«Dov’è la propiska, la cittadinanza?».
È la domanda che milioni di ex cittadini sovietici
si sentono rivolgere, per poter vivere in pace
e con un minimo di garanzie.
Ma a cui non possono rispondere.
Nascono così le nuove ondate di «migranti forzati»dentro la propria patria. Senza un futuro.
Stavo raccogliendo materiale sui senzatetto in Russia e contattavo diverse organizzazioni umanitarie. «No, non ci occupiamo di senzatetto – mi sentii rispondere dall’altro capo del filo – ma di profughi». «Profughi a Mosca? Ceceni, probabilmente» azzardai io. «Non solo». Non indagai oltre in quell’occasione, ma lo feci in seguito. Si parla di 5, addirittura di 8 milioni di persone che hanno varcato i confini della Russia dai primi anni Novanta.
L’Urss ha smesso di esistere il 31 dicembre 1991. La mattina del 1° gennaio 1992, gli ormai ex-cittadini sovietici si risvegliarono abitanti di diversi paesi. Fuori dei confini della neonata Federazione Russa rimasero circa 25 milioni di persone, che vivevano nelle altre repubbliche dell’Unione Sovietica e che, fino al giorno prima, avevano avuto una posizione di preminenza, non solo dal punto di vista politico. Di punto in bianco essi si ritrovarono cittadini di seconda categoria rispetto agli indigeni, la cosiddetta «etnia titolare».
Diventarono gradualmente oggetto di discriminazione: impossibilità di fare carriera, licenziamenti, requisizione di alloggi, obbligo di utilizzare solo la lingua locale. Si cominciò a chiudere le scuole russe, giornali, radio: un desiderio di rivalsa nei confronti di quella che per secoli era stata la nazione dominante.
Tale reazione, presente non solo in tutta l’area ex-sovietica (eccetto in Armenia e Bielorussia), ma anche nell’Est-Europa, può essere, fino a un certo punto, comprensibile, sebbene mai giustificabile. Meno comprensibile è, invece, il fatto che la Russia faccia ben poco per difendere gli interessi dei russi delle repubbliche, nonostante abbia tutte le possibilità di esercitare pressioni in tal senso su quegli stati, assai inferiori a lei per peso politico ed economico. Non solo non li difende, ma crea ostacoli al loro rientro in patria, rendendo arduo l’iter per ottenere la cittadinanza.
<b<IMMIGRATI UNA RISORSA NECESSARIA
Caterina Belugina si era trasferita dalla Russia in Uzbekistan con la famiglia nel 1975; qui aveva terminato gli studi e iniziato la carriera di giornalista. Poi, nel 1992, aveva preso la cittadinanza uzbeka, per non essere costretta ad abbandonare immediatamente il paese.
Qualche tempo fa ha dovuto difendersi dall’accusa di diffamazione a seguito di un articolo, in cui denunciava il comportamento di un alto funzionario statale. Tutto il processo si è tenuto in uzbeko, che Caterina non conosce, e si è concluso con la sua condanna. Ha capito, allora, che quello non era più posto per lei e, come molti altri, si è rivolta al consolato russo per fare domanda di cittadinanza, primo passo per rientrare in patria con tutti i diritti.
«Era chiaro che non ne avrei cavato niente. Al consolato russo c’erano file di tre giorni, la gente dormiva fuori. Anche se fossi riuscita ad avviare la pratica, ci sarebbero voluti due anni e mezzo per ricevere la cittadinanza». Caterina non ha voluto aspettare tanto. È venuta a Mosca dalla sorella, abbandonando quasi tutti i propri averi.
