ESPERIENZA ITALIA: Novizi fuori le mura

Sei novizi dei missionari della Consolata, tre italiani e tre coreani, si «allenano» alla missione ad gentes, cioè ad andare al di là delle frontiere, discriminazioni, condizionamenti politici e sociali, dentro il cuore
della gente… 15 giorni a Platì
è parte di tale allenamento.

La vita del novizio, si sa, ha una programmazione ben precisa e strutturata. Tuttavia, i sei giovani del noviziato di Rivoli, tre italiani e tre coreani, hanno aperto una breccia nel muro «protettivo» e, accompagnati dal loro formatore, si sono recati nella Locride (Calabria), più precisamente a Platì, ai piedi dell’Aspromonte.
Per 15 giorni sono vissuti accanto a due missionari della Consolata, i padri Enrico Redaelli ed Emanuele Maggioni, per apprendere «il mestiere» e sperimentare se stessi in quella vita alla quale si stanno preparando giorno dopo giorno: la missione.
Hanno visto, sentito, toccato con mano. Da veri discepoli, hanno camminato accanto a missionari già sperimentati. A Natile Nuovo sono stati alloggiati in una casa – quella di Maria Zagaglia – che sembrava un prolungamento della casa di Betania, dove il maestro Gesù era accolto con calda ospitalità.
Si sono trovati immersi nella religiosità popolare, nelle sue espressioni più dense del triduo pasquale: si sa, «il religioso» esprime la radice più arcaica e le vibrazioni più sacre di un popolo.
Quindici giorni sono pochi, ma è un «assaggio» per apprezzare, incuriosirsi, dialogare, e, soprattutto, ascoltare. Sì, ascoltare, quell’atteggiamento di stupore, che sa di riverenza, di «stare-accanto», mediante il quale si crea un’osmosi d’intesa, di rispetto, travasamento di persone a partire dalla loro più profonda interiorità.
Un’esperienza di «missione» che lasciamo raccontare ai protagonisti.

Missione è… uscire dalla propria casa. Abituati all’ordine e puntualità, a prevedere ogni dettaglio della vita comune e programmare con scrupolo il da farsi per non girare a vuoto, l’esperienza di Platì, ci ha fatto piombare di colpo nella «programmazione da affanno». Sono saltati e quasi schizzati appuntamenti, orari, agende.
Si è realizzato tutto e anche più del previsto. Ma ognuno di noi si è sentito chiamare in causa per dare il meglio di sé, estrarre dal profondo motivazioni e convinzioni, adattarsi alla realtà presente e non cercare quella immaginata e preventivata.
In questo bagno improvviso di adattabilità, fuori dalla pace e quiete del noviziato e dei ritmi comunitari, è stato necessario «arrangiarsi» per strappare spazi di preghiera, silenzio interiore e formazione personale, per «ricaricare» le pile che fanno girare la missione. L’imprevisto sembrava il tessuto quotidiano e bisognava farvi fronte… uscendo di casa!
Che cosa mi ha maggiormente impressionato? La gente. La ricchezza di Platì è la gente; i bambini soprattutto. Li abbiamo visitati nelle scuole e incontrati a frotte per le strade. Sono simpaticissimi, vivacissimi, di una abbordabilità e amicizia fresca e istantanea.
Amano lo scherzo. Se accetti un giretto in motorino, ti strapazzano, correndo a tutto gas per le viuzze del paesino, che conoscono come se avessero antenne da pipistrello. Poi, alle tue grida isteriche, «fammi scendere, sto’ male…», finalmente mostrano compassione e ti scaricano in parrocchia. Quella sera, di certo, salti la cena.
A scuola, per intrattenerli, facevamo domande tra cultura varia e curiosità. Una ragazzina di quinta elementare, la domanda ce la pone lei: «Che cosa pensate di quello che scrivono i giornali su Platì?».
Siamo colti impreparati. Ma con prontezza di spirito uno di noi risponde con un proverbio: «Prima di giudicare una persona bisognerebbe mangiarci assieme un chilo di sale». La ragazzina afferra il significato e si apre a un sorriso di pace.
Nella classe, però, si fa un attimo di silenzio, facile da interpretare: è amarezza e speranza insieme; passato che si vorrebbe seppellire e futuro da inventare. Il loro sguardo sa di volontà di riscatto, per qualcosa che non fa onore; ma esprime tanti valori che non fanno rumore sui mass media, che però esistono realmente e sono onestà, sudore, dignità mai barattata, ma troppe volte imbrattata; e vorrebbero fosse loro pubblicamente restituita!
Sono istanti che ci fanno rivivere il loro dramma, in quella notte del 13 novembre 2003: circa 1.000 carabinieri circondarono il paesino, penetrarono a forza nelle case, strapparono dal sonno uomini, donne, anziani, giovani. In quella notte da incubo, come spesso succede, il dramma nel dramma: si voleva colpire qualcuno legato alla malavita e si fece d’ogni erba un fascio tra grida e lacrime di innocenti… e banalità da parte di qualcuno con addosso la divisa dell’arma.
Le conseguenze di quella notte si sono protratte per lunghi mesi, aumentando il già diffuso senso di sfiducia nel loro futuro. Ma un’alba nuova sembra che cominci a dissipare incubi, paure, sospetti.
L’ospitalità dei platiesi è al di là del pensabile. È straordinaria. Ci hanno invitato nelle loro case, ci hanno riempiti di regali: pane, formaggi, salami, olio d’oliva…
Una sera fummo invitati dalla signora Maria, suocera di Antonio, proprietario di una tabaccheria in paese. Alla fine della serata, quasi per sfogarsi, la signora ci racconta come era Platì fino a 30 anni fa: un paese attivo nell’alta sartoria e artigianato; esportava pipe ed altri prodotti in tutto il mondo. Con orgoglio ci racconta dell’attivismo politico di suo padre, il quale partì da Platì nel 1943 per unirsi ai partigiani e combattere contro la dittatura.
Denys

Missione è… solidarietà. L’esperienza a Platì è coincisa con il tempo pasquale, i giorni in cui riviviamo il mistero del Dio solidale con noi fino alla morte. Tale coincidenza ci rese più coscienti del messaggio di cui siamo portatori, al di là delle nostre persone.
Accanto ai missionari, negli incontri con gli alunni delle scuole e i giovani impegnati nelle attività parrocchiali, nell’ospitalità delle famiglie… abbiamo sentito la sfida di dovere scoprire e mostrare il «Dio che salva», a «sostenere la speranza», a impegnarci per ricevere dal Padre la pace e per costruire un mondo di giustizia, libertà e frateità.
Alimentare la speranza significa risvegliare le coscienze, testimoniare e proporre cammini di liberazione e promozione umana. Per questo abbiamo presentato alla gente di Platì una proposta di solidarietà, chiedendo l’appoggio alla campagna Nós Existimos.
Il primo passo nel cammino della solidarietà è la conoscenza; perciò, dove ci è stato possibile, abbiamo cercato di ampliare gli orizzonti di interesse e fatto conoscere la situazione di Roraima, le sfide e gli obiettivi di tale iniziativa.
Il gesto in cui si è espressa la solidarietà, semplice ma personale, che non impegna il portafoglio ma muove la coscienza, è stato apporre il proprio nome sulla scheda per la raccolta delle firme di sostegno alle rivendicazioni dei popoli emarginati di Roraima.
Qualcuno ha fatto un passo in più: si è interrogato sul valore, conseguenze, potenzialità di tale gesto. Ha capito che apporre una firma per sostenere una campagna internazionale è un atto di responsabilità di fronte a ciò che capita nel mondo, uno strumento efficace per cambiarlo, anche a livello locale.
La storia di popoli diversi, con problemi ed esigenze differenti, ma accomunati da esclusione e sfruttamento, uniti dalla comune speranza in un futuro migliore, in lotta per il rispetto dei propri diritti e dignità, ha costretto la gente a guardare in casa propria.
Ed è in quest’ottica «locale» che i bambini di Platì hanno partecipato a una maratona per le vie del loro paese, indossando una maglietta su cui campeggiava la scritta: Nós Existimos. Quel grido di popoli lontani è diventato il grido di Platì: anche noi esistiamo; ci siamo anche noi; anche noi vogliamo contare qualcosa!
Corrado

Missione è… incontrare l’uomo dove vive. In un paese di montagna il bar costituisce un importante luogo di ritrovo. A Platì ce ne sono per tutti i gusti: per juventini e reggini (le due tifoserie, ci tengo a dirlo, non sono in conflitto), per giovani e meno giovani.
Ne abbiamo frequentato un paio anche noi. Ottima è stata l’accoglienza, non solo perché le consumazioni sono state sempre offerte. Nei bar abbiamo condiviso un po’ di vita dei platiesi, la loro storia, il presente, le speranze e le attese.
Siamo venuti a sapere che a Platì ci sono una decina di foi, il cui pane arriva fino a Reggio e Catanzaro. È un pane particolare, a lievitazione naturale. Lo abbiamo mangiato anche noi ed è davvero ottimo; si mantiene fresco per diversi giorni. A Platì si produce anche dell’ottimo formaggio di latte vaccino e caprino.
Al bar abbiamo incontrato soprattutto i giovani. Con loro si è scherzato tanto, ma hanno pure manifestato molto interesse per la nostra scelta di vita missionaria, per il nostro voto di castità, così distante dal loro modo di pensare. Almeno così ci è parso di intendere. È stata un’impresa trovare il modo più semplice per spiegarlo.
Camminando per le strade di Platì, ci si scopre avvolti da grande cordialità. È molto importante fermarsi, salutare, dare e chiedere la propria fiducia attraverso i gesti che la buona educazione ci ha insegnato: un cenno, un sorriso, una stretta di mano per i platiesi sono forme di rispetto molto importanti.
Abituati all’anonimato cittadino, all’inizio ci sembrava strano questo «dover salutare tutti». Eppure, dopo poco tempo si è scoperto che non era un atto dovuto, ma semplicemente un segno di riconoscenza verso l’accoglienza che continuamente ricevevamo. Tanti ci hanno invitato a entrare nelle loro case per un caffè, una chiacchierata, accompagnata da qualche dolce tipico che, se non lo finivamo, dovevamo portare a casa.
Marco

Missione è… inculturazione. Platì è una cittadina bella e simpatica; ma all’inizio abbiamo dovuto abituarci e superare quell’impressione di «facce dure», specialmente quelle mascoline!
Fatto questo sforzo ti accorgi che la gente è tanto buona, accogliente e generosa, come le persone semplici della nostra Corea del Sud.
Per noi coreani, trapiantati in Italia da poco più di un anno e alle prese con la lingua, con cui riusciamo appena a farci capire, l’approccio con la gente, specialmente con i simpaticissimi bambini, è stato duro: tutti parlavano il dialetto a una velocità mozzafiato. E questo ci ha resi più consapevoli di una delle più grandi difficoltà della vita missionaria: la lingua della popolazione alla quale saremo inviati.
Nonostante ciò, gli incontri nelle strade, nelle scuole elementari e medie sono stati una bellissima esperienza che conserveremo sempre nel profondo: in Corea, a Platì o in qualunque altra parte del mondo, i bambini sono sempre uguali: si fanno amare, sono semplici; ti danno tanto e non ti fanno sentire straniero.
I ragazzi più cresciuti e i giovani sono un po’ diversi: corrono sulle moto sparati e senza casco; si esibiscono in temerarie prove di bravura, per mostrare in qualche modo la personalità emergente. Peccato che non investano tale personalità, così ricca e originale, in una professione o nello studio.
Questo non vuole essere un giudizio: abbiamo intravisto quante difficoltà ci sono in questo campo, dovute a mancanza di lavoro e di prospettiva. L’unica strada aperta, da tanti già imboccata, è quella dell’emigrazione. Ad eccezione dei bar, questi giovani non hanno punti di incontro per stare insieme e passare il tempo libero, per dare spazio alla propria cultura e creatività.
Le ragazze, poi, nella loro vita tanto ritirata, sembrano ancora più penalizzate. Il fatto che si sposano così giovani (18-20 anni) ha suscitato una certa meraviglia in noi coreani. Al di là di cultura e tradizione, forse lo sposarsi presto è causato anche dalla mancanza di lavoro, alla necessità di emigrare. Nonostante la fatica per adattarci alla lingua e scoprire la cultura della gente, abbiamo vissuto con intensità il nostro soggiorno a Platì. Non abbiamo capito tutto, ma di una cosa siamo certi: Platì ha tanta voglia di speranza e una nuova stagione della sua storia sta già lievitando.

