LETTERA Indios yanomami strumentalizzati?

Spettabile redazione,
vi ringraziamo del bellissimo lavoro di annuncio del vangelo che svolgete attraverso Missioni Consolata. È una rivista che ci interessa molto, perché i suoi temi sono coinvolgenti e missionari. Anche gli indios yanomami (Roraima/Brasile), fra i quali lavoriamo, gradiscono sfogliarla, anche per le foto colorate che pubblica.
In modo speciale vi ringraziamo del dossier di febbraio 2004 su Roraima, elaborato dall’équipe della Campagna Nós existimos. Richiamiamo la vostra attenzione sulle pagine 34-35 e, più precisamente, sul servizio fotografico.
Ci ha suscitato sorpresa e indignazione la foto di due bambini yanomami sopra una discarica nella città di Boa Vista. Può sembrare che quei bambini stiano fra i rifiuti chiedendo aiuto. Anche alcuni yanomami, che hanno visto la foto, non l’hanno gradita. Suggeriamo la rettifica, dato che la rivista difende la giustizia e la verità dei fatti.
Gli yanomami si rifiutano di essere usati per presentare i problemi degli altri popoli indigeni. Hanno l’impressione che, quando in Europa si parla di indios, automaticamente si usino fotografie relative a loro stessi.
Nella cultura yanomami il viso e le mani «sporchi di cibo» non sono segno di sporcizia, ma di abbondanza. È così che interpretiamo la foto di pagina 34: sono due bambini nutriti e sani. Per questo la foto ci sembra mal posta sulla discarica. Inoltre i bambini yanomami non vanno a Boa Vista da soli, ma accompagnati dai genitori per cure mediche.
Oggi la discarica di Boa Vista è chiusa. Pertanto la sua foto non ha senso, dal momento che il dossier tratta problemi attuali e non fatti superati (dopo pressioni inteazionali).
La rivista e i suoi sostenitori possono aiutarci a superare la strumentalizzazione degli yanomami che avviene all’estero? Essere indigeni non è solo avere le piume in testa o la faccia dipinta, ma è riconoscere le loro differenze e non generalizzare con le culture.
Come équipe missionaria, non possiamo lasciar passare inosservato questo equivoco che ci ha procurato disagio e preoccupazione. Con questo non dubitiamo delle buone intenzioni di Missioni Consolata. Ma quella foto dà adito a varie interpretazioni.
Come figli del beato Giuseppe Allamano siamo chiamati, noi e voi, a rispettare la dignità delle minoranze etniche, tra cui il popolo yanomami.
Con la speranza che la nostra richiesta sia tenuta in considerazione dalla rivista, vi mandiamo un forte abbraccio fraterno, caloroso e cordiale.

I padri
Laurindo e Gianfranco,
le suore Blanca Yolanda, José Iris e Noeli,
i laici missionari
Manuel e Paula
Boa Vista (Brasile)

Siamo grati all’équipe missionaria. Condividiamo pure i rilievi critici, specialmente quello di non strumentalizzare gli yanomami… esotici, belli, nudi. Ecco perché, nei nostri viaggi a Roraima, non abbiamo mai «curiosato» fra loro. Che dire, allora, delle foto sui bambini yanomami e la discarica?
1. L’accostamento (non la sovrapposizione) delle due immagini è un’opera grafica di «photoshop» e ha un significato ideale: ricorda l’auspicabile unione fra indios ed emarginati della città (nonché contadini poveri), per cui è stata lanciata la Campagna Nós existimos.
2. La discarica non esiste più, ma non mancano a Boa Vista luoghi di degrado, che coinvolgono tutti, indios compresi.
3. «Gli yanomami si rifiutano di essere usati per presentare i problemi degli altri popoli indigeni…». L’affermazione è grave. Gli yanomami non possono scordare che, nel 1992, l’omologazione della loro terra avvenne grazie alla solidarietà di milioni di italiani, sensibilizzati dai missionari della Consolata. Oggi sono gli indios macuxí, wapichana, ingarikò, taurepang… a lottare per lo stesso problema. E gli yanomami, che hanno già beneficiato del sostegno di tanti simpatizzanti, dovrebbero essere con loro! Se non lo sono, spetta ai missionari operare per una più larga intesa fra tutti i poveri, senza escludere nessuno.
Questo è lo spirito profetico di Nós existimos, richiesto con forza anche dal vescovo di Roraima, Apparecido Diaz, prematuramente scomparso il 29 maggio scorso.

aa.vv.