«Avevamo un grande appartamento, l’abbiamo venduto per due soldi. Accade sempre così. Si sa che i russi sono costretti ad andarsene e devono accettare il prezzo che è loro offerto. Non ho portato con me quasi niente. Le tasse doganali erano troppo alte». L’amarezza maggiore Caterina la esprime nei confronti del proprio paese: «La Russia non aiuta i propri figli. C’era da noi un’invalida d’origine tedesca: la Germania non solo le ha dato la cittadinanza, ma le ha mandato una sedia a rotelle e l’ha aiutata a trasferirsi. Anche gli ebrei ricevono assistenza. Di noi, nessuno si occupa. Al contrario. Il nostro consolato a Tashkent chiede il pagamento delle spese consolari in dollari, quando tutti sanno che il possesso di valuta straniera è illegale in Uzbekistan e attira l’attenzione delle autorità».
Tutti gli stati occidentali sono messi in serie difficoltà dalla pressione degli immigrati stranieri sui propri confini; ma nel caso della Russia l’immigrazione è costituita principalmente dagli stessi russi (circa il 77%); e poi, il paese ha un gran bisogno di nuova energia, di braccia e cervelli; d’altri abitanti, insomma.
La catastrofica situazione demografica sta minacciando l’economia e la sicurezza dello stato. Il numero di coscritti al servizio di leva è già considerato insufficiente, tanto che nel dicembre 2003 il distretto militare di Mosca ha organizzato vere e proprie retate per le strade della capitale, fermando e arruolando a forza i giovani, senza dare loro nemmeno la possibilità di avvertire la famiglia.
Se l’emorragia non s’arresta, ci sarà presto penuria di forza lavoro e la necessità d’importare lavoratori e specialisti da altri paesi. Ed ecco che milioni di persone tornano a casa, hanno voglia di lavorare, sono disposte a fare di tutto, pur di ritrovare una vita dignitosa e sfamare la propria famiglia. Sono persone che hanno spesso alle spalle una solida esperienza professionale e anni di convivenza con altre culture, da cui sono stati arricchiti. Inoltre provengono da regioni di cultura musulmana, quindi non hanno abitudine al bere: una qualità assai preziosa per una nazione che paga un alto costo per l’eccessivo consumo di alcolici.
SENZA PERSONE, NESSUN PROBLEMA!
Stando ai dati del Ministero per le nazionalità e politiche migratorie, in Russia ci sono circa 900 mila persone con regolare status di Forced migrants (Fm) o di rifugiati. Sono cifre molto al di sotto della realtà. Basti pensare che dei 100 mila afghani arrivati durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan e rimasti anche dopo il 1989, solo 513 hanno ottenuto tale status; gli altri sono considerati illegali.
È indubbio che l’arrivo di tanta gente pone allo stato notevoli problemi. Affrontarli adeguatamente comporterebbe un grosso impegno, intelligenza, lungimiranza e lo stanziamento di appositi fondi. Nessuno ha ancora smentito il noto aforisma attribuito a Stalin: «Se c’è la persona, c’è il problema; se la persona non c’è, non c’è il problema». Si spiega così la riluttanza delle autorità a concedere lo status di Fm o profugo. Il rifiuto può essere motivato da ragioni formali, come il non rispetto dei termini di presentazione della domanda che molti, tra l’altro, ignorano; oppure può non essere motivato affatto.
Senza lo status i profughi sono considerati come stranieri arrivati di propria volontà e giuridicamente trattati di conseguenza, senza obblighi particolari. Ma anche verso i profughi ufficialmente riconosciuti come tali, le risorse messe a disposizione sono di gran lunga insufficienti a far fronte ai due bisogni fondamentali: casa e lavoro. Negli ultimi anni, tra l’altro, queste risorse si sono andate continuamente riducendo. Il 2002 ha visto drastici tagli delle spese sociali, e non solo in questo campo.
I migranti registrati presso i Servizi immigrazione vengono raccolti in centri dove possono vivere per anni in baracche precarie, senza servizi. Si cerca di mandarli in aree rurali, indipendentemente dal loro ambiente di provenienza e professione. Il principio è di ripopolare le zone che si stanno svuotando.