Martino, Pietro, Giuseppe

Novizi missionari IMC




DOSSIER IMMIGRAZIONE (3)Insieme per la casa

E’ UN PROGETTO che ha come scopo la ricerca di soluzioni possibili per affrontare il grave problema abitativo a Torino. La filosofia dell’intervento si ispira alle riflessioni maturate nel corso del convegno «La chiesa dialoga con la città», voluto dal cardinale Severino Poletto nel giugno del 2000.
Tante sono le problematiche che Torino deve affrontare: è necessario che tutte le forze sane della città sappiano mettersi in dialogo per trovare soluzioni rispettose delle persone, della storia, della tradizione culturale, dell’economia e società civile nel suo complesso.
I due uffici dell’arcidiocesi, Caritas diocesana e Pastorale del lavoro, si sono concentrati sul disagio abitativo, soprattutto focalizzando nel mercato della locazione una delle esperienze necessitanti un rilancio significativo, a beneficio delle persone e dell’economia del territorio. Il cammino di riflessione ed elaborazione è stato lungo; ma ha consentito di introdurre positive sinergie sia tra enti di ispirazione ecclesiale sia tra altre realtà: Ufficio Pastorale Migranti, Società San Vincenzo De Paoli, gruppi di volontariato vincenziano, Il Riparo, Federabitazione Confcornoperative Piemonte, Sicet, Patronato provinciale Acli, Cicsene e Cooperativa sociale «Tenda Servizi», ivi compreso il Comune di Torino (concedendo tra l’altro il patrocinio), la Compagnia San Paolo, la Fondazione CRT.
L’unità di intenti intende rilanciare il mercato locativo, offrendo ai proprietari seri incentivi e garanzie, coniugando azioni di accompagnamento degli inquilini. Il fabbisogno di case spinge ad ipotizzare misure più incisive e radicali, poiché la domanda si presenta con volti diversi e richiede risposte diversificate.
A Torino infatti non abbiamo solo gli sfrattati, i casi sociali, le fasce deboli, ma anche nuove forme di emergenza abitativa: e, cioè, quella relativa alle giovani coppie, alle donne sole e con bambini, a giovani famiglie, agli anziani, agli immigrati; tutte persone che regolarmente lavorano e che necessitano di una casa. La città ha il dovere di occuparsene.

L’iniziativa «Insieme per la casa» renderà possibile l’utilizzo di nuovi strumenti, oltre a quelli già sperimentati dal Centro Servizi per la locazione foiti dal Comune di Torino. Gli strumenti offerti da «Insieme per la casa» sono:
1. fondo di garanzia per eventuali morosità da parte degli inquilini;
2. assicurazione in caso di danni causati all’alloggio per mal comportamento dell’inquilino;
3. disponibilità di alloggi «transitori», utilizzabili per situazioni di emergenza e/o sfratto.
Inoltre «Insieme per la casa» assicura:
– accompagnamento nel dialogo e nei rapporti con inquilini, amministratori e condomini;
– accompagnamento ed assistenza tecnica per lo svolgimento di pratiche presso gli uffici pubblici;
– assistenza per contratti di locazione e compravendita;
– reperibilità di operatori per il confronto su questioni tecniche;
– monitoraggio continuo delle persone prese in carico dal progetto con visite domiciliari.
Il progetto nel primo semestre di attività ha inserito circa 60 famiglie, ma tantissime sono le richieste, in lista d’attesa, di persone italiane e straniere.

Vuoi aiutarci?
Sei un proprietario, hai un amico che ha un alloggio vuoto, sei un agente immobiliare? Contattaci. Senza alcun impegno, ti illustreremo nei dettagli tutte le garanzie che siamo in grado di offrirti.
I nostri recapiti sono:
• Comitato tecnico gestionale / Cicsene 011/74.12.435; cicsene@cicsene.org
• Cooperativa sociale «Tenda Servizi»
insiemeperlacasa@libero.it
Wally Falchi

Wally Falchi




DOSSIER IMMIGRAZIONE (2)Donne cinesi

Fra gli extracomunitari, i cinesi di Torino costituiscono un caso speciale. I primi cinesi (esclusivamente uomini) vi giunsero prima della seconda guerra mondiale con l’intenzione di lavorare per qualche anno e poi ritornare in patria con una discreta disponibilità economica. Ma i guadagni, ottenuti con la vendita ambulante e abusiva di cravatte (ricordate il richiamo «clavatte, clavatte»?), furono molto scarsi.
Alla fine della guerra pochissimi ritornarono in Cina per rivedere i famigliari, di cui non avevano più notizie. Gli altri, che non avevano neppure la possibilità di affrontare le spese del viaggio, rimasero a Torino. Continuarono le loro vendite, estendendole però ad articoli di pelletteria che incominciarono a produrre a basso costo.
I piccoli imprenditori cinesi, con l’aumento della produzione, assunsero delle ragazze italiane. Furono costretti ad imparare la nostra lingua; nacquero i primi scambi culturali; si incominciò a superare le diffidenze reciproche, grazie anche a qualche matrimonio misto.
Negli anni ’50 si ebbe un nuovo flusso migratorio di cinesi, che potevano contare sull’aiuto dei connazionali, già residenti, per casa e lavoro. Nel 1960 arrivarono le prime donne cinesi, per unirsi ai rispettivi mariti. La disponibilità economica permise a molti di intraprendere attività nel campo della ristorazione e, in seguito, della confezione di abbigliamento.
A scoltiamo Ni Tianxiu o «Stella», per semplificare, come subito dice lei stessa. Laureata in Cina, mediatrice culturale di Alma Mater e vicepresidente dell’Associazione culturale cinese, Stella dichiara: «Attualmente a Torino vivono un migliaio di donne cinesi; lavorano industriosamente, partecipano allo sviluppo sociale dell’Italia e contribuiscono a colorare la cultura globale multietnica. Tranquille, silenziose e chiuse, rispetto ad altre comunità quasi non si notano. Come mai?».
Stella si scusa per la sua pronuncia; legge la sua relazione con difficoltà. Ma gli occhi le brillano; è vivacissima, allegra e contenta di essere fra noi. Il suo riso spontaneo ci conquista.
La lingua italiana, per le donne cinesi, è il più grande ostacolo all’inserirsi ed integrarsi nella nostra vita. La difficoltà di «convertire» la mente da un linguaggio di ideogrammi ad uno alfabetico scoraggia, a tal punto che le donne rinunciano alla vita sociale, si isolano e preferiscono lavorare come api operose e lasciare ai loro figli la possibilità di andare a scuola.
Spesso i figli (anche bambini) fanno da interpreti alle loro mamme nei negozi, negli uffici pubblici e ovunque sia necessario (persino nei consultori medici).
L’altro grave problema delle cinesi è la pianificazione familiare. In Cina, con l’imposizione della politica del «figlio unico» del 1979, le coppie hanno evitato di avere più di un figlio; però in Italia la maggioranza ne ha più di due. Spesso le donne cinesi si trovano nuovamente incinte 3-4 mesi dopo il parto.
A queste situazioni non facili contribuiscono varie cause; con un po’ di aiuto e collaborazione dall’esterno potrebbero essere scongiurate. Purtroppo alcune credenze, comunicate da altre donne (per esempio, l’impossibilità di rimanere incinta durante il puerperio), prevalgono sulle informazioni corrette, sovente completamente assenti. Non conoscendo la lingua, tante cinesi rinunciano alle visite specialistiche e alle cure: sarebbe per loro troppo complicato andare a Milano (dove operano ginecologhe e ostetriche cinesi), oppure attendere a lungo a Torino per avere un appuntamento con un’interprete a disposizione.
Inoltre l’obbedienza-sottomissione al marito (anche se non usa il preservativo) e la mentalità tradizionale (secondo la quale i maschi sono l’orgoglio della famiglia) fanno sì che le donne cerchino di avere figli maschi anche se hanno già partorito tante volte e la loro vita è pesantissima. Spesso sono addirittura i genitori del marito a decidere per un’altra gravidanza…
Così le donne cinesi sono costrette a stare in casa ad accudire i figli, perdendo ogni opportunità di imparare. Hanno un grande bisogno di aiuto.
Per loro Stella chiede a voce alta la possibilità di imparare l’italiano, con metodi bilinguistici semplici ed efficaci, nonché la presenza di mediatrici cinesi nelle istituzioni.

Silvia Perotti




DOSSIER IMMIGRAZIONE (1)E se non ci fossero loro?

A Torino sono presenti ufficialmente
circa 15 mila donne extracomunitarie:
rappresentano il 39% del totale degli immigrati
e il 2% delle donne torinesi.
Marocchine, somale, camerunesi, nigeriane,
ecuadoriane, filippine, cinesi, ecc.
ma anche dall’Albania, Romania e Ucraina.
Sono impegnate soprattutto nei «lavori di cura».
Però non mancano sorprese.

GRAZIE (NONOSTANTE IL RITARDO)
«Lavoro di cura»: ecco una nuova espressione, entrata di recente nella lingua italiana, per indicare l’occupazione nell’assistere malati, anziani e bambini, oltre che il lavoro domestico. È un’espressione che, come un’eco, risuona in varie lingue e allude ai numerosi lavori delle donne che li esercitano: donne che provengono da tanti paesi diversi, ma accomunate tutte in uno stesso destino…
Oggi non sono puntuali le donne migranti, che giungono all’edificio della Facoltà di teologia di Torino per intervenire al «loro» incontro-dibattito su: «Le donne migranti si confrontano con la città». Il convegno è organizzato dall’ufficio Pastorale dei migranti dell’arcidiocesi di Torino e dall’associazione Alma Terra. Inoltre vi partecipa la Commissione pari opportunità uomo-donna della Regione Piemonte.
Il ritardo si dimentica presto grazie al caloroso saluto iniziale di don Fredo Olivero: «Grazie! Da voi abbiamo imparato tanto. Abbiamo imparato, soprattutto, un modo più sereno di affrontare la vita».

COLPO D’OCCHIO MULTICULTURALE

Funziona un servizio di accoglienza dei bambini. Pertanto le mamme entrano nella sala del convegno libere e rilassate; si salutano con calore nella loro lingua o in italiano e prendono posto vestite con i loro abiti migliori, rigorosamente europei. Vengono da nazioni extraeuropee: Perù, Ecuador, Marocco, Somalia, Nigeria, Camerun, Filippine, Cina… ma anche Albania, Romania ed Ucraina. Sono presenti, per lo più, donne che vivono in Italia già da alcuni anni, di età compresa fra i 25 e 40 anni. Ma intravediamo qualche signora decisamente più anziana.
Ci sarà, infatti, confermato che ultimamente si è registrato un innalzamento dell’età; per cui negli arrivi più recenti si trovano spesso persone di 40-50 anni, venute in Italia per lavorare e mantenere o far studiare i figli. Sono originarie specialmente dell’Est europeo; data l’età, anche se trovano lavoro, sono mal pagate, sfruttate e si esigono da loro tanti altri servizi.
Non vi sono solo addette a «lavori di cura», ma anche commesse, infermiere, cameriere e un’impiegata di banca. Scopriamo che numerose sono laureate all’università nei loro paesi d’origine. Oggi lavorano a Torino come interpreti, traduttrici e mediatrici culturali.
«Mediatrice culturale»: ecco una nuova figura professionale, già da alcuni anni operante in Italia (nelle istituzioni pubbliche, negli uffici per stranieri, nel terzo settore, nell’associazionismo); si va anche diffondendo nelle scuole e ovunque si presentano problemi che esigono una «mediazione» fra le «culture altre», per una buona convivenza.
A questo proposito, molti sono gli extracomunitari già inseriti che, nel tempo libero, si prestano (senza alcun compenso) per servizi di prima accoglienza nei riguardi di altri stranieri. Si va diffondendo pure un’altra forma di volontariato; riguarda mamme extracomunitarie di bambini che vanno a scuola: alcune hanno accolto l’invito di prestare qualche ora alla settimana per aiutare i bambini stranieri (della loro stessa lingua), appena giunti in Italia, a superare le prime difficoltà di inserimento.

“LAVORO DI CURA” MA NON SOLO

Dall’intervento di Mercedes Cáceres, rappresentante del gruppo «lavoro di cura» di Alma Terra, possiamo seguire il processo di integrazione della donna immigrata: dall’iniziale bisogno di lavoro fino alla necessità di riconoscimenti e gratificazioni, che vanno oltre la sopravvivenza economica.
In Italia fenomeni demografici come l’allungamento della vita e il calo delle nascite, uniti al cambiamento del modello familiare tradizionale, con la donna sempre più occupata fuori casa, hanno portato ad un bisogno crescente di delegare ad altre persone l’assistenza di anziani, malati e bambini, nonché i lavori domestici.
Quindi le donne migranti, arrivate nel nostro paese, trovano abbastanza facilmente una prima occupazione nei suddetti settori. Questo offre, nello stesso tempo, anche una possibilità di integrazione, che permette l’apprendimento della lingua, degli usi e dei costumi delle famiglie italiane. In tale contesto spicca l’azione di alcune donne torinesi, che si offrono per insegnare alle neoarrivate a cucinare, ad usare gli elettrodomestici e i detersivi, a gestire quotidianamente casa e famiglia.
Però la sussistenza non è l’unico significato che la donna immigrata vuole dare al suo lavoro. Essa ricerca, in misura più o meno accentuata, la realizzazione personale e professionale, un posto attivo nella società come lavoratrice consapevole dei suoi diritti e doveri.
In particolare: «il lavoro di cura», in un primo momento soluzione immediata del problema economico, si rivela in un secondo tempo un impegno di grande responsabilità, che stimola le persone coinvolte nel loro essere più profondo ed autentico. Aiutare un bambino a crescere, accompagnare un anziano nella sua malattia (spesso fino alla morte), dà alle assistenti la possibilità di contribuire all’armonia di una famiglia, ponendo sempre al centro la persona.
Di conseguenza le «badanti», consce dell’importanza della loro figura professionale e del valore sociale della loro azione, chiedono giustamente il riconoscimento economico, sindacale e curriculare delle proprie prestazioni circa retribuzioni, orari, tempi di riposo e possibilità di avere un figlio senza perdere il posto di lavoro.