LETTERA “Far come se” o “far finta che…”

Cari missionari,
salve! Una tantum concorro anch’io a prendere un po’ del vostro tempo e spazio. M’induce a farlo l’intervista al padre Bartolomeo Sorge (Missioni Consolata, maggio 2004) e, in particolare, la sconfortata-sconfortante conclusione: purtroppo troppi cristiani fanno «come se» Gesù Cristo «fosse risorto». «Viviamo come se il vangelo fosse vero, invece è vero!».
Dunque «troppi fanno…» e, ampliando, «troppi pensano, parlano, scrivono solo come se…». Chiedo:
– quale alternativa praticabile l’intervistato rimpiange e consiglia a noi cristiani comuni? (non a Madre Teresa o a Tommaso d’Aquino);
– come potremmo/dovremmo «leggere chiara l’alternativa» noi, poveretti, nella vita dei consacrati? (di nuovo: non in figure eccezionali);
– non è un po’ sofistico e pericoloso scendere a distinzioni/dubbi del genere, pur nella liceità del distingue semper?
Senza volare troppo alto, supponiamo che alcuni poveretti, come me, chiedano alla rivista: «Cosa vuol dire l’intervistato? Forse che non bisogna fare come se Gesù Cristo fosse risorto davvero? Oppure, che troppi cristiani dichiarati fanno finta, a parole, che…? O, ancora, che la chiesa militante non testimonia più abbastanza efficacemente la verità/validità storica della risurrezione e dei vangeli?
In età giovanile ho sentito anch’io stimati predicatori dire che «far come se…» è in pratica il massimo che ci è richiesto/concesso di (di)mostrare. Oggi mi trascino il busillis: qual è il confine tra «far come se…» e «far finta che…», finché non venga il martirio/testimonianza, per i prescelti (ma… «Padre nostro, non metterci troppo alla prova!»), e il momento finale rivelatorio universale?
In gita a Firenze, davanti alla statua del Savonarola, la guida turistica (poco entusiasta di questo concittadino scomodo) diceva: «Per fortuna non l’hanno ascoltato: in pratica era un talebano di quei tempi!». Savonarola «faceva come se…», oppure «faceva finta che…»? E i suoi avversari «istituzionali»? Savonarola come Hitler, Stalin, Pol Pot, Pinochet, Khomeini, ecc.?
Nel piacere di farsi leggere, la tentazione sarebbe di tirar in ballo (sul «far come…» o «far finta…») quantomeno il padre Abramo, poi Mosè, Pietro e… addio!… Ma ora too ad essere il solito discreto, attento e affezionato lettore.
Bidelio
Bergamo

Lettera arguta, ma anche enigmatica e, forse, non facile. Resta il dilemma: «far come se…» o «far finta che…»? Il signor Bidelio stesso cerca di rispondere con la seguente postilla.
«La retorica/polemica (non del tutto giocosa, benché un tantino gioconda) viene subito sgonfiata se si ammette che la frase dell’intervistato abbia subito un refuso, perdendo un (quasi) innocente “non”. “Viviamo come se Gesù non fosse risorto… come se il vangelo non fosse vero”.
Al contrario, l’esercizio acquista spessore appena si rifletta trattarsi di “fede” e non di “documenti (più o meno) notarili”. Allora le alternative coerenti sono:
a) credere che Gesù, che il vangelo, che Dio… e comportarsi come credendoci, da persone che “ci credono” (con i propri limiti, sforzi e tentennamenti);
b) non credere… e comportarsi come non credendoci, da persone che “credono che non…”.
La scelta non è indifferente. Le ragioni non sono equilibrate al 50%. Le conseguenze non sono tutte automaticamente naturali/facili/felici da una parte sola…».
La terza alternativa – aggiungiamo noi – potrebbe essere: sia padre Sorge sia il signor Bidelio affermano le stesse cose, ma con approcci diversi.

