I confini del Sahel sono «porosi» e lasciano passare
di tutto: dal contrabbando ai terroristi.
In quest’angolo di deserto, ricco di petrolio, gli Usa hanno lanciato la Trans Sahara Counter Terrorism Initiative e hanno iniziato ad addestrare i militari
di Mali, Mauritania, Niger e Ciad. Ma tale iniziativa
si sovrappone a una serie di conflitti, più o meno latenti, che fanno dell’Africa occidentale,
a maggioranza musulmana, una zona complessa
e delicata. E rischia di causare un incendio.
La strada sembra allungarsi a ogni passo, come se scivolasse verso l’orizzonte tremolante, disciolta dalla canicola. Basta fermarsi e distrarsi un attimo per non avere più chiaro da dove si viene e in che direzione si sta andando.
«È come essere nel bel mezzo del nulla» spiega Amaka Megwalu, ragazza statunitense di origine nigeriana, che si trova in Senegal per un tirocinio estivo presso un’organizzazione non governativa con sede a Dakar. Accompagna le parole con ampi gesti del braccio, indicando un punto lontano nel deserto, che lei ha potuto solo immaginare. Perché quello che ha avuto nel nord del Senegal non è che un assaggio, innocuo e circoscritto, della landa polverosa che si estende dall’Atlantico al sud dell’Egitto, passando per la Mauritania, Mali, Niger, Ciad e Sudan.
CONFINI DA… «RIPULIRE»
Il Sahel, che significa «al limite del deserto», è l’anticamera del Sahara: la cintura che separa l’Africa tropicale dal mare di sabbia. Una terra dai «confini porosi», come l’ha definita il cornordinatore dell’antiterrorismo del dipartimento di Stato Usa, Karl Wycoff. Su tali confini vegliano soldati infiacchiti e mal equipaggiati, che si contendono gli spiccioli estorti ai viaggiatori.
Attraverso queste frontiere passano ogni giorno, e da secoli, carovane e contrabbandieri, che ai cammelli hanno ormai affiancato camion traboccanti di merci, che portano da un capo all’altro del Sahel storie e notizie raccolte lungo la strada.
Ma ciò che ha attirato l’attenzione di Washington non sono i tradizionali viaggiatori del deserto, bensì i nuovi carovanieri che da qualche anno attraversano queste stesse frontiere: mercanti di droga, schiavi, armi e diamanti, immigrati clandestini all’inseguimento del sogno europeo, ma soprattutto terroristi, impegnati in scorribande o alla ricerca di luoghi remoti e sicuri per costruire campi di addestramento dove dedicarsi al reclutamento di nuovi combattenti.
I membri dell’intelligence statunitense sono convinti che i terroristi responsabili dell’attentato a Madrid dell’11 marzo 2004 abbiano «un legame con il Nord Africa» e che il limitrofo Sahel si stia trasformando in un nuovo Afghanistan. «Vogliamo prevenire il rischio – dichiara il capo dell’antiterrorismo del Comando militare statunitense in Europa, il colonnello Powl Smith – per evitare di dover intervenire direttamente in Nord Africa come abbiamo fatto in Afghanistan». Per questo il dipartimento di Stato Usa ha deciso di irrompere nella millenaria immobilità del deserto, lanciando, nel novembre del 2002, la Pan Sahel Initiative, ora ribattezzata Trans Sahara Counter Terrorism Initiative. La sua messa in atto è cominciata nei primi mesi del 2004 e prevede l’addestramento di truppe scelte degli eserciti di Mali, Mauritania, Niger e Ciad, per aumentare l’efficienza nel controllo dei confini e «ripulire» la regione dagli islamisti radicali.
«Mettendo gli eserciti locali in grado di combattere da soli – prosegue il colonnello Smith – gli Usa non potranno essere usati come un parafulmine per la rabbia popolare della quale gli estremisti potrebbero approfittare».
OCCHIO AL PETROLIO!
Washington ha ottimi motivi per preoccuparsi dell’Africa occidentale: secondo le stime dello stesso dipartimento dell’energia Usa, entro dieci anni un quarto del fabbisogno statunitense di greggio sarà soddisfatto proprio dai barili provenienti da questa regione del mondo.