Di loro si occupano anche organizzazioni umanitarie inteazionali, in primis l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Acnur), che in Russia è molto presente, e lo Iom (Inteational Organization for Migration). «Anche i migranti registrati hanno difficoltà a ricevere assistenza medica a causa del cattivo funzionamento del servizio sanitario statale – spiega Edwin McClain, responsabile Iom per la Russia -. Per questo abbiamo allestito ambulatori nelle zone di raccolta dei migranti. Purtroppo, abbiamo risorse limitate; quindi, ci rivolgiamo soprattutto alle categorie più vulnerabili: madri sole, handicappati, anziani. Abbiamo anche avviato un programma di microcredito».
Il vantaggio di essere un «migrante ufficiale» non sta solo nel ricevere gli aiuti statali (comunque miseri), ma nel vedersi più facilmente riconosciuti alcuni diritti fondamentali della persona che si tende, invece, a negare agli altri migranti, contrariamente ai dettami della costituzione.
Un espediente utilizzato per escludere intere categorie di persone da servizi destinati a tutti è quello della propiska, o registrazione del luogo di residenza (vedi Missioni Consolata, giugno 2001), che in Russia non è, nella pratica, la semplice constatazione di un dato di fatto, come vorrebbe la costituzione, dove viene sancita la libertà di movimento.
I NUOVI SCHIAVI
Per la registrazione, le autorità regionali introducono pre-requisiti di cui non si parla nelle leggi federali: c’è chi condiziona la registrazione alla presenza di familiari che già vivono sul posto da 5-10 anni; chi chiede garanzie di lavoro e alloggio da parte di aziende locali, o il pagamento di tasse non previste dalla legge; chi adduce criteri di ampiezza dell’alloggio, chi richiede particolari certificati medici, chi introduce quote d’ingresso nella regione e chi, addirittura, nega la registrazione a interi gruppi di persone, ad esempio, ai ceceni.
Il primo e più grande beffeggiatore della costituzione è il comune di Mosca, che respinge migranti e profughi da scuole, luoghi di lavoro, ospedali. Si è così creata una situazione alquanto paradossale. Al Cremlino è insediato il presidente Putin, massima autorità della Federazione, garante supremo delle sue leggi, al municipio di Mosca, c’è il sindaco, il sig. Luzhkov, che di queste leggi se ne fa un baffo.
«Per essere registrata presso mia sorella a Mosca ho dovuto procurarmi documenti che dimostrano il nostro legame di parentela». È ancora Caterina Belugina che racconta. A lei è andata bene. Quando ci siamo incontrate la prima volta, era appena rimpatriata e disoccupata, ma, grazie alla sua esperienza di giornalista, ha trovato lavoro presso il «Forum delle unioni dei migranti». Ha iniziato solo qualche mese fa, ma ha già tante storie da raccontare.
«Sergej viveva con la madre in Kazakistan. All’età di 14 anni decise di venire ad abitare dal padre a Mosca. Da allora, sono passati diversi anni, ma non è riuscito ad ottenere né la registrazione, né la cittadinanza, perché… non è cittadino russo. Vedono dal documento che è nato in Kazakistan e lo spediscono all’ambasciata kazaka. Lì gli spiegano che, non essendo più residente in Kazakistan e non avendovi svolto il servizio di leva, non gli possono dare la cittadinanza. Il militare, Sergej l’ha fatto in Russia, con la promessa che ciò gli avrebbe dato diritto alla cittadinanza, ma non ha ottenuto nulla».
Senza registrazione Sergej è un fuorilegge. Come lui a Mosca sono migliaia. Vivono senza garanzie sociali, né assistenza medica gratuita, né un lavoro regolare, poiché è vietato assumere persone prive di registrazione. Chiuse le possibilità di un impiego legale, le autorità moscovite aprono le porte al lavoro nero e al commercio illegale, innescando un meccanismo perverso: gli «illegali» sono costretti a corrompere la polizia; tale pratica porta alla criminalizzazione della polizia e via di seguito.
«Profughi e migranti sono fonte di guadagno per le autorità locali e la polizia – continua Caterina – che li trattano, tra l’altro, come persone di seconda categoria. E la popolazione, ne assimila il disprezzo». La condizione di senza-diritti in cui i migranti si vengono a trovare li rende oggetto di ogni possibile arbitrio e genera nuove forme di schiavitù.