LA CRISI INDUSTRIALE DI TORINO

Silvia Avila, sposata con una figlia, laureata in economia e commercio, proviene dall’Ecuador dove lavorava come contabile. A Torino è passata dal lavoro domestico alla ristorazione, alla metalmeccanica e, attualmente, è mediatrice culturale presso l’ufficio Pastorale dei migranti. Da lei apprendiamo che numerose «badanti» spesso hanno una buona cultura (anche a livello universitario); talora conoscono 3 o 4 lingue. Accettano questo tipo di lavoro solo perché sanno che non vi sono altre possibilità.
È quindi comprensibile che, nelle loro richieste, vi sia anche il bisogno di momenti di formazione e qualificazione per sostenere la loro speranza di nuovi progetti di vita. Essenziale è il ruolo delle istituzioni, che dovrebbero offrire delle possibilità, ma senza gravare sulle famiglie datrici di lavoro.
Apprendiamo che in Torino, negli ultimi tre anni, la richiesta di «lavoro di cura» è diminuita. Questo è dovuto alla crisi industriale del capoluogo piemontese e alle conseguenti minori disponibilità economiche delle famiglie, che spesso si vedono costrette a ridurre gli orari o a rinunciare all’aiuto esterno, cercando soluzioni più economiche anche per gli anziani.
D’altro canto, aumentano, sfortunatamente, le donne giunte con il marito o figli per il ricongiungimento familiare, poi abbandonate dal coniuge, unica fonte di sostentamento: si ritrovano sole, senza lavoro e senza casa, costrette spesso a rimandare i bambini dai parenti al paese d’origine.
Frequenti sono i casi di maltrattamento, ed enorme è la necessità di ascolto e di sostegno psicologico, oltre all’aiuto materiale.

CERCARE CAPIRE SAPERE

«Vi ho creati da un uomo e da una donna e ho fatto di voi dei popoli e delle tribù perché vi conosciate…».
Con questo versetto del Corano si è concluso l’intervento di Fatima Khallouk. Proveniente dal Marocco, laurea in biochimica conseguita in Francia e diploma di traduttrice, è particolarmente impegnata nei problemi dell’integrazione e del dialogo interreligioso e culturale. Lavora come consulente aziendale, traduttrice, interprete e collabora con l’Ufficio Stranieri della Cisl e con Radio Torino Popolare.
Abbiamo seguito con attenzione il suo appassionato intervento sul dialogo. Il modo più semplice e il ponte più «corto» per comunicare è capirsi. Ogni migrante porta con sé come unica e non effimera ricchezza la sua cultura, acquisita nelle famiglie e società dove è vissuto assimilando storia, tradizioni, letteratura, arte, musica, religione. Nell’incontro con l’«altro» tali valori possono unire senza scontri; ciascuno può mantenere la sua identità e, nello stesso tempo, arricchire la propria personalità.
Cercare i punti comuni delle rispettive religioni, trovare altri terreni d’incontro socioculturali, capire le differenze e promuovere il mutuo rispetto… sono tutti elementi che devono affiancare la politica di integrazione giuridica degli stranieri. Naturalmente, alla base di tutto, ci deve essere l’istruzione, poiché solo una solida base culturale rende il dialogo e l’accordo sui valori fondamentali facile e naturale.
Lingua, lavoro, casa, servizi sociali
Aisha Asli, marocchina di 40 anni, laureata in giurisprudenza, nubile, fa parte del settore che si occupa di accoglienza nell’ufficio della Pastorale dei migranti. Con entusiasmo ci illustra il suo lavoro, che considera gratificante perché aiuta ed orienta gli altri e, contemporaneamente, costituisce un continuo arricchimento culturale per se stessa. L’accoglienza è il punto di riferimento fondamentale, quando lo straniero arriva. Non è un puro inserimento di dati nel computer, ma un accompagnamento della persona nei suoi primi passi in Italia.
I problemi più urgenti da affrontare sono tre: l’apprendimento della lingua (senza la quale uno straniero non può muoversi), la ricerca di lavoro e la sistemazione abitativa. Poi viene l’orientamento nei servizi sociali, scolastici, sanitari e amministrativi, unito all’ascolto dei problemi e delle sofferenze con il sostegno psicologico di esperti, quando è necessario.
Vivienne Maradas, della Repubblica Centrafricana, sposata con due figli, diplomata, si occupa in particolare del problema della casa. È un settore dove l’immigrato, debole e vulnerabile sotto tutti gli aspetti, finisce in molti casi per essere sfruttato dai proprietari di alloggi o da altri immigrati che subaffittano. Le difficoltà maggiori sono rappresentate dai prezzi troppo alti, dalla diffidenza razziale e dalla disinformazione sulle possibilità esistenti e sui diritti in materia di contratti.
Si lamenta, soprattutto, la mancanza di cornordinamento fra i servizi che danno informazioni; inoltre dovrebbero essere più accessibili nelle lingue d’origine e sempre aggioati. Con campagne di sensibilizzazione rivolte ai proprietari si dovrebbe reperire alloggi a prezzi calmierati, garantendo i proprietari.
Una parziale risposta al problema «casa» arriva nell’intervento di Malvina Cagna, rappresentante del Cicsene (Centro italiano di collaborazione per lo sviluppo edilizio delle nazioni emergenti), che dal 1990 ha iniziato un monitoraggio habitat sul territorio nell’ambito di un progetto nazionale.
Poiché lo straniero sta diventando appetibile nel mercato della casa, le agenzie immobiliari hanno intrapreso degli studi sull’argomento. Oltre a forme di sfruttamento abitativo e di subaffitto (senza che gli stessi inquilini ne siano al corrente), ci sono i problemi di discriminazione, a seconda dei paesi di provenienza, e si sta allargando la forbice tra qualità e prezzo.
Occorrono finanziamenti per la ristrutturazione e riqualificazione degli alloggi (che comportano minori guadagni), oltre a fondi di garanzia e bonus di entrata per i proprietari che accettano di affittare a stranieri e che necessitano di assicurazioni per il futuro. Con un occhio alle sanzioni previste dalle leggi sulla discriminazione razziale, è necessario un cornordinamento efficace dei servizi di informazione e controllo e regolarità dei contratti.

IN UFFICIO E DIETRO UNO SPORTELLO

Varie donne migranti, da qualche anno in Italia, superati i primi problemi, hanno la capacità di guardare oltre lo stretto orizzonte di un lavoro domestico. A Torino si parla già di «secondo inserimento» o «seconda fase», con progetti per venire incontro a queste esigenze.
Grace Bassey, nigeriana, da 14 anni nel nostro paese, ci illustra il progetto «Dedalo». In tale ambito il Ministero degli Affari Sociali, anni fa, promosse dei corsi (comprendenti settimane di stage) sia per l’avviamento ad un lavoro autonomo, in collaborazione con la Conferesercenti, sia per l’inserimento in uffici pubblici.
Recentemente 12 donne extracomunitarie fanno parte del personale bancario, grazie al progetto «Percorsi contro l’esclusione sociale e per l’autonomia delle donne», nato dalla collaborazione fra banche, ministeri e Alma Mater.
Ce lo riferisce Rosine Noubissie, giunta in Italia 8 anni fa dal Camerun per studiare. Prima ha lavorato come badante e babysitter per mantenersi agli studi; poi è riuscita ad entrare nei «Percorsi contro l’esclusione», superando tests attitudinali e di lingua italiana, per essere ammessa ad un corso di formazione comprendente stages pratici con i clienti. Grazie al permesso di soggiorno per studi universitari e alla convenzione fra università e banche, oggi lavora presso l’Istituto San Paolo con un contratto part-time di 4 ore per 5 giorni settimanali. Così può continuare gli studi.
Rosine parla dei suoi rapporti con i colleghi e clienti, di come abbia dovuto superare la paura di sbagliare e di essere giudicata secondo il colore della sua pelle. Ma è entusiasta della sua esperienza e si augura che altre donne possano usufruire di tali possibilità.

DARE VOCE A CHI NON HA VOCE

Enrica Recanati, responsabile del servizio Drop in del Gruppo Abele, si definisce nel contesto del Convegno «una voce fuori del coro». Infatti si occupa di migranti in tali situazioni dove, probabilmente, l’integrazione nel contesto italiano non avverrà mai.
Si tratta di donne (e uomini) provenienti dall’Est europeo (Romania, specialmente), ma anche dalla Nigeria e Sierra Leone: spesso non più giovanissime e con problemi di salute, chiedono asilo politico.
Il servizio loro dato è «a bassa soglia», cioè facilmente accessibile: una prima accoglienza come a persone senza dimora, affinché il vivere in strada si arresti, si prevengano i rischi di barbonizzazione e si tuteli la salute
Innanzitutto si mira a soddisfare i bisogni primari (igiene, vestiario e accoglienza nottua) delle persone sprovviste di permesso di soggiorno, che non possono cercare lavoro e casa e alle quali sono negati tutti i diritti. Ci sono anche donne laureate, senza riconoscimento del titolo di studio, che fanno la fila per lavarsi, avere un pasto caldo o un vestito pulito.
Hanno bisogno di ricevere informazioni sui servizi cittadini e sulle leggi che le riguardano, ma soprattutto di socializzare, di essere considerate persone, essere ascoltate e stimolate, perché (nonostante tutto) mettano in campo le proprie risorse e non cadano in una condizione di disagio cronicizzato.
Si cerca di riempire il loro tempo vuoto con varie attività, quali un laboratorio teatrale, un esercizio culturale, un giornalino interno, corsi di italiano e computer. Allora emergono le risorse e potenzialità personali, che strada e disagi hanno intorpidito. Con l’accoglienza e le relazioni personali può avvenire quel cambiamento che porta donne (che sembravano non chiedere nulla) ad esprimere un forte bisogno di riconoscimento della propria dignità.
E questa «voce fuori del coro» ha una nota di speranza.

Silvia Perotti




DOSSIER IMMIGRAZIONE (0)Introduzione

Perché tanti convegni?

L’ufficio Pastorale Migranti (UPM) è un organismo costituito dall’arcivescovo di Torino, Severino Poletto, il 1° marzo 2001 in sostituzione del servizio «Migranti Caritas», per favorire l’evangelizzazione degli emigrati in casa nostra: così recita lo statuto. In verità l’UPM svolge molteplici attività in favore degli stranieri: accoglienza, informazione, consulenza, sostegno psicologico.
L’UPM collabora con la Regione Piemonte, la Provincia di Torino e i Comuni su progetti specifici, che possono essere cofinanziati. Partecipa a tre cornordinamenti: quello di Caritas e Migrantes nel nord Italia, quello della Caritas sulla «Tratta delle donne immigrate» (prostituzione) e quello europeo «Diritto di vivere in famiglia». Inoltre, in appoggio alla scuola pubblica, svolge corsi di lingua e cultura italiana e, con riguardo alla formazione professionale, si impegna a ricercare opportunità lavorative e a verificare gli inserimenti di donne, vittime della tratta, e di minori soli in tutela.
Ha progetti specifici per donne: ospitalità nottua e accoglienza in case di madri con bambini; lotta contro «la tratta femminile» per sfruttamento sessuale, sia locale che nazionale, con cammini formativi, iniziative di recupero, tutela e inserimento lavorativo in collaborazione con la compagnia San Paolo e la presidenza del Consiglio dei Ministri.
Nel 2001 l’UPM organizza il convegno «Da vittime a cittadine. Dall’illegalità alla cittadinanza», relativo ai problemi delle donne migranti, cadute nella «tratta».
Due anni dopo, il 15 marzo 2003, l’UPM promuove un nuovo convegno: «Le donne migranti si confrontano con la città». L’incontro può considerarsi una tappa successiva a quello del 2001, però con una novità significativa…

L’ Alma Mater è un Centro interculturale di donne, nato nel dicembre 1993 per l’impegno comune di alcune signore italiane e straniere e grazie al sostegno del Comune di Torino, della commissione regionale per «le pari opportunità» e di varie associazioni femminili. Il Centro è gestito dall’associazione «Alma Terra», costituita ad hoc. Si tratta di uno «spazio», dove l’accoglienza della migrante è al primo posto.
Il Centro è il frutto della progettualità e delle aspirazioni di innumerevoli donne che vi hanno lavorato per costruirlo e di molte persone che continuano a lavorarvi condividendo le responsabilità. Molteplici sono le attività e i servizi che mette a disposizione delle donne migranti e non.
Nel convegno del 2001 «Da vittime a cittadine. Dall’illegalità alla cittadinanza» le destinatarie sono state le donne migranti, in particolare africane, vittime della «tratta». Il convegno ha parlato di loro con studiosi ed esperti. Si sono riportati dati quantitativi e qualitativi sui percorsi di «uscita» e sugli «inserimenti lavorativi». Ma al tavolo dei relatori le donne straniere non c’erano. C’erano solo persone delle istituzioni pubbliche e associazioni del volontariato italiano.
È stato espresso un certo rammarico sulla mancata visibilità, a quel convegno, delle donne immigrate.
Ecco quindi il proposito di un nuovo incontro, realizzato nel 2003, dove le donne migranti hanno potuto parlare direttamente di sé, delle loro esigenze e difficoltà, delle loro aspettative e progetti. C’è stato anche un confronto-dibattito con le donne «della città»: le donne delle istituzioni locali, delle associazioni imprenditoriali, del terzo settore e dell’associazionismo… per favorire la conoscenza tra donne di provenienze e storie diverse, ma tutte operanti a Torino.
L’auspicio è di continuare, sul territorio, il dibattito sull’accoglienza, il lavoro, la casa, i servizi, l’integrazione sociale e culturale.
La finalità è di pervenire a una convivenza migliore, più solidale, più consapevole dei reciproci diritti e doveri, più rispettosa dell’identità e delle competenze di ciascuna: premessa necessaria per una società più giusta e per una cultura di pace.