Ma questa milionaria operazione di Washington (il budget iniziale di 6,25 milioni di dollari ha raggiunto i 125 milioni in 5 anni) si svolge su un terreno reso instabile proprio dai fiumi di petrolio che scorrono nel sottosuolo. La presenza dell’oro nero, infatti, provoca precarie alleanze e una costante imminenza di conflitti, legata a una logica immutabile che tuttora informa l’agire dei governi della regione, combinando la legge del più forte con la tendenza a vendersi al miglior offerente.
«Noi senegalesi non abbiamo niente: né oro, né petrolio, né diamanti. Solo arachidi e spiagge – constata con amara ironia madame Diakhoumpa, ricca dakaroise che affitta case ai funzionari inteazionali -. È per questo che ci hanno lasciato in pace. Ma tutto intorno a noi c’è guerra, fame, miseria».
La scoperta di nuovi giacimenti petroliferi in Africa occidentale rischia di replicare in tutta la regione le tensioni che da anni fanno della Nigeria, sesto produttore mondiale di petrolio, uno stato altamente instabile e percorso da conflitti che appaiono sempre più insanabili.
Accanto ai massacri nello stato federale centro-orientale del Plateau (effetto di reciproche rappresaglie tra le etnie di agricoltori stanziali tarok, di fede cristiana, e i pastori nomadi musulmani hausa fulani), la Nigeria paga un elevato tributo in termini di vite umane anche a causa della lotta senza quartiere che oppone l’esercito nigeriano ai pirati del petrolio: secondo le stime del colosso energetico Shell, viene sottratta una quantità di greggio pari a 60 mila barili al giorno.
«I gruppi criminali stanno aumentando di dimensioni e sono sempre meglio organizzati» rivela un abitante della città costiera Port Hancourt a Katharine Houreld del Guardian. «Ora non hanno più bisogno dell’appoggio dei politici, rubano oro nero e comprano armi autonomamente, e si stanno trasformando in vere e proprie milizie. Se le cose continuano così, il delta del Niger sarà una zona di guerra durante le prossime elezioni».
Visto il tragico precedente rappresentato dalla Nigeria, è ovvio che l’entrata in funzione dell’oleodotto, che collega il Ciad ai porti atlantici del Camerun, sollevi più di qualche perplessità quanto agli effetti che la sua presenza produrrà sulla stabilità della regione.
Il progetto, costato 3,2 miliardi di euro, rappresenta il più grande investimento della Banca mondiale nell’Africa sub sahariana: voluto nel 1996 dall’amministrazione statunitense del presidente Bill Clinton, l’oleodotto è stato sviluppato da un consorzio internazionale guidato dal gigante petrolifero Exxon Mobile, con la partecipazione di Petronas e Chevron Texaco.
Nel corso dei prossimi 25 anni, i proventi della produzione di greggio dovrebbero fruttare 2 miliardi di dollari al Ciad e 500 milioni al Camerun, risorse che i due stati si sono impegnati a investire nel miglioramento del sistema sanitario ed educativo, oltreché nello sviluppo di progetti agricoli.
IL CIAD INSEGNA…
Ma dare per scontato che queste promesse saranno mantenute significa sottovalutare le complessità delle dinamiche politiche africane e non tenere in considerazione l’intreccio contraddittorio e la volatilità degli equilibri politici della regione.
Il presidente ciadiano Idriss Déby, per esempio, si trova attualmente nel bel mezzo di una impasse le cui conseguenze possono travalicare i confini del suo paese e rischiano di mettere in discussione la sua stessa autorità.
La confinante zona del Darfur, regione occidentale del Sudan, è infatti da tempo insanguinata dai massacri compiuti dalle milizie arabe e musulmane janjaweed ai danni della popolazione nera, anch’essa di fede islamica. Più di un’autorevole fonte sostiene che sia proprio il governo sudanese a sostenere i «fucilieri a cavallo» (questa la traduzione del nome janjaweed) contro i gruppi ribelli presenti nel Darfur. Senonché la furia dei miliziani arabi si è scagliata sempre più spesso contro la popolazione civile, in particolare contro l’etnia zaghawa.