Bidelio




LETTERA Torture nel carcere di Abu Ghraib

Spettabile redazione,
trovo ridicolo parlare delle torture compiute nel carcere di Abu Ghraib (Iraq) come di spiacevoli inconvenienti che non devono e non possono incrinare la fiducia negli Stati Uniti e nelle loro forze armate.
I soldati e le soldatesse che, in Iraq, hanno angariato decine e decine di prigionieri non sono assolutamente equiparabili a una manciata di mele marce in uno splendido giardino fiorito, che emana fragranze e profumi da tutti i pori; sono invece il risultato fin troppo ovvio di una filosofia militare nella quale il ruolo del torturatore è previsto, ed è un ruolo per nulla marginale.
Per quanto raccapricciante possa essere, l’immagine della soldatessa Lynndie England, che tiene al guinzaglio il malcapitato prigioniero iracheno, diventa una quisquilia se paragonata alle immagini del film-documentario «Faccia di spia» del 1975, incentrato per buona parte sul ruolo che la tortura ha giocato nella «strategia della tensione», imposta dalla Cia all over the world…
Domenico Di Roberto
Ancona

A chi ha creduto alla fandonia che «l’onore degli Stati Uniti non può essere intaccato dal comportamento dei carcerieri di Abu Ghraib», ricordo che a Fort Benning, nello stato della Georgia, esiste una scuola chiamata S.O.A., dove la tortura è una normale materia di insegnamento.
È la scuola dove si sono formati molti spietati dittatori, uomini che si sono resi protagonisti di atti di inaudita ferocia in quasi tutti i paesi dell’America Centrale e Meridionale. Il fatto che la scuola abbia cambiato nome (ora si chiama «Istituto dell’emisfero occidentale per la cooperazione alla sicurezza») non deve trarre in inganno: non sono cambiati né i programmi né gli obiettivi…
Com’era logico aspettarsi, i generali e ufficiali diplomati alla S.O.A. non si sono limitati ad applicare quanto, da «alunni, avevano appreso dai rispettivi insegnanti, ma hanno istruito nell’arte della tortura, del massacro e del colpo di stato altri “studenti”…».
Forse è superfluo aggiungere che queste scuole di crimini alimentano una fiorente industria. Secondo il presidente di Amnesty Inteational, Marco Bertotto, oggi nel mondo operano almeno 150 aziende specializzate nella produzione di strumenti di tortura, dai più semplici ai più sofisticati.
Rita Ferri
Fano (AN)

Alla S.O.A. ha accennato pure l’editoriale di Missioni Consolata, luglio/agosto 2004… Purtroppo, in barba a tutte le prescrizioni, la tortura è ancora in voga in tante regioni del mondo. Riconoscerlo è positivo, ma non assolve dalle proprie responsabilità.

Domenico di Roberto




LETTERA La guerra le guerre, il libro

Spettabile redazione,
grazie del volume La guerra, le guerre. A prima vista è molto bello, godibile (nonostante racconti la raffinata barbarie contemporanea) e aggiornato fino alla messa in stampa. Mi pare pure politicamente condivisibile.
Complimenti per il capitolo sulla Colombia. Vi ho trovato, al di là delle citazioni, alcune riflessioni del mio libro Colombia, il paese dell’eccesso. Di questo sono molto contento, perché significa che siamo di più nel contrastare gli stereotipi che, fino a pochi anni fa, marcavano l’idea della Colombia, anche in molti settori progressisti (adesso c’è, per lo meno, una varietà e vivacità di posizioni).
Ma il migliore complimento è che… mi dispiace di non avere collaborato alla stesura del libro. Però vi saranno altre occasioni nel futuro.
Se vi andasse di presentare La guerra, le guerre a Napoli, dove io vivo (pur essendo torinese di nascita e nordico di origine), contate su di me.
Guido Piccoli
Napoli

Lettera di un giornalista e scrittore. L’ultimo libro di Guido Piccoli è: Colombia, il paese dell’eccesso, Feltrinelli, Milano 2003.
La guerra, le guerre è curato dai «nostri» Benedetto Bellesi e Paolo Moiola: conta ben 384 pagine; è edito dall’Emi, Bologna, al prezzo di 15 euro. Per eventuali acquisti contattare:
Libreria
Missioni Consolata,
tel.fax 011.447 66 95
libmisco@tin.it
Informazioni anche su:
www.missioniconsolata.it
www.scuolaperalternativa.it
www.emi.it

Guido Piccoli




LETTERA Federico ha fatto centro

«Missioni Consolata» di marzo scorso pubblicava «Il compito in classe di Federico», che riportava anche pareri, colti in famiglia, su George Bush, Silvio Berlusconi e la guerra in Iraq.
Il compito ha suscitato varie reazioni. Ecco l’ultima.