È il caso di Tat’jana: in Kazakistan lavorava in un centro di ricerca come geologa. Ora fa la mungitrice in una fattoria; vivono in quattro nel gabbiotto del custode. Il figlio è andato ad arruolarsi al distretto militare; la propiska non gliela danno lo stesso; ma almeno riceve cibo e vestiti.
O il caso di un gruppo di migranti, tiranneggiati dal presidente di un kolchoz della regione di Mosca. Tra di loro c’è una famiglia venuta dal Kirghizistan: si ammala il figlioletto di pochi mesi; per tre giorni lo tengono in ospedale senza pagare, ma poi chiedono loro una retta di 300 rubli al giorno, perché non hanno la cittadinanza. Ma soldi non ne hanno: il kolchoz non li paga da mesi e non si possono rivalere perché sono irregolari.
Per lo stesso motivo ai Bogonenko, arrivati dal Kirghizistan, ci è voluto un anno per iscrivere all’anagrafe il loro nuovo nato. Dov’è la propiska? chiedevano i funzionari. Così molti non ci provano neanche a denunciare la nascita di un figlio. Neppure i matrimoni vengono riconosciuti, se uno dei fidanzati non ha la cittadinanza.
LO STATO ASSENTE
Lo stato non solo fa poco o nulla per sostenere i migranti, ma crea condizioni tali che rendono ancora più difficile e disperata la loro posizione e ostacola i tentativi di una soluzione autonoma dei problemi.
Alcune organizzazioni non governative russe assistono i migranti e li aiutano a difendersi dall’arroganza dei pubblici funzionari. Al «Comitato di assistenza civica» di Mosca ho incontrato Khava Sultanovna, una profuga cecena addetta ai problemi sociali. Anche per lei, come per Caterina, trovare lavoro presso una Ong è stata una benedizione. «Abbiamo gente dalle 10 del mattino alle 10 di sera. Anche quando siamo chiusi, c’è sempre qualcuno di tuo per i casi urgenti.
Distribuiamo una piccola somma di denaro mensile e vestiario a chi ne fa richiesta, ma soprattutto offriamo assistenza legale. I nostri avvocati spiegano cosa bisogna fare nel caso di angherie da parte della polizia o venga rifiutato lo status di profugo. Io aiuto i genitori a stendere richieste, perché i figli vengano ammessi a scuola. Scriviamo agli ospedali, alle questure, spiegando la loro situazione. Le risposte sono quasi sempre positive. D’altra parte, un rifiuto per iscritto è sempre più impegnativo».
Le Ong che prendono le parti dei cittadini ce la mettono tutta. «Come fate a sostenervi? Chi vi dà i soldi?» domando a Khava. «Locali, stipendi ed equipaggiamento ci sono offerti dall’Acnur. È molto, ma non basta, così chiediamo soldi a tutti. Lo stato non dà niente; sponsors russi non ne troviamo. Due anni fa, un miliardario ceceno ci ha dato 3 mila dollari, ma si era giusto prima delle elezioni. Per il momento rimangono solo gli sponsors stranieri».
Ascolto, ma non riesco a rallegrarmi per tali successi, perché altre considerazioni s’impongono. Amare considerazioni. Dunque, quando non possono fare altrimenti, i funzionari agiscono secondo la legge. Quando i cittadini si riuniscono per far valere i propri diritti, quando c’è qualcuno dietro di te a darti man forte o tu stesso, cosciente di quello che ti spetta, non ti lasci intimorire… qualcosa si riesce ad ottenere.
Ho un amico che vive da sempre a Mosca senza propiska. Le autorità lo sanno, ma non osano toccarlo, perché è un tipo che si sa ben difendere. Però sono ancora troppo pochi coloro che sanno o vogliono difendersi; così chi ha in mano il potere, grande o piccolo che sia, ha buon gioco. La sottomissione, l’inerzia e, purtroppo, anche la mancanza di solidarietà tra la gente, finiscono per corrompere il potere che diventa sempre più sfacciato, se non trova argini nella società civile.