Ed è a questo punto che il Ciad entra in scena nel conflitto sudanese: il presidente ciadiano Déby, infatti, appartiene proprio all’etnia zaghawa, che vive in una zona a cavallo del confine tra i due paesi.
Secondo un recente rapporto della Banca mondiale, Déby sta subendo forti pressioni da parte della sua élite militare (anche questa di etnia zaghawa), affinché invii l’esercito ciadiano a difendere i «fratelli» sudanesi dalla ferocia dei janjaweed.
Si tratterebbe, dunque, per il presidente Déby, di lanciarsi in un clamoroso voltafaccia a Khartoum, nonostante il debito di riconoscenza nei confronti del presidente sudanese Omar Hassan Al Bashir, grazie all’appoggio del quale Déby era arrivato al potere in Ciad nel 1990.
La Pan Sahel Initiative, dunque, al di là delle parole e delle intenzioni del colonnello Smith, si innesta in una realtà tutt’altro che trasparente, dove l’addestramento militare viene fornito a eserciti di paesi percorsi da profonde contraddizioni politiche, inclini ai reciproci regolamenti di conti e propensi a interferire l’uno negli affari interni dell’altro, in maniera spesso sotterranea e incontrollabile. Tanto più che, paradossalmente, il più grande successo, per quanto riguarda la lotta ai gruppi terroristici che operano nel Sahel, lo ha ottenuto finora non l’esercito regolare ciadiano, bensì i ribelli di un brancaleonesco «Movimento per la democrazia e la giustizia in Ciad», che ha catturato, nel marzo del 2004, un gruppo di appartenenti all’algerino «Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento» (Gspc), sedicente affiliato di Al Qaeda e bersaglio dichiarato della Pan Sahel Initiative.
L’OMBRA DI BIN LADEN
Che i membri di Al Qaeda siano presenti in Africa occidentale non è una novità; così come sono da tempo noti i legami del Gruppo salafita con gli uomini di Osama bin Laden. «Fu l’allora capo del Gspc, Nabil Sahraoui – scrive il giornalista algerino Cherif Ouazani – che negli anni ’90 favorì l’infiltrazione in Algeria del messo di Bin Laden, Abdelaziz el Moukrine, e che lo aiutò a lasciare indisturbato il paese, quando Moukrine fu incaricato di organizzare il jihad in Arabia Saudita».
Il Gruppo salafita aveva goduto momenti di effimera notorietà, nel 2003, dopo essersi reso responsabile del sequestro di una trentina di turisti europei nel Sahara. I turisti furono rilasciati dietro il pagamento di un riscatto di 8 milioni di dollari, corrisposto dal governo tedesco, grazie al quale il Gspc aveva potuto rimpinguare il proprio arsenale.
Il protagonista dell’operazione fu Amari Saifi, ex paracadutista delle forze speciali algerine, convertitosi al terrorismo con il nome di Abderrezak el Parà, figura di spicco del Gspc, divenutone l’emiro dopo la morte di Sahraoui.
Proprio El Parà era alla guida del manipolo catturato nel marzo 2004 dai ribelli ciadiani. La sua cattura ha dato origine a una serie di trattative incrociate tra i governi di Ciad e Algeria, in cui è intervenuto anche il presidente della Libia Muhammar Gheddafi, da mesi impegnato a compiacere i governi occidentali, che gli hanno di recente concesso una sorta di riabilitazione internazionale, dopo averlo per anni considerato un nemico irriducibile.
La faccenda della consegna di El Parà aveva assunto i tratti di una telenovela: il governo algerino rifiutava di trattare con i ribelli ciadiani e faceva invece pressioni sul presidente Déby, dal canto suo incapace di imporre la propria volontà ai ribelli; fino alla pirotecnica entrata in scena del colonnello Gheddafi, che minacciò di intervenire militarmente, se El Parà non fosse stato consegnato alle autorità algerine.