Il presente dossier rilancia i contenuti del convegno di Torino del 2003: contenuti comuni ormai a tutte le città d’Italia.
Antonella Pavan

Antonella Pavan




RUSSIACittadini russi e profughi ex sovietici

«Dov’è la propiska, la cittadinanza?».
È la domanda che milioni di ex cittadini sovietici
si sentono rivolgere, per poter vivere in pace
e con un minimo di garanzie.
Ma a cui non possono rispondere.
Nascono così le nuove ondate di «migranti forzati»dentro la propria patria. Senza un futuro.

Stavo raccogliendo materiale sui senzatetto in Russia e contattavo diverse organizzazioni umanitarie. «No, non ci occupiamo di senzatetto – mi sentii rispondere dall’altro capo del filo – ma di profughi». «Profughi a Mosca? Ceceni, probabilmente» azzardai io. «Non solo». Non indagai oltre in quell’occasione, ma lo feci in seguito. Si parla di 5, addirittura di 8 milioni di persone che hanno varcato i confini della Russia dai primi anni Novanta.
L’Urss ha smesso di esistere il 31 dicembre 1991. La mattina del 1° gennaio 1992, gli ormai ex-cittadini sovietici si risvegliarono abitanti di diversi paesi. Fuori dei confini della neonata Federazione Russa rimasero circa 25 milioni di persone, che vivevano nelle altre repubbliche dell’Unione Sovietica e che, fino al giorno prima, avevano avuto una posizione di preminenza, non solo dal punto di vista politico. Di punto in bianco essi si ritrovarono cittadini di seconda categoria rispetto agli indigeni, la cosiddetta «etnia titolare».
Diventarono gradualmente oggetto di discriminazione: impossibilità di fare carriera, licenziamenti, requisizione di alloggi, obbligo di utilizzare solo la lingua locale. Si cominciò a chiudere le scuole russe, giornali, radio: un desiderio di rivalsa nei confronti di quella che per secoli era stata la nazione dominante.
Tale reazione, presente non solo in tutta l’area ex-sovietica (eccetto in Armenia e Bielorussia), ma anche nell’Est-Europa, può essere, fino a un certo punto, comprensibile, sebbene mai giustificabile. Meno comprensibile è, invece, il fatto che la Russia faccia ben poco per difendere gli interessi dei russi delle repubbliche, nonostante abbia tutte le possibilità di esercitare pressioni in tal senso su quegli stati, assai inferiori a lei per peso politico ed economico. Non solo non li difende, ma crea ostacoli al loro rientro in patria, rendendo arduo l’iter per ottenere la cittadinanza.

<b<IMMIGRATI UNA RISORSA NECESSARIA

Caterina Belugina si era trasferita dalla Russia in Uzbekistan con la famiglia nel 1975; qui aveva terminato gli studi e iniziato la carriera di giornalista. Poi, nel 1992, aveva preso la cittadinanza uzbeka, per non essere costretta ad abbandonare immediatamente il paese.
Qualche tempo fa ha dovuto difendersi dall’accusa di diffamazione a seguito di un articolo, in cui denunciava il comportamento di un alto funzionario statale. Tutto il processo si è tenuto in uzbeko, che Caterina non conosce, e si è concluso con la sua condanna. Ha capito, allora, che quello non era più posto per lei e, come molti altri, si è rivolta al consolato russo per fare domanda di cittadinanza, primo passo per rientrare in patria con tutti i diritti.
«Era chiaro che non ne avrei cavato niente. Al consolato russo c’erano file di tre giorni, la gente dormiva fuori. Anche se fossi riuscita ad avviare la pratica, ci sarebbero voluti due anni e mezzo per ricevere la cittadinanza». Caterina non ha voluto aspettare tanto. È venuta a Mosca dalla sorella, abbandonando quasi tutti i propri averi.
«Avevamo un grande appartamento, l’abbiamo venduto per due soldi. Accade sempre così. Si sa che i russi sono costretti ad andarsene e devono accettare il prezzo che è loro offerto. Non ho portato con me quasi niente. Le tasse doganali erano troppo alte». L’amarezza maggiore Caterina la esprime nei confronti del proprio paese: «La Russia non aiuta i propri figli. C’era da noi un’invalida d’origine tedesca: la Germania non solo le ha dato la cittadinanza, ma le ha mandato una sedia a rotelle e l’ha aiutata a trasferirsi. Anche gli ebrei ricevono assistenza. Di noi, nessuno si occupa. Al contrario. Il nostro consolato a Tashkent chiede il pagamento delle spese consolari in dollari, quando tutti sanno che il possesso di valuta straniera è illegale in Uzbekistan e attira l’attenzione delle autorità».
Tutti gli stati occidentali sono messi in serie difficoltà dalla pressione degli immigrati stranieri sui propri confini; ma nel caso della Russia l’immigrazione è costituita principalmente dagli stessi russi (circa il 77%); e poi, il paese ha un gran bisogno di nuova energia, di braccia e cervelli; d’altri abitanti, insomma.
La catastrofica situazione demografica sta minacciando l’economia e la sicurezza dello stato. Il numero di coscritti al servizio di leva è già considerato insufficiente, tanto che nel dicembre 2003 il distretto militare di Mosca ha organizzato vere e proprie retate per le strade della capitale, fermando e arruolando a forza i giovani, senza dare loro nemmeno la possibilità di avvertire la famiglia.
Se l’emorragia non s’arresta, ci sarà presto penuria di forza lavoro e la necessità d’importare lavoratori e specialisti da altri paesi. Ed ecco che milioni di persone tornano a casa, hanno voglia di lavorare, sono disposte a fare di tutto, pur di ritrovare una vita dignitosa e sfamare la propria famiglia. Sono persone che hanno spesso alle spalle una solida esperienza professionale e anni di convivenza con altre culture, da cui sono stati arricchiti. Inoltre provengono da regioni di cultura musulmana, quindi non hanno abitudine al bere: una qualità assai preziosa per una nazione che paga un alto costo per l’eccessivo consumo di alcolici.

SENZA PERSONE, NESSUN PROBLEMA!

Stando ai dati del Ministero per le nazionalità e politiche migratorie, in Russia ci sono circa 900 mila persone con regolare status di Forced migrants (Fm) o di rifugiati. Sono cifre molto al di sotto della realtà. Basti pensare che dei 100 mila afghani arrivati durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan e rimasti anche dopo il 1989, solo 513 hanno ottenuto tale status; gli altri sono considerati illegali.
È indubbio che l’arrivo di tanta gente pone allo stato notevoli problemi. Affrontarli adeguatamente comporterebbe un grosso impegno, intelligenza, lungimiranza e lo stanziamento di appositi fondi. Nessuno ha ancora smentito il noto aforisma attribuito a Stalin: «Se c’è la persona, c’è il problema; se la persona non c’è, non c’è il problema». Si spiega così la riluttanza delle autorità a concedere lo status di Fm o profugo. Il rifiuto può essere motivato da ragioni formali, come il non rispetto dei termini di presentazione della domanda che molti, tra l’altro, ignorano; oppure può non essere motivato affatto.
Senza lo status i profughi sono considerati come stranieri arrivati di propria volontà e giuridicamente trattati di conseguenza, senza obblighi particolari. Ma anche verso i profughi ufficialmente riconosciuti come tali, le risorse messe a disposizione sono di gran lunga insufficienti a far fronte ai due bisogni fondamentali: casa e lavoro. Negli ultimi anni, tra l’altro, queste risorse si sono andate continuamente riducendo. Il 2002 ha visto drastici tagli delle spese sociali, e non solo in questo campo.
I migranti registrati presso i Servizi immigrazione vengono raccolti in centri dove possono vivere per anni in baracche precarie, senza servizi. Si cerca di mandarli in aree rurali, indipendentemente dal loro ambiente di provenienza e professione. Il principio è di ripopolare le zone che si stanno svuotando.
Di loro si occupano anche organizzazioni umanitarie inteazionali, in primis l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Acnur), che in Russia è molto presente, e lo Iom (Inteational Organization for Migration). «Anche i migranti registrati hanno difficoltà a ricevere assistenza medica a causa del cattivo funzionamento del servizio sanitario statale – spiega Edwin McClain, responsabile Iom per la Russia -. Per questo abbiamo allestito ambulatori nelle zone di raccolta dei migranti. Purtroppo, abbiamo risorse limitate; quindi, ci rivolgiamo soprattutto alle categorie più vulnerabili: madri sole, handicappati, anziani. Abbiamo anche avviato un programma di microcredito».
Il vantaggio di essere un «migrante ufficiale» non sta solo nel ricevere gli aiuti statali (comunque miseri), ma nel vedersi più facilmente riconosciuti alcuni diritti fondamentali della persona che si tende, invece, a negare agli altri migranti, contrariamente ai dettami della costituzione.
Un espediente utilizzato per escludere intere categorie di persone da servizi destinati a tutti è quello della propiska, o registrazione del luogo di residenza (vedi Missioni Consolata, giugno 2001), che in Russia non è, nella pratica, la semplice constatazione di un dato di fatto, come vorrebbe la costituzione, dove viene sancita la libertà di movimento.

I NUOVI SCHIAVI

Per la registrazione, le autorità regionali introducono pre-requisiti di cui non si parla nelle leggi federali: c’è chi condiziona la registrazione alla presenza di familiari che già vivono sul posto da 5-10 anni; chi chiede garanzie di lavoro e alloggio da parte di aziende locali, o il pagamento di tasse non previste dalla legge; chi adduce criteri di ampiezza dell’alloggio, chi richiede particolari certificati medici, chi introduce quote d’ingresso nella regione e chi, addirittura, nega la registrazione a interi gruppi di persone, ad esempio, ai ceceni.
Il primo e più grande beffeggiatore della costituzione è il comune di Mosca, che respinge migranti e profughi da scuole, luoghi di lavoro, ospedali. Si è così creata una situazione alquanto paradossale. Al Cremlino è insediato il presidente Putin, massima autorità della Federazione, garante supremo delle sue leggi, al municipio di Mosca, c’è il sindaco, il sig. Luzhkov, che di queste leggi se ne fa un baffo.
«Per essere registrata presso mia sorella a Mosca ho dovuto procurarmi documenti che dimostrano il nostro legame di parentela». È ancora Caterina Belugina che racconta. A lei è andata bene. Quando ci siamo incontrate la prima volta, era appena rimpatriata e disoccupata, ma, grazie alla sua esperienza di giornalista, ha trovato lavoro presso il «Forum delle unioni dei migranti». Ha iniziato solo qualche mese fa, ma ha già tante storie da raccontare.
«Sergej viveva con la madre in Kazakistan. All’età di 14 anni decise di venire ad abitare dal padre a Mosca. Da allora, sono passati diversi anni, ma non è riuscito ad ottenere né la registrazione, né la cittadinanza, perché… non è cittadino russo. Vedono dal documento che è nato in Kazakistan e lo spediscono all’ambasciata kazaka. Lì gli spiegano che, non essendo più residente in Kazakistan e non avendovi svolto il servizio di leva, non gli possono dare la cittadinanza. Il militare, Sergej l’ha fatto in Russia, con la promessa che ciò gli avrebbe dato diritto alla cittadinanza, ma non ha ottenuto nulla».
Senza registrazione Sergej è un fuorilegge. Come lui a Mosca sono migliaia. Vivono senza garanzie sociali, né assistenza medica gratuita, né un lavoro regolare, poiché è vietato assumere persone prive di registrazione. Chiuse le possibilità di un impiego legale, le autorità moscovite aprono le porte al lavoro nero e al commercio illegale, innescando un meccanismo perverso: gli «illegali» sono costretti a corrompere la polizia; tale pratica porta alla criminalizzazione della polizia e via di seguito.
«Profughi e migranti sono fonte di guadagno per le autorità locali e la polizia – continua Caterina – che li trattano, tra l’altro, come persone di seconda categoria. E la popolazione, ne assimila il disprezzo». La condizione di senza-diritti in cui i migranti si vengono a trovare li rende oggetto di ogni possibile arbitrio e genera nuove forme di schiavitù.
È il caso di Tat’jana: in Kazakistan lavorava in un centro di ricerca come geologa. Ora fa la mungitrice in una fattoria; vivono in quattro nel gabbiotto del custode. Il figlio è andato ad arruolarsi al distretto militare; la propiska non gliela danno lo stesso; ma almeno riceve cibo e vestiti.
O il caso di un gruppo di migranti, tiranneggiati dal presidente di un kolchoz della regione di Mosca. Tra di loro c’è una famiglia venuta dal Kirghizistan: si ammala il figlioletto di pochi mesi; per tre giorni lo tengono in ospedale senza pagare, ma poi chiedono loro una retta di 300 rubli al giorno, perché non hanno la cittadinanza. Ma soldi non ne hanno: il kolchoz non li paga da mesi e non si possono rivalere perché sono irregolari.
Per lo stesso motivo ai Bogonenko, arrivati dal Kirghizistan, ci è voluto un anno per iscrivere all’anagrafe il loro nuovo nato. Dov’è la propiska? chiedevano i funzionari. Così molti non ci provano neanche a denunciare la nascita di un figlio. Neppure i matrimoni vengono riconosciuti, se uno dei fidanzati non ha la cittadinanza.