BOX 1
POLLI DA SPENNARE
Stavo raccogliendo materiale sui senzatetto in Russia e contattavo diverse organizzazioni umanitarie. «No, non ci occupiamo di senzatetto – mi sentii rispondere dall’altro capo del filo – ma di profughi». «Profughi a Mosca? Ceceni, probabilmente» azzardai io. «Non solo». Non indagai oltre in quell’occasione, ma lo feci in seguito. Si parla di 5, addirittura di 8 milioni di persone che hanno varcato i confini della Russia dai primi anni Novanta.
L’Urss ha smesso di esistere il 31 dicembre 1991. La mattina del 1° gennaio 1992, gli ormai ex-cittadini sovietici si risvegliarono abitanti di diversi paesi. Fuori dei confini della neonata Federazione Russa rimasero circa 25 milioni di persone, che vivevano nelle altre repubbliche dell’Unione Sovietica e che, fino al giorno prima, avevano avuto una posizione di preminenza, non solo dal punto di vista politico. Di punto in bianco essi si ritrovarono cittadini di seconda categoria rispetto agli indigeni, la cosiddetta «etnia titolare».
Diventarono gradualmente oggetto di discriminazione: impossibilità di fare carriera, licenziamenti, requisizione di alloggi, obbligo di utilizzare solo la lingua locale. Si cominciò a chiudere le scuole russe, giornali, radio: un desiderio di rivalsa nei confronti di quella che per secoli era stata la nazione dominante.
Tale reazione, presente non solo in tutta l’area ex-sovietica (eccetto in Armenia e Bielorussia), ma anche nell’Est-Europa, può essere, fino a un certo punto, comprensibile, sebbene mai giustificabile. Meno comprensibile è, invece, il fatto che la Russia faccia ben poco per difendere gli interessi dei russi delle repubbliche, nonostante abbia tutte le possibilità di esercitare pressioni in tal senso su quegli stati, assai inferiori a lei per peso politico ed economico. Non solo non li difende, ma crea ostacoli al loro rientro in patria, rendendo arduo l’iter per ottenere la cittadinanza.
immigrati:
una risorsa necessaria
Caterina Belugina si era trasferita dalla Russia in Uzbekistan con la famiglia nel 1975; qui aveva terminato gli studi e iniziato la carriera di giornalista. Poi, nel 1992, aveva preso la cittadinanza uzbeka, per non essere costretta ad abbandonare immediatamente il paese.
Qualche tempo fa ha dovuto difendersi dall’accusa di diffamazione a seguito di un articolo, in cui denunciava il comportamento di un alto funzionario statale. Tutto il processo si è tenuto in uzbeko, che Caterina non conosce, e si è concluso con la sua condanna. Ha capito, allora, che quello non era più posto per lei e, come molti altri, si è rivolta al consolato russo per fare domanda di cittadinanza, primo passo per rientrare in patria con tutti i diritti.
«Era chiaro che non ne avrei cavato niente. Al consolato russo c’erano file di tre giorni, la gente dormiva fuori. Anche se fossi riuscita ad avviare la pratica, ci sarebbero voluti due anni e mezzo per ricevere la cittadinanza». Caterina non ha voluto aspettare tanto. È venuta a Mosca dalla sorella, abbandonando quasi tutti i propri averi.
«Avevamo un grande appartamento, l’abbiamo venduto per due soldi. Accade sempre così. Si sa che i russi sono costretti ad andarsene e devono accettare il prezzo che è loro offerto. Non ho portato con me quasi niente. Le tasse doganali erano troppo alte». L’amarezza maggiore Caterina la esprime nei confronti del proprio paese: «La Russia non aiuta i propri figli. C’era da noi un’invalida d’origine tedesca: la Germania non solo le ha dato la cittadinanza, ma le ha mandato una sedia a rotelle e l’ha aiutata a trasferirsi. Anche gli ebrei ricevono assistenza. Di noi, nessuno si occupa. Al contrario. Il nostro consolato a Tashkent chiede il pagamento delle spese consolari in dollari, quando tutti sanno che il possesso di valuta straniera è illegale in Uzbekistan e attira l’attenzione delle autorità».