TERRORISMO: FINCHE’ DURA…
Il risultato di un tale bailamme, nel corso del quale nessuno ha dato prova convincente di essere davvero interessato a catturare il terrorista, è stato quello di far sorgere dubbi sulle effettive intenzioni dei governi coinvolti, fino a suggerire un loro uso strumentale della campagna antiterrorismo americana.
«Abbiamo finito per pensare che nessuno degli stati africani vuole El Parà e che è nell’interesse di tutti lasciarlo libero di muoversi nel Sahel – ha dichiarato caustico l’incaricato degli Affari esteri del movimento ribelle ciadiano, Brahim Tchouma, alla ricerca di un riscatto per l’ostaggio -. Se venisse arrestato o ucciso, infatti, si interromperebbero anche i crediti americani che sono stati stanziati per combatterlo».
Il paradosso è evidente: se l’interpretazione data da Tchouma è corretta, i governi della regione, che ricevono denaro e mezzi finché esiste una minaccia terroristica da contenere, avrebbero interesse ad alimentare proprio quell’insicurezza che il governo Usa vuole ridurre con la Pan Sahel Initiative.
El Parà è stato rimesso alla custodia algerina nel novembre del 2004. Ciononostante, i vertici militari del Comando statunitense in Europa hanno ammesso che la loro iniziativa stenta a dare i frutti sperati. «Il problema – scrive il giornalista del New York Times Douglas Farah – è che gli Usa non stanno compiendo nessuno sforzo per competere sul piano delle idee». Viene lasciato il campo libero proprio a quei gruppi islamisti che trovano, specie nella rabbia dei giovani africani, terreno fertile per la propria predicazione.
FANATISMO E CORRUZIONE
Da mesi, ormai, c’è un regolare afflusso verso l’Arabia Saudita di studenti coranici, nigeriani e non solo, che vanno a perfezionare la propria preparazione in Medio Oriente e poi rientrano in Africa per fare proseliti. E il livello di fanatismo ha raggiunto vette preoccupanti proprio in Nigeria, dove gli estremisti musulmani avevano diffuso la voce che i vaccini antipolio, messi a disposizione dagli operatori umanitari occidentali, fossero in realtà un veleno, che avrebbe reso sterili i maschi musulmani, esortando così i genitori a non far vaccinare i propri figli.
Il fanatismo religioso e la corruzione dilagante in Africa occidentale finiscono poi per intrecciarsi con reciproca soddisfazione: celebre è l’episodio, riportato da Douglas Farah, del sodalizio tra l’ex presidente della Liberia Charles Taylor e gli emissari di Al Qaeda: questi avrebbero potuto contare sull’appoggio del liberiano per avviare un florido commercio di diamanti provenienti dalla Sierra Leone.
La compravendita di gemme aveva lo scopo di permettere ad Al Qaeda di diversificare le proprie risorse finanziarie e di svuotare i conti correnti non ancora scoperti e fatti congelare da Washington, come rappresaglia agli attacchi alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998.
Si trattava di una colossale manovra di pulizia di denaro sporco, attraverso gli stessi canali usati dal movimento sciita libanese hezbollah, la cui presenza in Africa occidentale è di ben più vecchia data. A fare da intermediario a tutta l’operazione c’era il senegalese Ibrahim Bah, mercenario addestrato in Libia, che aveva combattuto negli anni ’80 in Afghanistan contro i sovietici e poi in Libano al fianco degli hezbollah. Lo stesso Taylor ottenne per il disturbo una notevole somma di denaro.
Non stupisce che, inserita in una rete di relazioni così fitta e insidiosa, la Pan Sahel Initiative non decolli: presidiare un mare di sabbia è una contraddizione in termini. Specialmente quando quel mare è solcato da flotte di combattenti della religione e del petrolio, che si alleano e si tradiscono in modo del tutto imprevedibile e sotterraneo. Viene da chiedersi se gli Usa hanno davvero imparato la lezione dell’Afghanistan: quella di non armare i loro futuri nemici.
Mercella Federici