LO STATO ASSENTE

Lo stato non solo fa poco o nulla per sostenere i migranti, ma crea condizioni tali che rendono ancora più difficile e disperata la loro posizione e ostacola i tentativi di una soluzione autonoma dei problemi.
Alcune organizzazioni non governative russe assistono i migranti e li aiutano a difendersi dall’arroganza dei pubblici funzionari. Al «Comitato di assistenza civica» di Mosca ho incontrato Khava Sultanovna, una profuga cecena addetta ai problemi sociali. Anche per lei, come per Caterina, trovare lavoro presso una Ong è stata una benedizione. «Abbiamo gente dalle 10 del mattino alle 10 di sera. Anche quando siamo chiusi, c’è sempre qualcuno di tuo per i casi urgenti.
Distribuiamo una piccola somma di denaro mensile e vestiario a chi ne fa richiesta, ma soprattutto offriamo assistenza legale. I nostri avvocati spiegano cosa bisogna fare nel caso di angherie da parte della polizia o venga rifiutato lo status di profugo. Io aiuto i genitori a stendere richieste, perché i figli vengano ammessi a scuola. Scriviamo agli ospedali, alle questure, spiegando la loro situazione. Le risposte sono quasi sempre positive. D’altra parte, un rifiuto per iscritto è sempre più impegnativo».
Le Ong che prendono le parti dei cittadini ce la mettono tutta. «Come fate a sostenervi? Chi vi dà i soldi?» domando a Khava. «Locali, stipendi ed equipaggiamento ci sono offerti dall’Acnur. È molto, ma non basta, così chiediamo soldi a tutti. Lo stato non dà niente; sponsors russi non ne troviamo. Due anni fa, un miliardario ceceno ci ha dato 3 mila dollari, ma si era giusto prima delle elezioni. Per il momento rimangono solo gli sponsors stranieri».

Ascolto, ma non riesco a rallegrarmi per tali successi, perché altre considerazioni s’impongono. Amare considerazioni. Dunque, quando non possono fare altrimenti, i funzionari agiscono secondo la legge. Quando i cittadini si riuniscono per far valere i propri diritti, quando c’è qualcuno dietro di te a darti man forte o tu stesso, cosciente di quello che ti spetta, non ti lasci intimorire… qualcosa si riesce ad ottenere.
Ho un amico che vive da sempre a Mosca senza propiska. Le autorità lo sanno, ma non osano toccarlo, perché è un tipo che si sa ben difendere. Però sono ancora troppo pochi coloro che sanno o vogliono difendersi; così chi ha in mano il potere, grande o piccolo che sia, ha buon gioco. La sottomissione, l’inerzia e, purtroppo, anche la mancanza di solidarietà tra la gente, finiscono per corrompere il potere che diventa sempre più sfacciato, se non trova argini nella società civile.

BOX 1

POLLI DA SPENNARE

Stavo raccogliendo materiale sui senzatetto in Russia e contattavo diverse organizzazioni umanitarie. «No, non ci occupiamo di senzatetto – mi sentii rispondere dall’altro capo del filo – ma di profughi». «Profughi a Mosca? Ceceni, probabilmente» azzardai io. «Non solo». Non indagai oltre in quell’occasione, ma lo feci in seguito. Si parla di 5, addirittura di 8 milioni di persone che hanno varcato i confini della Russia dai primi anni Novanta.
L’Urss ha smesso di esistere il 31 dicembre 1991. La mattina del 1° gennaio 1992, gli ormai ex-cittadini sovietici si risvegliarono abitanti di diversi paesi. Fuori dei confini della neonata Federazione Russa rimasero circa 25 milioni di persone, che vivevano nelle altre repubbliche dell’Unione Sovietica e che, fino al giorno prima, avevano avuto una posizione di preminenza, non solo dal punto di vista politico. Di punto in bianco essi si ritrovarono cittadini di seconda categoria rispetto agli indigeni, la cosiddetta «etnia titolare».
Diventarono gradualmente oggetto di discriminazione: impossibilità di fare carriera, licenziamenti, requisizione di alloggi, obbligo di utilizzare solo la lingua locale. Si cominciò a chiudere le scuole russe, giornali, radio: un desiderio di rivalsa nei confronti di quella che per secoli era stata la nazione dominante.
Tale reazione, presente non solo in tutta l’area ex-sovietica (eccetto in Armenia e Bielorussia), ma anche nell’Est-Europa, può essere, fino a un certo punto, comprensibile, sebbene mai giustificabile. Meno comprensibile è, invece, il fatto che la Russia faccia ben poco per difendere gli interessi dei russi delle repubbliche, nonostante abbia tutte le possibilità di esercitare pressioni in tal senso su quegli stati, assai inferiori a lei per peso politico ed economico. Non solo non li difende, ma crea ostacoli al loro rientro in patria, rendendo arduo l’iter per ottenere la cittadinanza.
immigrati:
una risorsa necessaria
Caterina Belugina si era trasferita dalla Russia in Uzbekistan con la famiglia nel 1975; qui aveva terminato gli studi e iniziato la carriera di giornalista. Poi, nel 1992, aveva preso la cittadinanza uzbeka, per non essere costretta ad abbandonare immediatamente il paese.
Qualche tempo fa ha dovuto difendersi dall’accusa di diffamazione a seguito di un articolo, in cui denunciava il comportamento di un alto funzionario statale. Tutto il processo si è tenuto in uzbeko, che Caterina non conosce, e si è concluso con la sua condanna. Ha capito, allora, che quello non era più posto per lei e, come molti altri, si è rivolta al consolato russo per fare domanda di cittadinanza, primo passo per rientrare in patria con tutti i diritti.
«Era chiaro che non ne avrei cavato niente. Al consolato russo c’erano file di tre giorni, la gente dormiva fuori. Anche se fossi riuscita ad avviare la pratica, ci sarebbero voluti due anni e mezzo per ricevere la cittadinanza». Caterina non ha voluto aspettare tanto. È venuta a Mosca dalla sorella, abbandonando quasi tutti i propri averi.
«Avevamo un grande appartamento, l’abbiamo venduto per due soldi. Accade sempre così. Si sa che i russi sono costretti ad andarsene e devono accettare il prezzo che è loro offerto. Non ho portato con me quasi niente. Le tasse doganali erano troppo alte». L’amarezza maggiore Caterina la esprime nei confronti del proprio paese: «La Russia non aiuta i propri figli. C’era da noi un’invalida d’origine tedesca: la Germania non solo le ha dato la cittadinanza, ma le ha mandato una sedia a rotelle e l’ha aiutata a trasferirsi. Anche gli ebrei ricevono assistenza. Di noi, nessuno si occupa. Al contrario. Il nostro consolato a Tashkent chiede il pagamento delle spese consolari in dollari, quando tutti sanno che il possesso di valuta straniera è illegale in Uzbekistan e attira l’attenzione delle autorità».
Tutti gli stati occidentali sono messi in serie difficoltà dalla pressione degli immigrati stranieri sui propri confini; ma nel caso della Russia l’immigrazione è costituita principalmente dagli stessi russi (circa il 77%); e poi, il paese ha un gran bisogno di nuova energia, di braccia e cervelli; d’altri abitanti, insomma.
La catastrofica situazione demografica sta minacciando l’economia e la sicurezza dello stato. Il numero di coscritti al servizio di leva è già considerato insufficiente, tanto che nel dicembre 2003 il distretto militare di Mosca ha organizzato vere e proprie retate per le strade della capitale, fermando e arruolando a forza i giovani, senza dare loro nemmeno la possibilità di avvertire la famiglia.
Se l’emorragia non s’arresta, ci sarà presto penuria di forza lavoro e la necessità d’importare lavoratori e specialisti da altri paesi. Ed ecco che milioni di persone tornano a casa, hanno voglia di lavorare, sono disposte a fare di tutto, pur di ritrovare una vita dignitosa e sfamare la propria famiglia. Sono persone che hanno spesso alle spalle una solida esperienza professionale e anni di convivenza con altre culture, da cui sono stati arricchiti. Inoltre provengono da regioni di cultura musulmana, quindi non hanno abitudine al bere: una qualità assai preziosa per una nazione che paga un alto costo per l’eccessivo consumo di alcolici.
senza persone,
nessun problema!
Stando ai dati del Ministero per le nazionalità e politiche migratorie, in Russia ci sono circa 900 mila persone con regolare status di Forced migrants (Fm) o di rifugiati. Sono cifre molto al di sotto della realtà. Basti pensare che dei 100 mila afghani arrivati durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan e rimasti anche dopo il 1989, solo 513 hanno ottenuto tale status; gli altri sono considerati illegali.
È indubbio che l’arrivo di tanta gente pone allo stato notevoli problemi. Affrontarli adeguatamente comporterebbe un grosso impegno, intelligenza, lungimiranza e lo stanziamento di appositi fondi. Nessuno ha ancora smentito il noto aforisma attribuito a Stalin: «Se c’è la persona, c’è il problema; se la persona non c’è, non c’è il problema». Si spiega così la riluttanza delle autorità a concedere lo status di Fm o profugo. Il rifiuto può essere motivato da ragioni formali, come il non rispetto dei termini di presentazione della domanda che molti, tra l’altro, ignorano; oppure può non essere motivato affatto.
Senza lo status i profughi sono considerati come stranieri arrivati di propria volontà e giuridicamente trattati di conseguenza, senza obblighi particolari. Ma anche verso i profughi ufficialmente riconosciuti come tali, le risorse messe a disposizione sono di gran lunga insufficienti a far fronte ai due bisogni fondamentali: casa e lavoro. Negli ultimi anni, tra l’altro, queste risorse si sono andate continuamente riducendo. Il 2002 ha visto drastici tagli delle spese sociali, e non solo in questo campo.
I migranti registrati presso i Servizi immigrazione vengono raccolti in centri dove possono vivere per anni in baracche precarie, senza servizi. Si cerca di mandarli in aree rurali, indipendentemente dal loro ambiente di provenienza e professione. Il principio è di ripopolare le zone che si stanno svuotando.
Di loro si occupano anche organizzazioni umanitarie inteazionali, in primis l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Acnur), che in Russia è molto presente, e lo Iom (Inteational Organization for Migration). «Anche i migranti registrati hanno difficoltà a ricevere assistenza medica a causa del cattivo funzionamento del servizio sanitario statale – spiega Edwin McClain, responsabile Iom per la Russia -. Per questo abbiamo allestito ambulatori nelle zone di raccolta dei migranti. Purtroppo, abbiamo risorse limitate; quindi, ci rivolgiamo soprattutto alle categorie più vulnerabili: madri sole, handicappati, anziani. Abbiamo anche avviato un programma di microcredito».
Il vantaggio di essere un «migrante ufficiale» non sta solo nel ricevere gli aiuti statali (comunque miseri), ma nel vedersi più facilmente riconosciuti alcuni diritti fondamentali della persona che si tende, invece, a negare agli altri migranti, contrariamente ai dettami della costituzione.
Un espediente utilizzato per escludere intere categorie di persone da servizi destinati a tutti è quello della propiska, o registrazione del luogo di residenza (vedi Missioni Consolata, giugno 2001), che in Russia non è, nella pratica, la semplice constatazione di un dato di fatto, come vorrebbe la costituzione, dove viene sancita la libertà di movimento.
i nuovi schiavi
Per la registrazione, le autorità regionali introducono pre-requisiti di cui non si parla nelle leggi federali: c’è chi condiziona la registrazione alla presenza di familiari che già vivono sul posto da 5-10 anni; chi chiede garanzie di lavoro e alloggio da parte di aziende locali, o il pagamento di tasse non previste dalla legge; chi adduce criteri di ampiezza dell’alloggio, chi richiede particolari certificati medici, chi introduce quote d’ingresso nella regione e chi, addirittura, nega la registrazione a interi gruppi di persone, ad esempio, ai ceceni.
Il primo e più grande beffeggiatore della costituzione è il comune di Mosca, che respinge migranti e profughi da scuole, luoghi di lavoro, ospedali. Si è così creata una situazione alquanto paradossale. Al Cremlino è insediato il presidente Putin, massima autorità della Federazione, garante supremo delle sue leggi, al municipio di Mosca, c’è il sindaco, il sig. Luzhkov, che di queste leggi se ne fa un baffo.
«Per essere registrata presso mia sorella a Mosca ho dovuto procurarmi documenti che dimostrano il nostro legame di parentela». È ancora Caterina Belugina che racconta. A lei è andata bene. Quando ci siamo incontrate la prima volta, era appena rimpatriata e disoccupata, ma, grazie alla sua esperienza di giornalista, ha trovato lavoro presso il «Forum delle unioni dei migranti». Ha iniziato solo qualche mese fa, ma ha già tante storie da raccontare.
«Sergej viveva con la madre in Kazakistan. All’età di 14 anni decise di venire ad abitare dal padre a Mosca. Da allora, sono passati diversi anni, ma non è riuscito ad ottenere né la registrazione, né la cittadinanza, perché… non è cittadino russo. Vedono dal documento che è nato in Kazakistan e lo spediscono all’ambasciata kazaka. Lì gli spiegano che, non essendo più residente in Kazakistan e non avendovi svolto il servizio di leva, non gli possono dare la cittadinanza. Il militare, Sergej l’ha fatto in Russia, con la promessa che ciò gli avrebbe dato diritto alla cittadinanza, ma non ha ottenuto nulla».
Senza registrazione Sergej è un fuorilegge. Come lui a Mosca sono migliaia. Vivono senza garanzie sociali, né assistenza medica gratuita, né un lavoro regolare, poiché è vietato assumere persone prive di registrazione. Chiuse le possibilità di un impiego legale, le autorità moscovite aprono le porte al lavoro nero e al commercio illegale, innescando un meccanismo perverso: gli «illegali» sono costretti a corrompere la polizia; tale pratica porta alla criminalizzazione della polizia e via di seguito.
«Profughi e migranti sono fonte di guadagno per le autorità locali e la polizia – continua Caterina – che li trattano, tra l’altro, come persone di seconda categoria. E la popolazione, ne assimila il disprezzo». La condizione di senza-diritti in cui i migranti si vengono a trovare li rende oggetto di ogni possibile arbitrio e genera nuove forme di schiavitù.
È il caso di Tat’jana: in Kazakistan lavorava in un centro di ricerca come geologa. Ora fa la mungitrice in una fattoria; vivono in quattro nel gabbiotto del custode. Il figlio è andato ad arruolarsi al distretto militare; la propiska non gliela danno lo stesso; ma almeno riceve cibo e vestiti.
O il caso di un gruppo di migranti, tiranneggiati dal presidente di un kolchoz della regione di Mosca. Tra di loro c’è una famiglia venuta dal Kirghizistan: si ammala il figlioletto di pochi mesi; per tre giorni lo tengono in ospedale senza pagare, ma poi chiedono loro una retta di 300 rubli al giorno, perché non hanno la cittadinanza. Ma soldi non ne hanno: il kolchoz non li paga da mesi e non si possono rivalere perché sono irregolari.
Per lo stesso motivo ai Bogonenko, arrivati dal Kirghizistan, ci è voluto un anno per iscrivere all’anagrafe il loro nuovo nato. Dov’è la propiska? chiedevano i funzionari. Così molti non ci provano neanche a denunciare la nascita di un figlio. Neppure i matrimoni vengono riconosciuti, se uno dei fidanzati non ha la cittadinanza.
Lo stato assente
Lo stato non solo fa poco o nulla per sostenere i migranti, ma crea condizioni tali che rendono ancora più difficile e disperata la loro posizione e ostacola i tentativi di una soluzione autonoma dei problemi.
Alcune organizzazioni non governative russe assistono i migranti e li aiutano a difendersi dall’arroganza dei pubblici funzionari. Al «Comitato di assistenza civica» di Mosca ho incontrato Khava Sultanovna, una profuga cecena addetta ai problemi sociali. Anche per lei, come per Caterina, trovare lavoro presso una Ong è stata una benedizione. «Abbiamo gente dalle 10 del mattino alle 10 di sera. Anche quando siamo chiusi, c’è sempre qualcuno di tuo per i casi urgenti.
Distribuiamo una piccola somma di denaro mensile e vestiario a chi ne fa richiesta, ma soprattutto offriamo assistenza legale. I nostri avvocati spiegano cosa bisogna fare nel caso di angherie da parte della polizia o venga rifiutato lo status di profugo. Io aiuto i genitori a stendere richieste, perché i figli vengano ammessi a scuola. Scriviamo agli ospedali, alle questure, spiegando la loro situazione. Le risposte sono quasi sempre positive. D’altra parte, un rifiuto per iscritto è sempre più impegnativo».
Le Ong che prendono le parti dei cittadini ce la mettono tutta. «Come fate a sostenervi? Chi vi dà i soldi?» domando a Khava. «Locali, stipendi ed equipaggiamento ci sono offerti dall’Acnur. È molto, ma non basta, così chiediamo soldi a tutti. Lo stato non dà niente; sponsors russi non ne troviamo. Due anni fa, un miliardario ceceno ci ha dato 3 mila dollari, ma si era giusto prima delle elezioni. Per il momento rimangono solo gli sponsors stranieri».