Tutti gli stati occidentali sono messi in serie difficoltà dalla pressione degli immigrati stranieri sui propri confini; ma nel caso della Russia l’immigrazione è costituita principalmente dagli stessi russi (circa il 77%); e poi, il paese ha un gran bisogno di nuova energia, di braccia e cervelli; d’altri abitanti, insomma.
La catastrofica situazione demografica sta minacciando l’economia e la sicurezza dello stato. Il numero di coscritti al servizio di leva è già considerato insufficiente, tanto che nel dicembre 2003 il distretto militare di Mosca ha organizzato vere e proprie retate per le strade della capitale, fermando e arruolando a forza i giovani, senza dare loro nemmeno la possibilità di avvertire la famiglia.
Se l’emorragia non s’arresta, ci sarà presto penuria di forza lavoro e la necessità d’importare lavoratori e specialisti da altri paesi. Ed ecco che milioni di persone tornano a casa, hanno voglia di lavorare, sono disposte a fare di tutto, pur di ritrovare una vita dignitosa e sfamare la propria famiglia. Sono persone che hanno spesso alle spalle una solida esperienza professionale e anni di convivenza con altre culture, da cui sono stati arricchiti. Inoltre provengono da regioni di cultura musulmana, quindi non hanno abitudine al bere: una qualità assai preziosa per una nazione che paga un alto costo per l’eccessivo consumo di alcolici.
senza persone,
nessun problema!
Stando ai dati del Ministero per le nazionalità e politiche migratorie, in Russia ci sono circa 900 mila persone con regolare status di Forced migrants (Fm) o di rifugiati. Sono cifre molto al di sotto della realtà. Basti pensare che dei 100 mila afghani arrivati durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan e rimasti anche dopo il 1989, solo 513 hanno ottenuto tale status; gli altri sono considerati illegali.
È indubbio che l’arrivo di tanta gente pone allo stato notevoli problemi. Affrontarli adeguatamente comporterebbe un grosso impegno, intelligenza, lungimiranza e lo stanziamento di appositi fondi. Nessuno ha ancora smentito il noto aforisma attribuito a Stalin: «Se c’è la persona, c’è il problema; se la persona non c’è, non c’è il problema». Si spiega così la riluttanza delle autorità a concedere lo status di Fm o profugo. Il rifiuto può essere motivato da ragioni formali, come il non rispetto dei termini di presentazione della domanda che molti, tra l’altro, ignorano; oppure può non essere motivato affatto.
Senza lo status i profughi sono considerati come stranieri arrivati di propria volontà e giuridicamente trattati di conseguenza, senza obblighi particolari. Ma anche verso i profughi ufficialmente riconosciuti come tali, le risorse messe a disposizione sono di gran lunga insufficienti a far fronte ai due bisogni fondamentali: casa e lavoro. Negli ultimi anni, tra l’altro, queste risorse si sono andate continuamente riducendo. Il 2002 ha visto drastici tagli delle spese sociali, e non solo in questo campo.
I migranti registrati presso i Servizi immigrazione vengono raccolti in centri dove possono vivere per anni in baracche precarie, senza servizi. Si cerca di mandarli in aree rurali, indipendentemente dal loro ambiente di provenienza e professione. Il principio è di ripopolare le zone che si stanno svuotando.
Di loro si occupano anche organizzazioni umanitarie inteazionali, in primis l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Acnur), che in Russia è molto presente, e lo Iom (Inteational Organization for Migration). «Anche i migranti registrati hanno difficoltà a ricevere assistenza medica a causa del cattivo funzionamento del servizio sanitario statale – spiega Edwin McClain, responsabile Iom per la Russia -. Per questo abbiamo allestito ambulatori nelle zone di raccolta dei migranti. Purtroppo, abbiamo risorse limitate; quindi, ci rivolgiamo soprattutto alle categorie più vulnerabili: madri sole, handicappati, anziani. Abbiamo anche avviato un programma di microcredito».