Cari redattori,
dopo aver letto le reazioni indignate per «Il compito di Federico», sento di dover prendere la parola: prima di tutto per una critica verso Missioni Consolata e la mamma del ragazzo.
L’aver pubblicato «il compito» ha voluto dire scoprire il fianco, dare occasione ai lettori che non condividono la linea editoriale della vostra stimata rivista per condannare un’espressione di non violenza. Senza tener conto del fatto che avete esposto uno studente di neanche 14 anni ad attacchi di persone sconosciute, che non possono permettersi di definirlo come «un povero ragazzo», il quale si esprime secondo quanto ascolta in classe e famiglia o alla televisione.
Conosco Federico come persona attenta a ciò che gli accade attorno, studente con ottimi risultati, ragazzo sensibile ed educato. Dobbiamo fargli il processo, perché nella sua famiglia, forse (mi auguro) come in tutte le famiglie, si parla di politica, di guerra e pace, mentre lui è lì, ascolta i genitori, le altre persone adulte e probabilmente ne condivide il pensiero? Chi non è stato in qualche modo condizionato dall’ambiente in cui è nato e cresciuto?
Sarebbe forse più accettabile che Federico esprimesse «il pensiero unico» che sta affermandosi non solo in Italia, ma nel mondo, a livello globale, vale a dire l’assoggettazione totale ad un sistema culturale imposto da televisione, pubblicità e consumo?
Vorrei che il dibattito non si fosse sviluppato sulle pagine di una rivista, che coinvolge prettamente adulti, ma che avesse avuto luogo nella scuola di Federico, che i suoi insegnanti avessero trovato spunto dal suo tema per far discutere gli studenti, per farli crescere nell’attenzione, nel rispetto dei valori fondamentali della nostra Costituzione, nell’analisi critica di opinioni e fatti, nella progettazione di un domani meno ingiusto.
Le famiglie sono quelle che sono: diverse, tradizionali o scompaginate; dialogano con i figli o a mala pena li conoscono. È difficile intervenire in questa sfera; ma la scuola no, è un’altra cosa, è affare nostro, di tutti. È alla scuola prima di tutto che va il mio pensiero, all’università, a tutti i luoghi preposti all’educazione dei nostri ragazzi: è un mondo in pericolo, spesso insufficiente ad arginare la deriva culturale di una società in declino, e le riforme finora attuate altro non hanno fatto che aggravare la situazione.
Per la scuola dobbiamo impegnarci, perché gli insegnanti ritornino al loro ruolo fondamentale di educatori, perché non si sentano per tutta la vita lavorativa dei precari, perché in università non ci siano insegnanti di serie A e altri senza alcun diritto, sfruttati e abbandonati ogni qualvolta si presentano manovre di riduzione dei costi.
Se non investiamo oggi nell’educazione la partita col domani è già persa.
Lucia Avallone – Torino

Eccellente esemplare di lettera critica, ma ricca di contenuti. Signora Lucia, condividiamo i suoi rilievi sulla scuola.
Quanto a Federico, aggioiamo la situazione:
– il ragazzo ha vissuto con serenità la polemica che l’ha coinvolto;
– ha superato l’esame di terza media con «ottimo»;
– dopo «il compito», la mamma dello studente e la professoressa di italiano hanno iniziato a discutere in modo costruttivo.
Forse è proprio vero: non tutto il male viene per nuocere.