A scolto, ma non riesco a rallegrarmi per tali successi, perché altre considerazioni s’impongono. Amare considerazioni. Dunque, quando non possono fare altrimenti, i funzionari agiscono secondo la legge. Quando i cittadini si riuniscono per far valere i propri diritti, quando c’è qualcuno dietro di te a darti man forte o tu stesso, cosciente di quello che ti spetta, non ti lasci intimorire… qualcosa si riesce ad ottenere.
Ho un amico che vive da sempre a Mosca senza propiska. Le autorità lo sanno, ma non osano toccarlo, perché è un tipo che si sa ben difendere. Però sono ancora troppo pochi coloro che sanno o vogliono difendersi; così chi ha in mano il potere, grande o piccolo che sia, ha buon gioco. La sottomissione, l’inerzia e, purtroppo, anche la mancanza di solidarietà tra la gente, finiscono per corrompere il potere che diventa sempre più sfacciato, se non trova argini nella società civile.

Bianca Maria Balestra




APPELLO KENYAViva Nairobi viva

Il 55% della popolazione di Nairobi (Kenya) vive in 168 baraccopoli, dove i servizi sono inesistenti. Il governo del Kenya ha deciso
la demolizione di 42 mila strutture (baracche, scuole, chiese, centri comunitari, cliniche, mercatini, ecc.), lasciando senza casa né speranza oltre 354 persone. Le demolizioni
sono già cominciate, senza preavviso né offerta
di alcuna alternativa o compensazione.
Il «Coordinamento delle parrocchie negli insediamenti informali» (slums) di Nairobi ha lanciato un appello per fermare le demolizioni
e avviare un tavolo di trattative serio, finalizzato a trovare soluzioni accettabili: limitazione dei trasferimenti, rilocazione concordata, indennizzi per gli sgomberati.
Varie associazioni e personalità inteazionali hanno aderito all’appello e lanciato la campagna «Viva Nairobi Viva», tra cui i volontari di AfrikaSì, impegnati negli slums della parrocchia della Consolata di Westlands, Nairobi
(vedi dossier in M.C. marzo 2004).

La notizia della demolizione sistematica degli slum a Nairobi ha colto noi operatori volontari in quel territorio di sorpresa, lasciandoci basiti.
Chi conosce gli slum sa perfettamente quali siano le condizioni di degrado estremo di quella realtà che si svolge al di fuori di ogni canone di vita compatibile con gli esseri umani. Ma cacciarli di lì senza alcuna azione concreta di ristrutturazione migliorativa o no, significa togliere loro l’unica risorsa di cui dispongono: la speranza.
È per dar loro la speranza di una vita accettabile e civile che noi di AfrikaSì andiamo laggiù a operare, immergendoci nella loro miseria materiale e spirituale e nella loro vita. Noi, un pugno di volontari, andiamo a portare il poco che possiamo materialmente, il tanto che abbiamo nel nostro cuore, commossi e profondamente turbati dal loro dolore, nascosto spesso dietro un sorriso e la rassegnazione.
Cacciarli di lì, da quei tuguri che rappresentano l’unico «bene» e certezza, non è propriamente un atto di civiltà, come si vorrebbe far credere, ma un ulteriore crudeltà della civiltà delle ruspe e della tecnologia.
Possiamo comprendere, noi occidentali, come spianare il loro fango misto a sterco, allontanando il loro fetore, possa essere liberatorio per noi, per le nostre case e la nostra «pulizia»; diversa forse la loro ottica. Buttar via quelle quattro assi e quegli stracci, unici loro beni, significa compiere l’ultimo gesto di negazione e di rifiuto, dopo aver loro rubato le terre, le case rurali, la realtà contadina decorosa e civile in chiave con le loro radici e tradizioni a favore del latifondo, con l’inganno supremo di un lavoro in città, con il miraggio di un benessere migliorativo.
Questo il primo passo della nuova Repubblica kenyana, il primo intervento nei confronti dei diseredati della terra.
«Son sempre i cenci che vanno all’aria» diceva Manzoni. Le ruspe contro le forchette come sempre, come adesso «esportare la democrazia» è il nuovo look politico di questa epoca che, nella sua grande violenza e ipocrisia, aggredisce i deboli, togliendo loro il molto o il nulla che posseggono, peraltro ammantando la prevaricazione, il sopruso, l’offesa sotto la veste etica della democrazia, foriera per definizione di libertà, benessere, bene assoluto.
Bene per chi? Non certo per coloro che non hanno voce, mezzi, armi per difendersi. Perché non fare altrettanto e quindi esportare le nostre ideologie sacre in quei paesi e territori ove la democrazia è carente, ma dove si incontrerebbe una reazione, una risposta altrettanto forte a difesa delle proprie radici, della propria terra, magari una risposta con armi tecnologiche altrettanto distruttive e offensive delle nostre? Semplice, questa è la legge dei prepotenti e dei vigliacchi di questo sporco mondo che, adducendo lo spettro del terrorismo, nascondono agli stolti e ai ciechi che esso nasce proprio dalla violenza, aggressività e ingiustizia e come il perpetuarsi di queste dinamiche sia la causa prima che alimenta la reazione dei poveri con le loro armi: pietre, sangue, pianti e disperata estrema reazione: il suicidio.
Con queste nostre semplici ma oggettive valutazioni, intrise di amarezza e di dolore, unite allo sconforto e all’impotenza intendiamo denunciare con grido lacerante la nostra più vibrata protesta insieme a quella di tutti coloro che vivono e soffrono con noi l’ingiustizia, la prevaricazione, la stupidità. Grido associato in modo irrevocabile alla nostra volontà di andare avanti e di combattere per questi sacri, eterni ideali.

Ennio Di Giulio




KENYAUna bibbia in ogni famiglia

All’inizio del 2004, in varie diocesi del Kenya si è svolta con successo la campagna
per la diffusione della bibbia nelle famiglie,
con l’invito alla lettura quotidiana della parola
di Dio. A Nairobi l’evento ha avuto luogo
nella parrocchia-santuario della Consolata.

Mentre cresceva nel villaggio rurale di Mwala, diocesi di Machakos, il futuro vescovo di Nairobi, Raphael Ndingi Mwana ‘a Nzeki, non ebbe mai l’opportunità di sedersi e leggere la bibbia, finché non entrò nel seminario maggiore. Non è che il ragazzo ignorasse le scritture. «Prima di tutto la bibbia era disponibile solo in latino; in secondo luogo la chiesa non sempre incoraggiava i laici a leggere le scritture» ha detto l’arcivescovo ai cristiani di Nairobi.
In quei giorni, la bibbia era apparentemente destinata solo al clero. Ma il Concilio Vaticano ii ha capovolto la situazione. Nel 1965 Paolo vi impresse un forte impulso alla costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, Dei Verbum, in cui si raccomanda di provvedere perché «tutti i fedeli abbiano facile accesso alle sacre scritture».
Negli ultimi 40 anni, la bibbia è stata tradotta in tutte le lingue del Kenya, ma l’abitudine di leggere non è diventata abbastanza popolare o, secondo l’umorismo protestante, molti cattolici hanno tale rispetto per la bibbia che non osano aprirla.
«Resta ancora tanto lavoro pastorale da fare, non solo per mettere la bibbia nelle mani dei cristiani, ma anche per aiutarli a capire quanto essa sia importante nelle loro esperienze quotidiane» ha detto Alexander Schweitzer, segretario generale della Federazione biblica cattolica (Cbf), mentre visitava il paese lo scorso febbraio. Egli si è rivolto agli agenti di pastorali perché suscitino la consapevolezza tra i cristiani sull’importanza delle sacre scritture come compagna quotidiana nel loro cammino spirituale.
È precisamente questo che le suore Paoline hanno messo in moto a Nairobi e Nanyuki, all’inizio dell’anno, organizzando la «giornata biblica», all’insegna del motto «la bibbia in ogni famiglia».
A Nairobi, l’evento ebbe luogo il 24 gennaio 2004 nella parrocchia-santuario della Consolata: con una solenne cerimonia fu intronizzata la bibbia, quindi l’arcivescovo Ndingi e il nunzio apostolico Giovanni Tonucci, insieme a vari studiosi, parlarono ai fedeli e risposero alle loro domande. A Nanyuki lo stesso evento fu preparato durante il mese di gennaio e concluso il 14 febbraio 2004.

LA BIBBIA: NON È UN LIBRO, MA UNA BIBLIOTECA

Nella sua presentazione, mons. Tonucci tracciò una breve storia della composizione della bibbia, spiegando che i 73 libri della bibbia cattolica (46 nel Primo e 27 nel Nuovo Testamento; i protestanti ne hanno solo 66) furono scritti da autori differenti, in circostanze storiche e culturali differenti, con linguaggi e stili differenti, in un periodo di mille anni. E questo, ha spiegato il nunzio, fa sì che la bibbia sia una biblioteca di libri da leggere con attenzione.
«I libri della bibbia furono scritti in ebraico e greco – ha continuato -. Ciò che noi oggi usiamo sono traduzioni; e benché i traduttori facciano del loro meglio, esse non sempre riflettono perfettamente gli originali». Portò l’esempio della parola Geova, presente in alcune traduzioni della bibbia e usato da alcuni cristiani come nome di Dio: tale termine, ha detto, non è mai esistito nelle versioni originali in ebraico e greco.
Anche i differenti stili usati nello scrivere la bibbia devono essere tenuti in mente quando si leggono le scritture. Alcuni libri devono essere letti come storia, altri come romanzi, altri ancora come canti; alcuni contengono testi per meditazione e preghiera, mentre altri riportano statistiche, come il 1° libro delle Cronache, che contiene 9 capitoli di numeri, ha continuato mons. Tonucci: «Puoi pregare e meditare sulla misericordia di Dio, rivelata nella parabola del figliol prodigo in Luca 15; non altrettanto si riesce a fare con i 9 capitoli delle Cronache».
Inoltre, la bibbia riflette le differenti culture del Medio Oriente antico: una comprensione di tali culture è essenziale per una lettura significativa delle scritture, ha spiegato il nunzio, aggiungendo che i cambiamenti che avvengono in una lingua attraverso il tempo incide sul significato originale delle scritture.