Il vantaggio di essere un «migrante ufficiale» non sta solo nel ricevere gli aiuti statali (comunque miseri), ma nel vedersi più facilmente riconosciuti alcuni diritti fondamentali della persona che si tende, invece, a negare agli altri migranti, contrariamente ai dettami della costituzione.
Un espediente utilizzato per escludere intere categorie di persone da servizi destinati a tutti è quello della propiska, o registrazione del luogo di residenza (vedi Missioni Consolata, giugno 2001), che in Russia non è, nella pratica, la semplice constatazione di un dato di fatto, come vorrebbe la costituzione, dove viene sancita la libertà di movimento.
i nuovi schiavi
Per la registrazione, le autorità regionali introducono pre-requisiti di cui non si parla nelle leggi federali: c’è chi condiziona la registrazione alla presenza di familiari che già vivono sul posto da 5-10 anni; chi chiede garanzie di lavoro e alloggio da parte di aziende locali, o il pagamento di tasse non previste dalla legge; chi adduce criteri di ampiezza dell’alloggio, chi richiede particolari certificati medici, chi introduce quote d’ingresso nella regione e chi, addirittura, nega la registrazione a interi gruppi di persone, ad esempio, ai ceceni.
Il primo e più grande beffeggiatore della costituzione è il comune di Mosca, che respinge migranti e profughi da scuole, luoghi di lavoro, ospedali. Si è così creata una situazione alquanto paradossale. Al Cremlino è insediato il presidente Putin, massima autorità della Federazione, garante supremo delle sue leggi, al municipio di Mosca, c’è il sindaco, il sig. Luzhkov, che di queste leggi se ne fa un baffo.
«Per essere registrata presso mia sorella a Mosca ho dovuto procurarmi documenti che dimostrano il nostro legame di parentela». È ancora Caterina Belugina che racconta. A lei è andata bene. Quando ci siamo incontrate la prima volta, era appena rimpatriata e disoccupata, ma, grazie alla sua esperienza di giornalista, ha trovato lavoro presso il «Forum delle unioni dei migranti». Ha iniziato solo qualche mese fa, ma ha già tante storie da raccontare.
«Sergej viveva con la madre in Kazakistan. All’età di 14 anni decise di venire ad abitare dal padre a Mosca. Da allora, sono passati diversi anni, ma non è riuscito ad ottenere né la registrazione, né la cittadinanza, perché… non è cittadino russo. Vedono dal documento che è nato in Kazakistan e lo spediscono all’ambasciata kazaka. Lì gli spiegano che, non essendo più residente in Kazakistan e non avendovi svolto il servizio di leva, non gli possono dare la cittadinanza. Il militare, Sergej l’ha fatto in Russia, con la promessa che ciò gli avrebbe dato diritto alla cittadinanza, ma non ha ottenuto nulla».
Senza registrazione Sergej è un fuorilegge. Come lui a Mosca sono migliaia. Vivono senza garanzie sociali, né assistenza medica gratuita, né un lavoro regolare, poiché è vietato assumere persone prive di registrazione. Chiuse le possibilità di un impiego legale, le autorità moscovite aprono le porte al lavoro nero e al commercio illegale, innescando un meccanismo perverso: gli «illegali» sono costretti a corrompere la polizia; tale pratica porta alla criminalizzazione della polizia e via di seguito.
«Profughi e migranti sono fonte di guadagno per le autorità locali e la polizia – continua Caterina – che li trattano, tra l’altro, come persone di seconda categoria. E la popolazione, ne assimila il disprezzo». La condizione di senza-diritti in cui i migranti si vengono a trovare li rende oggetto di ogni possibile arbitrio e genera nuove forme di schiavitù.