Lucia Avallone




LETTERA Armi e interessi dell’Italia nel mondo

A suo tempo non mi sottrassi al servizio di leva, cosa allora abbastanza facile: 7 su 10 dei miei amici coetanei lo evitarono con varie motivazioni, raccomandazioni… Quale credente e praticante nell’associazionismo cattolico, ritenevo che, anche se avessi avuto la vocazione al martirio, non potevo imporla al mio prossimo; e, avendo capacità e forza, era mio dovere oppormi anche con le armi alle minacce contro la libertà (per me più preziosa della vita stessa) che ipotetici aggressori avrebbero potuto portare sul suolo della mia patria.
Oggi può apparire un atteggiamento di patetica retorica, ma ne sono tuttora convinto, come lo sono della bontà di un corretto concetto di Patria. Quando mi si chiede se e dove ho «fatto la naia», io provocatoriamente rispondo: «Ho avuto l’alto onore di servire in armi la Patria nelle Truppe Alpine!». Sissignori, «alto onore» e non «odiosa tassa pagata», come ho sentito definire il servizio di leva da esponenti del precedente governo e dall’attuale ministro della Difesa in una delle sue prime esteazioni (con buona pace del bipolarismo, che si sta rivelando come le due facce della stessa medaglia, anzi… moneta!). Però, nelle mie modeste preghiere quotidiane, non manco di ringraziare il Signore per avermi finora risparmiato dalla più grande sciagura del mondo: la guerra.
La mia convinzione di servire il prossimo, espresso anche nel servizio militare, va di pari passo con altre scelte, quali: donare regolarmente il sangue, prendermi cura di anziani ed ammalati, operare con impegno costante nella Caritas parrocchiale e in altre attività di volontariato. Non ultima, anche l’attenzione a chi è privato dei mezzi primari di sostentamento e non ha voce, per rompere l’indifferenza dei potenti (o prepotenti) del mondo.
Così, a 61 anni suonati, mi sono sentito in dovere, come cristiano, di partecipare alle manifestazioni anti-G8, dicendo tra amici e parenti che andavo in pellegrinaggio a Genova con i missionari della Consolata.

I tempi cambiano e lo «strumento militare» pare che stia perdendo la caratteristica di servizio, cui ogni componente la comunità deve contribuire; si sta rapidamente passando al «mestiere». Le motivazioni sono: calo demografico; col riconoscimento dell’obiezione di coscienza, pochi giovani di leva scelgono il servizio militare; molto numerosa sembra la schiera dei non idonei; inoltre i compiti delle Forze Armate stanno cambiando e occorre personale più addestrato e determinato.
Abolendo la leva obbligatoria (veramente, con ipocrisia tutta politica, bipolaristicamente ne è stata decretata la «sospensione»), si è risolto anche l’ingombrante problema «obiettori» e non ci sarà più alcun controllo diretto dei cittadini sullo strumento militare.
A questo punto mi chiedo se sia ancora opportuno parlare di «difesa». Trovo inquietanti certe frasi roboanti, pronunciate da alte cariche dello Stato: «Le Forze Armate hanno il compito di difendere gli interessi dell’Italia nel mondo». Interessi difesi con le armi e in giro per il mondo? Mi viene da immaginare qualche modea sciagurata avventura militare… Le alte cariche possono tranquillizzarmi?
Oppure: «Le nostre Forze armate devono raggiungere la necessaria efficienza e determinazione per onorare gli impegni che comportano le alleanze a cui l’Italia ha aderito». Ma è necessario continuare a mantenere certe alleanze? E, se gli «alleati» decidono di «delinquere», siamo in grado di astenerci? Chi può dimostrare che siamo «alleati alla pari» e non gregari, con la conseguente limitazione della nostra indipendenza? Quante risorse occorre impiegare per mantenere una struttura adeguata ai vincoli imposti dai nostri alleati?

