due diplomatici continuarono per tutto il mese, captati dagli statunitensi.
Vista la riluttanza di Mosca nell’incontrare l’inviato imperiale, il 13 luglio Togo spronò Sato a perorare la causa di pace presso il Cremlino:
«Chiarisca che l’incontro con l’inviato speciale permetterà a Stalin di conquistare la reputazione di paladino della pace mondiale e, inoltre, siamo pronti ad accettare tutte le richieste dei russi in Estremo Oriente».
Ci furono delle aperture anche verso gli Stati Uniti, sulla base di intercettazioni giapponesi di messaggi tra ufficiali della marina americana:
«Il 19 (luglio), il capitano della Marina, Zacharias, ha detto che il Giappone ha due sole alternative:
1. essere sottomesso a una pace imposta dopo essere stato distrutto;
2. arrendersi senza condizioni e ricevere i benefici della Carta Atlantica.
Il fatto che gli americani abbiano alluso alla Carta Atlantica, è particolarmente degno di attenzione in questo periodo. È impossibile per noi accettare la resa incondizionata (…) ma è nostra intenzione informarli (…) che non vi sono obiezioni alla restaurazione della pace sulla base della Carta Atlantica. Il vero punto critico è l’insistenza del nemico di imporre la resa incondizionata. Se l’America e l’Inghilterra si fossilizzano su questo punto, l’intero progetto si infrangerà inevitabilmente su questo scoglio».
L’ambasciatore Sato rispose a Togo che era impossibile chiedere ai sovietici di rompere l’intendimento con gli Alleati circa la resa incondizionata.
TRIONFA LA LINEA DURA
Ma anche nel fronte alleato continuarono a esserci delle obiezioni sulla linea dura mantenuta da Washington e Londra. Il 9 giugno George Marshall, capo dello staff militare, scrisse un memorandum a Stimson, in cui si chiedeva di «cessare di parlare di resa incondizionata del Giappone e cominciare a definire i nostri veri obiettivi in termini di difesa e di disarmo»; mentre il 18 giugno l’ammiraglio William Leahy, sul suo diario personale annotava che «una resa del Giappone può essere discussa entro i termini che possono essere accettati dal Giappone e che soddisfino pienamente il desiderio di difesa dell’America contro una futura aggressione trans-pacifica».
Infine, il 20 giugno 1945 anche l’US Strategic Bomb Survey notava che «l’Imperatore, appoggiato dal premier, dal ministro degli Esteri e da quello della Marina, è favorevole alla pace; il ministro dell’Esercito e i due capi dello Staff Militare, invece, non concordano».
Ma l’evento che avrebbe potuto cambiare le sorti della guerra giunse il 7 luglio. Quel giorno Byes ricevette dal vice segretario di Stato, Joseph Grew, un telegramma che lo informava di un’apertura formulata dall’addetto militare giapponese a Stoccolma, generale Onodera, il quale offriva un negoziato di pace con gli Alleati, nel caso gli Stati Uniti avessero garantito il mantenimento dell’istituzione imperiale.
Ma oramai Truman e il suo staff avevano preso una decisione da cui non volevano recedere. A nulla valse l’estremo tentativo di Leo Szilard e altri 155 scienziati del Progetto Manhattan, che, il giorno dopo il Trinity Test, scrissero una petizione al presidente in cui lo si invitava a «esercitare il suo potere di comandante in capo per far sì che:
1. gli Stati Uniti non ricorreranno all’uso delle bombe atomiche in guerra, a meno che, una volta che i termini imposti siano stati resi pubblici nel dettaglio e portati a conoscenza del Giappone, questi rifiuti di arrendersi;
2. che la decisione di usare o meno le bombe atomiche sia presa da lei in persona, in base alle considerazioni presentate in questa petizione, così come le responsabilità morali involte».
Il 18 luglio, all’apertura della Conferenza di Potsdam, Truman e James F. Byes sondarono l’atteggiamento di Stalin nei confronti di Tokyo. Nel diario di Walter Brown, assistente speciale di Byes, si legge: «Stalin ha rivelato che il Giappone ha chiesto di mandare una missione a Mosca per un colloquio di pace. Ha inoltre detto che l’Imperatore non vuole continuare lo spargimento di sangue, ma esclude ogni termine che indichi una resa incondizionata. JFB (James F. Byes) ha chiesto a Stalin se c’era qualche mutamento nella politica russa verso la resa incondizionata. Stalin ha replicato: “Nessun cambiamento”; inoltre ha riferito che, a meno che Stati Uniti e Gran Bretagna abbiano altri suggerimenti, risponderà che non c’è nulla di specifico nella proposta giapponese e non c’è bisogno di una conferenza. Stalin ha affermato di credere che il Giappone pensi che la Russia stia entrando in guerra perché ha visto troppi movimenti di truppe russe al confine. Infine Stalin ha informato che non saranno pronti ad attaccare il Giappone prima del 15 agosto».
PER NON SPARTIRE IL BOTTINO
Il 15 agosto! Occorreva quindi stringere i tempi per evitare di dividere il bottino con Mosca.
Il 21 luglio, infatti, Truman autorizzò l’uso delle bombe atomiche. Quattro giorni dopo lo stesso Presidente ricordò nel suo diario: «Ho riferito al segretario della Guerra Stimson di usarle (le bombe atomiche) in modo che gli obiettivi siano militari e non le donne e i bambini. Anche se i giapponesi sono selvaggi, rudi, crudeli e fanatici, noi, in quanto leaders del mondo, per il bene comune non possiamo lanciare queste terribili bombe sulla vecchia capitale o sulla nuova».
Il 26 luglio la Dichiarazione di Potsdam intimava di «proclamare la resa incondizionata immediatamente di tutte le Forze Armate giapponesi».
Il capitolo era ormai chiuso.
Il 6 agosto 1945, 9 giorni prima del termine predetto da Stalin dell’entrata in guerra dell’Urss contro il Giappone, «Little Boy» venne sganciata su Hiroshima.
L’8 agosto Mosca dichiarò guerra a Tokyo e il giorno successivo, il 9 agosto 1945, il B-29 Bockscar, alle 9 e 44 del mattino sorvolò Kokura per sganciare «Fat Man».
Ironia della sorte: la città era avvolta dal fumo dei bombardamenti scatenati dai raids americani in una città limitrofa. Fu così che venne ridisegnato l’obiettivo: non più Kokura, ma Nagasaki.
L’ecatombe era compiuta. •
Piergiorgio Pescali