È il caso di Tat’jana: in Kazakistan lavorava in un centro di ricerca come geologa. Ora fa la mungitrice in una fattoria; vivono in quattro nel gabbiotto del custode. Il figlio è andato ad arruolarsi al distretto militare; la propiska non gliela danno lo stesso; ma almeno riceve cibo e vestiti.
O il caso di un gruppo di migranti, tiranneggiati dal presidente di un kolchoz della regione di Mosca. Tra di loro c’è una famiglia venuta dal Kirghizistan: si ammala il figlioletto di pochi mesi; per tre giorni lo tengono in ospedale senza pagare, ma poi chiedono loro una retta di 300 rubli al giorno, perché non hanno la cittadinanza. Ma soldi non ne hanno: il kolchoz non li paga da mesi e non si possono rivalere perché sono irregolari.
Per lo stesso motivo ai Bogonenko, arrivati dal Kirghizistan, ci è voluto un anno per iscrivere all’anagrafe il loro nuovo nato. Dov’è la propiska? chiedevano i funzionari. Così molti non ci provano neanche a denunciare la nascita di un figlio. Neppure i matrimoni vengono riconosciuti, se uno dei fidanzati non ha la cittadinanza.
Lo stato assente
Lo stato non solo fa poco o nulla per sostenere i migranti, ma crea condizioni tali che rendono ancora più difficile e disperata la loro posizione e ostacola i tentativi di una soluzione autonoma dei problemi.
Alcune organizzazioni non governative russe assistono i migranti e li aiutano a difendersi dall’arroganza dei pubblici funzionari. Al «Comitato di assistenza civica» di Mosca ho incontrato Khava Sultanovna, una profuga cecena addetta ai problemi sociali. Anche per lei, come per Caterina, trovare lavoro presso una Ong è stata una benedizione. «Abbiamo gente dalle 10 del mattino alle 10 di sera. Anche quando siamo chiusi, c’è sempre qualcuno di tuo per i casi urgenti.
Distribuiamo una piccola somma di denaro mensile e vestiario a chi ne fa richiesta, ma soprattutto offriamo assistenza legale. I nostri avvocati spiegano cosa bisogna fare nel caso di angherie da parte della polizia o venga rifiutato lo status di profugo. Io aiuto i genitori a stendere richieste, perché i figli vengano ammessi a scuola. Scriviamo agli ospedali, alle questure, spiegando la loro situazione. Le risposte sono quasi sempre positive. D’altra parte, un rifiuto per iscritto è sempre più impegnativo».
Le Ong che prendono le parti dei cittadini ce la mettono tutta. «Come fate a sostenervi? Chi vi dà i soldi?» domando a Khava. «Locali, stipendi ed equipaggiamento ci sono offerti dall’Acnur. È molto, ma non basta, così chiediamo soldi a tutti. Lo stato non dà niente; sponsors russi non ne troviamo. Due anni fa, un miliardario ceceno ci ha dato 3 mila dollari, ma si era giusto prima delle elezioni. Per il momento rimangono solo gli sponsors stranieri».
A scolto, ma non riesco a rallegrarmi per tali successi, perché altre considerazioni s’impongono. Amare considerazioni. Dunque, quando non possono fare altrimenti, i funzionari agiscono secondo la legge. Quando i cittadini si riuniscono per far valere i propri diritti, quando c’è qualcuno dietro di te a darti man forte o tu stesso, cosciente di quello che ti spetta, non ti lasci intimorire… qualcosa si riesce ad ottenere.
Ho un amico che vive da sempre a Mosca senza propiska. Le autorità lo sanno, ma non osano toccarlo, perché è un tipo che si sa ben difendere. Però sono ancora troppo pochi coloro che sanno o vogliono difendersi; così chi ha in mano il potere, grande o piccolo che sia, ha buon gioco. La sottomissione, l’inerzia e, purtroppo, anche la mancanza di solidarietà tra la gente, finiscono per corrompere il potere che diventa sempre più sfacciato, se non trova argini nella società civile.
Bianca Maria Balestra