LA BIBBIA: È CIBO, NON MEDICINA

Nonostante queste difficoltà, i cristiani devono leggere regolarmente la bibbia, ha sottolineato il nunzio: «Essa è la parola vivente solo quando la leggi. Ai nostri fratelli e sorelle protestanti piace andare in giro con la bibbia sotto il braccio: buon per loro; per noi, la bibbia rimane in casa, dove la leggiamo con calma e tranquillità».
Egli ha pure messo in guardia sulla lettura selettiva e ha spronato i cristiani a leggee il libro o capitolo intero, perché la bibbia deve essere considerata come un pasto da consumare, non una medicina da ingoiare a piccole dosi quando sorge un bisogno. «La bibbia non è una miniera di buone citazioni per sostenere le proprie idee, ma una sorgente d’ispirazione nel suo insieme, e sempre sotto la guida della chiesa».
Il nunzio ha confutato la visione protestante, secondo cui la bibbia ha fatto la chiesa. «Non è la bibbia che ha creato la chiesa, ma il contrario: essa è esistita prima del vangelo scritto; è nata nella sala dell’ultima cena, sul calvario, a Pentecoste… La buona notizia della salvezza era già stata predicata molti anni prima che fosse scritto il primo libro del Nuovo Testamento. Più tardi, quando numerosi libri pretendevano di essere racconti della vita e lavoro di Gesù, fu la chiesa a selezionare quelli che erano genuini per essere inclusi tra le sacre scritture.

LA BIBBIA: GUIDA PER LA FAMIGLIA CRISTIANA

Arcivescovo Ndingi, dopo una breve riflessione sulla famiglia come «chiesa domestica», ha detto che la bibbia ha guidato il popolo di Dio nella sua vita quotidiana. «La paragono alla costituzione di una nazione – ha affermato, esortando le famiglie cristiane a fare della parola di Dio il centro della loro vita -. Nella famiglia ha inizio la chiesa universale… I membri della famiglia dovrebbero leggere ogni giorno un passo della bibbia per trae ispirazione».
Padre Henry Akaabian, direttore del Centro biblico per l’Africa e Madagascar (Bicam), ha parlato su come fare della bibbia la guida della propria vita. «Il mio richiamo ai cristiani africani è che abbiamo mancato di testimoniare i valori del vangelo con la nostra vita… Perché leggiamo ciò che Dio richiede da noi e poi non lo traduciamo nella vita delle nostre comunità?». Egli ha messo in risalto come la bibbia deve portare il cristiano a una vera conversione: non si tratta semplicemente di una conoscenza accurata di ciò che dice la scrittura, ma piuttosto di un personale incontro con Cristo.
Padre Vincent Kamiri, dell’Università cattolica dell’Africa orientale (Cuea), ha discusso sul ruolo di Maria nella bibbia e nella chiesa.

IN GUARDIA CONTRO GLI ABUSI

A Nanyuki, la «giornata biblica» ha avuto luogo nella parrocchia di Cristo Re. Mons. Tonucci è stato l’oratore principale. Rivolgendosi ai 10 mila fedeli del decanato di Nanyuki, ha ripetuto la presentazione fatta a Nairobi, quindi ha risposto alle domande presentategli in antecedenza.
Molte di esse tradivano l’influenza della predicazione protestante ed evangelica e riguardavano la Madonna, il sabato, le bevande alcoliche, l’uso delle immagini nel culto cattolico, uso dei pantaloni da parte delle donne, il fondamento biblico della data del natale… Oltre a mettere in guardia i cattolici contro l’uso errato delle sacre scritture, mons. Tonucci ha spiegato che la bibbia non dice nulla su argomenti scientifici. «Gli autori della bibbia hanno scritto libri di teologia e non di scienze. Per cui non si può sostenere che la teoria dell’evoluzione sia errata perché la bibbia parla di creazione. Essa non si occupa di verità scientifica».
Il nunzio si è rammaricato che molti cattolici siano stati fuorviati dalla lettura selettiva e interpretazione spuria della bibbia da parte di alcune chiese cristiane, prevalentemente fissate sul primo testamento.
Incoraggiando i fedeli a leggere la bibbia ogni giorno, egli ha pure avvertito che la verità nella bibbia non è questione di interpretazione personale: «Abbiamo bisogno della guida della chiesa per comprendere la scrittura» ha detto, aggiungendo che i cattolici non vedono la bibbia come unica sorgente di rivelazione divina, come avviene nelle altre denominazioni cristiane. Nella costituzione dogmatica Dei Verbum, la chiesa, mentre esorta i fedeli a sviluppare l’abitudine di leggere la bibbia, afferma che le tre sorgenti della divina rivelazione sono la sacra scrittura, la tradizione e l’insegnamento o magistero della chiesa.
La «giornata biblica» a Nanyuki si concluse con la celebrazione eucaristica, presieduta da mons. Nicodemus Kirima, arcivescovo di Nyeri.

Henry Makori




CIADMedici laici in missione

Il racconto semplice, ma convinto
di una giovane coppia di medici, che ha voluto
«affondare la sua radice» in terra africana.
In nome della fede, alimentata dalla «linfa vitale»
di una frateità a tutto campo.

«Siamo stranieri, ma ci sentiamo a casa; abbiamo imparato a vivere una vita più semplice, ma piena di senso. Per la sua precarietà, le storie di cui veniamo a conoscenza, gli stessi impegni che abbiamo, la vita in Ciad ci richiama continuamente al senso ultimo della vita. Abbiamo affondato nell’humus della terra una nuova radice, che speriamo ci renda più solidi e nutra la nostra famiglia con la linfa vitale della frateità e comunione». Con queste parole Emanuela e Paolo hanno voluto terminare il racconto che mi hanno fatto della loro esperienza missionaria: sei anni vissuti con amore e fede sul territorio africano.

VOGLIA DI CONDIVIDERE

Entrambi medici, si sono incontrati per la prima volta a un corso di medicina tropicale, organizzato dal Cuamm di Padova. Spiega Emanuela: «Indipendentemente l’uno dall’altra, inseguivamo il forte desiderio di dedicare almeno una parte della nostra vita professionale a un paese in via di sviluppo e tutti e due eravamo orientati all’Africa».
Già qualche anno prima di approdare a Padova, avevano avuto modo di toccare da vicino la realtà sanitaria africana: Emanuela era stata in viaggio in Uganda, presso un ospedale missionario; Paolo aveva visitato un ospedale del Burkina Faso, entrambi gestiti da medici del Cuamm. Sono state proprio queste brevi esperienze che hanno fatto crescere il desiderio di passare più tempo sul suolo africano e li hanno spinti a seguire il corso padovano.
Due anni dopo il primo incontro, nel 1993, si sono sposati; pur continuando a pensare, prima o poi, di fare le valigie, hanno cominciato a lavorare in Italia, frequentando scuole di specializzazione in linea con il corso che la loro vita stava prendendo: Emanuela medicina intea e Paolo pediatria.
«In quegli anni, in Italia si era verificata una grande crisi della cooperazione internazionale – ricorda Paolo -. In seguito al crollo del muro di Berlino, gran parte degli investimenti era stata “dirottata” all’Europa dell’Est. Altro duro colpo fu lo scandalo del Fondo Aiuti Italiano (Fai), sull’onda di mani pulite».
Aggiunge Emanuela: «Cercavamo contratti per partire come cooperanti per un periodo minimo di due anni e non ne trovavamo. Da quegli anni in poi si è sviluppata la moda dell’emergenza e contratti a breve termine: sei mesi, massimo un anno. Come prima esperienza, ciò non ci interessava; eravamo convinti che ci volesse un certo tempo per entrare in contatto con la realtà».
Un periodo così breve non avrebbe, infatti, permesso di calarsi fino in fondo nelle situazioni locali, di capire il modo di vivere della gente; avrebbe permesso di portare un aiuto isolato, sicuramente valido ma, per certi versi, fine a se stesso; mentre quello che cercava la giovane coppia era la costruzione di rapporti umani, l’integrazione, per quanto possibile, con la popolazione del posto, per costruire con loro qualcosa che rimanesse nel tempo, oltre il giorno del loro rientro in Italia.

PRIMA… MISSIONARI

Mentre ragionavano sul loro futuro, una coppia di amici, Marta e Marco, si stava preparando a partire per l’Africa, come missionari laici. «Avevamo conosciuto il centro in cui seguivano la formazione, a Piombino in Toscana (Centro frateità missionarie, vedi riquadro) e spesso li accompagnavamo, perché ci sembrava una formazione molto bella, che avrebbe potuto servire anche a noi» ricordano con piacere.
«In effetti, per noi la dimensione della fede restava fondamentale e ci chiedevamo in che modo poterla vivere, anche in un’esperienza prettamente professionale come quella della cooperazione. Nei nostri viaggi in Uganda e Burkina Faso avevamo entrambi notato come la fede fosse sì la motivazione fondamentale di molti, ma spesso restava in secondo piano nella vita concreta, a causa del sovraccarico di lavoro e richieste infinite. Inoltre, ci sembrava che la vita dei cooperanti fosse tutta tesa all’apporto professionale, senza un contatto normale, quotidiano, con la gente, se non quello di medico-paziente. A poco a poco, continuando a seguire la formazione a Piombino anche dopo la partenza dei nostri amici per il Ciad, ci siamo resi conto che la proposta del Centro frateità missionarie poteva fare al caso nostro».
Una presa di coscienza abbastanza faticosa per tutti e due: «Ci veniva chiesto di spogliarci, almeno momentaneamente, del ruolo di medici che a noi stava tanto bene… Prima di tutto dovevamo sentirci inviati, cioè missionari, portatori dell’annuncio evangelico».
All’inizio sembrava tutto troppo difficile. Ma i numerosi aspetti della proposta del Centro frateità missionarie hanno avuto la meglio. «Alla fine del 1996 è arrivata la proposta della frateità di N’Djamena, che era allora composta proprio da Marta e Marco e da don Aldo, della diocesi di Milano. Vivevano insieme da due anni nella periferia della città» racconta Paolo.
Dopo un viaggio conoscitivo e il sì definitivo, lasciato anche il lavoro, la coppia ha dedicato tutto il 1997 a una preparazione più approfondita: un mese al Centro di Piombino; il corso al Centro unitario missionario (Cum) a Verona; due mesi e mezzo in Ciad per imparare il francese; sei mesi al corso di medicina tropicale ad Anversa, in Belgio. «Sono state tutte occasioni preziose, sia per approfondire la riflessione sul cammino che ci accingevamo a percorrere, sia per conoscere tante persone con cui abbiamo iniziato bellissime amicizie. Già nel periodo di preparazione cominciavamo a ricevere il centuplo promesso!» tiene a sottolineare Emanuela.

«TORNIAMO A CASA?»

«Il 4 aprile 1998 siamo arrivati a N’Djamena – continua Emanuela -. Una data impossibile da dimenticare: in piena stagione calda e la peggiore degli ultimi 30 anni! Il termometro arrivava a 48-50 gradi all’ombra. La casa, disabitata da qualche mese, perché Marta e Marco erano in Italia per ragioni di salute, era sepolta sotto uno strato di polvere. C’era di che scoraggiare i più intrepidi. Giovanni, il nostro primogenito, che allora aveva due anni, dopo un’ora ha esclamato: “Papà, adesso torniamo a casa!”. Era quello che tutti pensavamo». Invece Emanuela e Paolo non si sono mossi e sono ancora lì, dopo sei anni!
Nonostante il quadro scoraggiante, almeno per chi vive in Europa, la loro prima impressione, fortissima e che ancora conservano, è stata la gente: nonostante tutto vive ed è contenta. Di fronte a tutto quello che hanno iniziato a vedere e toccare con mano, durante i primi mesi di permanenza sono stati assaliti da un senso di inutilità: «È un sentimento che ci sembra bene risvegliare ogni tanto, per ricordarci che qui non siamo eterni, che è la gente che deve essere protagonista delle scelte e che, se siamo qui, è per uno scambio, il più possibile alla pari».
Il primo anno è passato ad ambientarsi, conoscere le persone, i luoghi, fra cui le strutture sanitarie, imparare l’arabo ciadiano. Nello stesso tempo la coppia ha cercato di capire, anche con l’aiuto della chiesa locale, come mettere al servizio degli altri le loro conoscenze professionali. Così, dal 1999, Paolo ha cominciato a lavorare nell’ospedale governativo del quartiere dove vivevano ed Emanuela nel servizio diocesano per i malati di Aids, campo per il quale c’era stata una richiesta pressante da parte del vescovo.
Nel frattempo, nel marzo 1999, è nata la seconda bambina, Sofia. La famiglia che veniva dall’Italia ha così cominciato a prendere una forma accettabile per lo standard africano, due coniugi con un solo figlio non sono quasi considerati famiglia.
La presenza dei bambini che crescevano ha facilitato una conoscenza sempre maggiore del vicinato e un’integrazione a tutti gli effetti, come avevano sempre voluto: «I bambini non hanno barriere, spontaneamente si infilano nelle case altrui, cosa che qui è assolutamente normale; e noi, per recuperarli, abbiamo potuto conoscere gli adulti degli altri cortili che si affacciano sulla nostra strada» spiega Emanuela.