La fine della coscrizione obbligatoria, per avere un esercito di mestiere, non mi pare un contributo positivo contro il facile ricorso alle armi! Inoltre non ritengo sufficiente, anche se lodevole, limitarsi all’atto individuale dell’obiezione di coscienza.
Finché si è fiduciosi nel sistema democratico, i cambiamenti dovrebbero avvenire gradualmente e a colpi di voto: non solo gli obiettori, ma anche chi è loro vicino e li appoggia (come larghi strati della chiesa cattolica) dovrebbero promuovere una intensa azione politica per l’uscita dell’Italia dalla Nato e vigilare sull’impostazione delle nascenti Forze armate europee.
Gli strumenti ci sono: ad esempio, il referendum abrogativo, negare il voto alle formazioni politiche che propugnano la permanenza nell’Alleanza Atlantica.
Quando padre Alex Zanotelli definisce il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e l’Organizzazione mondiale del commercio come «trinità satanica», vista la quasi identica presenza dei paesi che ne determinano la politica con gli aderenti alla Nato (G8 ed altri paesi dell’opulento e rapinatore Nord del mondo), non ho difficoltà ad ipotizzare presto l’evoluzione della Nato in «braccio armato della trinità satanica».
Inoltre si auspica una coerente rilettura della Costituzione, che aggiorni gli articoli su difesa e alleanze. Del resto già il primo articolo non è rispettato: a «lavoro» va sostituito… PROFITTO!

Beppe Peroncini

Beppe Peroncini




MONGOLIA (2)A passi… lesti

Dopo il grande gelo del regime comunista,
la Mongolia è alla riscoperta della religione
e della coscienza nazionale: un cammino
in cui si inserisce la chiesa cattolica. Ha solo 12 anni, ma con tutti i segni di una crescita sorprendente.

I paesi afflitti da gravi problemi economici e sociali rischiano spesso di perdere i valori tradizionali: non sembra sia questo il caso della Mongolia. Dopo la persecuzione religiosa, durante il regime sovietico-comunista, molti mongoli attendono la venuta di un grande personaggio, capace di scuotere il mondo con verità e saggezza: un uomo che possa aprire un’era nuova. Ne è una prova l’entusiasmo dimostrato da tutta la popolazione, nel 1991, in occasione della visita in Mongolia dell’ultimo discendente di Gengis Khan, il principe Dschero Khan, accolto come un re.
Nel paese, inoltre, si assiste a un risveglio della coscienza nazionale e, grazie alla riapertura di molti templi, alla riscoperta di antichi riti. Opere cinematografiche, letterarie e artistiche in generale traggono ispirazione dal patrimonio culturale tradizionale, interpretato in chiave profetica.
Sono soprattutto i giovani a farsi protagonisti della riscoperta del passato e a cercare con entusiasmo una verità più profonda, mantenendo viva la speranza di un futuro migliore. Ma al tempo stesso, corrono dietro a ciò che viene «importato» dall’estero, specialmente da Europa e Usa, alle novità introdotte nel paese attraverso la televisione e internet.

GIOVANE CHIESA
CHIESA DI GIOVANI

Uno dei segni più confortanti è vedere la grande sete di Dio che hanno i giovani e i mongoli in generale; il loro cuore aperto e disposto ad accogliere la «novità» del vangelo.
Per 65 anni la dittatura comunista si era adoperata con ogni mezzo, compresa la distruzione di 750 monasteri e l’assassinio di oltre 3.000 monaci, per cancellare ogni traccia di religiosità dall’animo della popolazione mongola.
Tale regime, però, è riuscito solo a provocare un enorme vuoto, che oggi alcuni sentono di poter colmare avvicinandosi a Gesù Cristo e al suo vangelo: le piccole chiese sono affollate e le comunità cristiane sono in continuo aumento. Numerosi sono i catecumeni, in maggioranza giovani e adulti, che si preparano al battesimo.
Sebbene la prima evangelizzazione in Mongolia risalga al vii secolo, in pratica la chiesa in questa regione è nata appena 12 anni fa: è una chiesa giovane, anche per l’età dei suoi membri. Giovani sono pure i missionari, provenienti da diversi paesi, che stanno spargendo i semi del vangelo e garantiscono una speranza di continuità. Fra i missionari cattolici, se si eccettua il vescovo, il più «vecchio» è il padre Eesto Viscardi, missionario della Consolata, che, a 53 anni, si sta inserendo nella chiesa locale con l’entusiasmo delle sue prime esperienze missionarie.
«La Mongolia è una terra di opportunità, un luogo in cui il messaggio di Gesù è praticamente sconosciuto – mi disse un giorno il pastore avventista Christian Grame, cornordinatore del progetto Mission Mongolia -. Sotto il comunismo tutte le religioni furono dichiarate fuori legge e la gente, in pratica, non ha mai sentito parlare di Dio, ma oggi è aperta e interessata ad apprendere».
Nei primi anni della missione cattolica (1992-93), gli unici fedeli che partecipavano all’eucaristia, celebrata in alcuni appartamenti, erano esclusivamente cittadini stranieri. Successivamente si unirono a loro le prime persone della popolazione locale, gettando così le basi della chiesa locale.
Oggi, la chiesa in Mongolia ha il suo vescovo e tre parrocchie con quasi 200 battezzati mongoli, un consistente numero di catecumeni, numerosi gruppi e opere di apostolato, strutture pastorali assai frequentate e molto attive, come asili, un collegio politecnico, centri di attenzioni ai bambini di strada, un istituto per disabili, una casa per ragazze madri. Tutto è portato avanti da 48 missionari e istituti religiosi.
Se si pensa che fino a 10 anni fa non esisteva nulla (comunità, operatori pastorali, strutture), non possiamo non vedere in tutto questo l’opera dello Spirito, che guida con mano sicura la chiesa nascente, nonostante le difficoltà che a prima vista appaiono insormontabili.