RITORNO… COME PARTENZA

Spesso, si pensa che chi vive in paesi «lontani» (geograficamente, economicamente o culturalmente) abbia un’organizzazione della giornata e della vita profondamente diversa dagli standard cosiddetti occidentali. In realtà, guardando lo scandire delle ore della numerosa famiglia di Emanuela e Paolo (nel frattempo è arrivato anche Carlo, che ora ha due anni), non si trovano grandi differenze.
Al mattino si accompagnano i bambini a scuola, che inizia alle 7,30. Si tratta di una scuola ciadiana, fondata da una chiesa protestante; nelle classi del ciclo elementare ci sono dai 50 ai 70 bambini, mentre l’asilo è meno frequentato. I loro figli sono gli unici europei, il che ha loro creato qualche difficoltà, vista la curiosità ai limiti dell’invadenza dei bambini africani.
Il ritorno da scuola è intorno a mezzogiorno, ora in cui cominciano le scorribande con i ragazzini del vicinato; una banda di una decina di scatenati, che giocano usando tutta la fantasia e l’energia possibili. Anche il più piccolino, Carlo, saltella dietro il gruppo contento di potersi associare ai giochi, più o meno sorvegliato dagli amici più grandi.
Come in un qualsiasi paese industrializzato, in cui mamma e papà lavorano, anche nella loro organizzazione familiare ci sono due donne che danno una mano nel curare i bambini e gestire la casa.
«Paolo ed io lavoriamo 3-4 giorni la settimana, in ambito sanitario. Abbiamo scelto di avere un impegno a metà tempo per conservare lo spazio per gli incontri di frateità: una volta la settimana sul vangelo della domenica successiva, un’altra per una riunione di riflessione su un aspetto della nostra vita, o più operativa se c’è qualche scadenza imminente. Spesso, comunque, le tre giornate di lavoro medico sono completate da riunioni e incontri che si svolgono soprattutto al pomeriggio. Qui non esiste una vita nottua, il tempo è gestito seguendo la luce solare. La sera, dopo cena, si è spesso così stanchi che non si può far altro che buttarsi sul letto».

Agiugno di quest’anno Emanuela e Paolo sono rientrati in Italia definitivamente: rientro previsto e non più procrastinabile, soprattutto a causa della scolarità dei figli. «Come le altre famiglie del Centro di Piombino già rientrate, consideriamo questo ritorno come una nuova partenza – spiega Paolo -. Ci metteremo in ascolto della realtà italiana, nella città in cui andremo a vivere e ci reinseriremo, come abbiamo fatto in Ciad; con la differenza che, questa volta, abbiamo già un minimo di conoscenza della cultura… Certamente non consideriamo questo tratto di vita come una parentesi da chiudere, ma come un tesoro da spendere nella nostra società italiana. La vita in Africa ci ha sicuramente cambiati: nelle piccole come nelle grandi cose».
Per Emanuela, che ha vissuto 30 anni in una città come Milano, è stata dura abituarsi all’interessamento continuo dei vicini africani sulla loro vita, ai saluti degli sconosciuti: «Qui si dice che, quando qualcuno ti saluta, vuol dire che sei vivo. Un africano si sentirebbe come morto in una delle nostre città, dove si è un po’ tutti indifferenti gli uni agli altri. Ho imparato il grande valore delle relazioni, anche fatte di cose apparentemente insignificanti. Inoltre, lo sforzo di inserirsi in una cultura diversa, la coscienza di essere stranieri (dunque, ospiti) ci ha insegnato una grande umiltà nell’approccio con gli altri. Molti pregiudizi che come occidentali abbiamo incamerato senza accorgercene, si sono dissolti come neve al sole».

Valeria Confalonieri




MONGOLIA (1)Bambini da… stanare

I primi 5 missionari e missionarie della Consolata sono in Mongolia da appena un anno.
Oltre alla lingua, studiano come progettare
la missione. E il lavoro non manca.

Steppe immense e cielo azzurro: è la prima impressione mozzafiato provata nel mettere piede in Mongolia, all’inizio di luglio del 2003. Il paese è cinque volte più esteso dell’Italia, ma con una popolazione di circa 3 milioni di abitanti; un terzo di essi vive nella capitale Ulaanbaatar.
Ben presto l’emozione cede alla visione della realtà: il paese attraversa una profonda crisi economica e di identità, da quando, con la fine del comunismo e lo sfascio dell’impero sovietico, i russi hanno abbandonato a se stessa la Mongolia, lasciando interi villaggi disabitati, provocando la chiusura di molte fabbriche e costringendo la gente a dipendere dagli aiuti umanitari.
Il costo della vita si è impennato, mentre i salari non aumentano: un impiegato statale, per esempio, guadagna da 50 a 80 euro al mese. Dalle nostre spese, possiamo fare i conti in tasca alla gente: un chilo di carne (la più economica è quella di cavallo), un litro di latte e un pezzo di pane costano 2.200 tugruk (1,60 euro); moltiplicato per 30 giorni fa quasi il mensile di un operaio.
La povertà provoca enormi problemi sociali, come la fuga verso la città; l’alcornolismo è diventato una piaga sociale spaventosa. Le statistiche della Fao fanno rabbrividire: un terzo delle famiglie mongole rientra nella fascia della povertà grave; quasi la metà dei bambini vive di stenti; i ragazzi di strada sono tra i problemi più raccapriccianti del paese.

I BAMBINI DEL TOMBINO

Prima di arrivare ad Ulaanbaatar, sapevo del fenomeno per sentito dire; ma non ne avrei mai immaginato la cruda realtà, finché non la vidi con i miei occhi: quasi per caso abbiamo scoperto alcuni bambini in un tombino, poco lontano dalla nostra abitazione. Appena sollevammo il coperchio fummo soffocati da un fortissimo tanfo di muffa ed escrementi; i bambini erano attorniati da un esercito di scarafaggi, rannicchiati in un angusto rifugio di pochi decimetri cubici, sotto il grosso tubo umido e semi arrugginito del riscaldamento, eredità della tecnologia russa, che si snoda e s’incrocia con cento altri tubi nelle viscere della città.
L’alta temperatura dell’acqua che vi scorre procura a quel rifugio un tepore sopra i 20°, che permette, bene o male, di sopravvivere e ripararsi dal gelo che, fuori, attanaglia le strade della città.
Oggi hanno trovato tra gli avanzi delle ossa semispolpate; domani non non lo sanno; forse non troveranno nulla tra l’immondizia di una città povera, non abituata a sprecare.
Ciò che abbiamo visto non è la scena di un pessimo film di fantascienza, ma la reale condizione di migliaia di bambini, molti dei quali in età prescolare, nella capitale più fredda del mondo, dove il termometro scende spesso a meno 35°.
Fuggono situazioni familiari insostenibili: padri ubriachi e violenti, famiglie disastrate, promiscuità, madri single o vedove, situazioni di miseria e degrado inimmaginabili.
Si radunano in branchi, come animali selvatici, ma non lo sono. Vorremmo fare sentire loro che sono esseri umani come noi; spiegare che sono nostri fratelli, figli dello stesso Padre. Ma ci assale un senso di impotenza: siamo ancora all’abc della loro lingua. Anche questo ci stimola a studiare con maggiore impegno per impararla più in fretta. Mentre questi bambini lottano per un osso spolpato, noi lottiamo contro un osso duro: il mongolo (vedi riquadro).
In tali rifugi, oltre al calore, questi bambini cercano un riparo per sfuggire alla polizia di cui hanno paura. Non sappiamo bene perché: ma quando riusciremo a comunicare meglio, lo sapremo.
Da quando è crollato il comunismo (il regime garantiva un minimo di sussistenza), anche i minori ingrossano le file di quei disperati che cercano nell’accattonaggio una possibilità per sopravvivere. Questi bambini vivono nella peggiore promiscuità con adulti alcolizzati, malati, emarginati. Alle sofferenze causate dal freddo, fame, mancanza d’acqua, sporcizia, si aggiunge la paura della violenza: questa può scoppiare spesso irrefrenabile tra ubriachi, adulti o ragazzi più grandi, che affogano la loro miseria in alcornol di pessima qualità e vodka mischiata a metanolo.
Durante il giorno, questi spettri emergono dai loro avelli alla ricerca di un po’ di cibo nella spazzatura; oppure raccolgono qualche bottiglia in vetro e oggetti di plastica da destinare al riciclaggio. In una giornata di lavoro si può raccogliere al massimo 3 chili di plastica, che fruttano 600 tugruk (45 centesimi di euro), quanto basta per comprare un litro di latte.

AFFETTI NEGATI

Questi bambini di strada sono spesso creature tenere, malate nel cuore per mancanza d’amore, che si contentano di un’esistenza che richiede un grande sforzo per chiamarla vita. Sopravvivono con ciò che riescono a guadagnare e la scarsa elemosina che riescono a succhiare da una città che non li ama.
Benché miserevoli e affamati, odiati e scacciati, difficilmente essi si danno alla delinquenza, né formano bande di piccoli rapinatori, come capita in altre latitudini. Ladri o gruppi di rapinatori sono piuttosto formati da adulti.
Eppure spesso la polizia li arresta e li rinchiude in orfanotrofi, oppure, seguendo le ultime direttive del governo, li riporta a quei «simulacri» di famiglie dalle quali erano fuggiti e da cui fuggiranno di nuovo, passando da miseria a miseria.
Anche la gente li accusa di essere dei criminali, lazzaroni, sfaticati, di preferire la strada al lavoro, un bene raro anche per gli adulti.
Un giorno, mentre portavamo una minestra calda a un gruppo di questi bambini, un vicino ci domandò dove andavamo. Più con i gesti che con le parole spiegammo che andavamo al tombino. L’uomo scosse la testa e con un gesto eloquente, come se imbracciasse un fucile, ci fece capire cosa avrebbe fatto lui a quei poveri infelici.

UN’ALTRA MINESTRA

«Vi piacerebbe studiare?» domandiamo loro. «Magari!» rispondono quelle guance rosee e sporche. Ma come sarà il loro futuro? Troveranno un lavoro? Se saranno fortunati di trovarlo, come potranno avere una vita dignitosa, se il mensile di un insegnante, un operaio, un medico è inferiore a 100 euro e il costo della vita continua ad aumentare?
Sono domande che sfidano anche il nostro futuro. Cominciamo a capire che non basta dare un piatto di minestra oggi e domani; ma bisogna elevare l’ambiente nella sua totalità. Dovremo aiutare i mongoli a cucinare un’altra minestra, con una grande quantità di giustizia, forti dosi di amore e comprensione, un bel pizzico di frateità…
Sarà necessario sforzarci di capire non solo la lingua, ma anche il loro modo di vivere, di esprimersi, di concepire la vita. Ed è quello che cerchiamo di fare giorno per giorno: orecchie dritte a scuola, per percepire gli strani suoni della loro lingua, e cuore aperto per conoscere e amare questo popolo e la sua cultura.
Dovremo impegnarci a cambiare l’atteggiamento della popolazione verso i loro figli più sfortunati e vulnerabili. Qualcuno ha già cominciato a vedere di buon occhio le organizzazioni caritatevoli, in maggioranza cristiane, che si occupano con fatica di questi bambini e di altre vittime dell’emarginazione.
La chiesa cattolica, presente in Mongolia da appena 12 anni, ha cominciato subito a mettersi al fianco dei poveri, specialmente dei bambini di strada. All’inizio un gruppo di missionari e missionarie portavano del cibo ai tombini; poi hanno aperto centri di accoglienza.
Nel 1997, padre Gilbert Sales, dei missionari di Scheut, iniziò nella capitale il Verbiest Care Center, sostenuto dal Centro internazionale cattolici missionari e dalle Pontificie opere missionarie: oggi accoglie 120 bambini fino ai 15 anni. «Andiamo a stanare questi piccoli disperati nei loro squallidi rifugi – racconta padre Sales – e li portiamo in un ambiente pulito, sano, pieno di allegria. Restituiamo loro una prospettiva di vita».
Filippino, 39 anni, padre Gilbert Sales è il primo missionario arrivato in Mongolia, assieme all’attuale vescovo, mons. Padilla.
Un’altra iniziativa del genere è portata avanti dai salesiani, che in due piccoli centri accolgono una quarantina di bambini. Il primo serve per la conoscenza dei bambini e dura un paio di settimane; dopo di che saranno loro stessi a chiedere di passare all’altro centro e iniziare a studiare.
Le suore di Madre Teresa hanno un centro di accoglienza per bambine e ragazze madri. «Le ragazze sono più difficili da trattenere che i bambini; vogliono la libertà a tutti i costi» confessano le suore.
Oltre al recupero dei bambini di strada, la chiesa ha avviato altre opere sociali: asili, scuole, centri di insegnamento d’inglese, musica, danza, ecc., progetti a favore di handicappati e carcerati.
«La vita nella capitale mongola – dice mons. Padilla – è caratterizzata da alcornolismo, violenza e condizione familiare debole e incerta. Ogni settimana provvediamo a fornire cibo e vestiti ad almeno 200 adulti allo sbando. La proposta cristiana entusiasma soprattutto i più giovani, che vedono un’alternativa più decorosa alla realtà attuale».

QUALE MISSIONE?

La sorte di migliaia di piccoli mongoli senza il minimo futuro, con l’incubo della fame, malattie, un’aspettativa di vita bassissima, ci interpella. L’impegno in attività di promozione umana potrebbe essere una priorità della nostra presenza in Mongolia. La chiesa locale e i missionari arrivati prima di noi ci aiutano a cercare il modo più efficace di inserirci nella realtà del paese.
In Mongolia siamo 51 missionari, tra padri, suore e laici di differenti congregazioni, paesi e continenti. Anche lavorare e vivere in comunione con loro fanno parte della nostra missione.
Non sappiamo ancora in quale città lavoreremo, né quale sfida accoglieremo. Di una cosa siamo certi: sull’esempio di Cristo, vogliamo lavorare perché tutti «abbiano vita e l’abbiano in abbondanza».
Ma per il momento continuiamo a rosicchiare l’osso duro della lingua mongola. Al tempo stesso, con la saggezza dell’umiltà e la forza della carità, ci lasciamo illuminare da tutte le persone di buona volontà che incontriamo sul nostro cammino, senza giudicare ciò che ancora non riusciamo a capire fino in fondo.
Ci sono di guida anche le parole di Giovanni Paolo ii: «La chiesa considera con sincero rispetto quei modi di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini».
(Fine prima puntata – continua)

Juan Carlos Greco