CRISTO: MESSIA O NOVITA’

Una professoressa di lingua e cultura mongola mi diceva: «I vecchi sono buddisti; quelli di mezza età, come me, siamo atei; i giovani vogliono essere cristiani». Non so fino a che punto sia vera tale affermazione; è certo, però, che il cristianesimo è una novità per una popolazione che ha conosciuto questa religione solo dopo l’anno 1992, quando il nuovo regime ha aperto le porte alle differenti chiese cristiane, che oggi sono circa una quarantina.
Sono gli adolescenti e i giovani che si mostrano molto più aperti e interessati al cristianesimo. Incuriositi, partecipano alle celebrazioni, incontri e altri momenti della vita della giovane chiesa.
Dal momento che il 35,5% della popolazione mongola è sotto i 15 anni e il 50% ne ha meno di 25, i giovani sono non solo il futuro, ma anche il presente. Essi costituiscono, al tempo stesso, una sfida e una speranza, che ci impegna a cercare la strada migliore per la nostra attività di evangelizzazione. In Mongolia, infatti, non possiamo entrare nelle scuole. Anche in quelle cattoliche non si può esporre alcun segno religioso. Nemmeno la cattedrale ha la croce all’esterno dell’edificio. Fuori del tempio non sono ammesse manifestazioni religiose pubbliche.
Come possiamo farci conoscere? L’unica strada percorribile è quella di diventare persone dal cuore giovane e testimoni dell’amore. La testimonianza attrae molte persone, che si mettono in cammino con noi.
L’ultima parrocchia, eretta meno di due anni fa, ha iniziato con diverse attività per giovani: corsi di inglese, principalmente, di musica, danza, cucito. E poiché tali iniziative si tenevano in luoghi senza insegna, erano i giovani stessi a fare pubblicità: «Vieni a vedere» dicevano i pionieri ai coetanei che domandavano dove si svolgessero tali corsi.
In questo modo i giovani conoscevano padre Felix, un sacerdote africano, alto e simpatico, che riceve tutti con uno smagliante sorriso.
Simpatia, amabilità, amore, insieme ai corsi, è quanto la piccola comunità cattolica offre ai giovani. Nessuno è obbligato a partecipare alla messa o altre attività religiose. Ma subito essi si domandano: «Perché questi stranieri si interessano di noi? Da che cosa sono mossi? Andiamo a vedere!».
E le celebrazioni, inizialmente frequentate da un pugno di persone, due suore e pochi mongoli, cominciano ad essere affollate da adolescenti e giovani; i canti passano gradualmente dall’inglese al mongolo: oggi, canti, letture, preghiere, tutto avviene in lingua locale.
Ogni sabato e domenica si formano gruppi di discussione, tanto che lo spazio è ormai insufficiente per accogliere tutti e la comunità si sta muovendo per comperare un terreno dove costruire una struttura più ampia per dare vita a nuove attività.
Padre Felix continua a dire ai giovani: «Ricordate, domenica prossima dovete invitare un altro amico». E così avviene: chi diventa amico di Gesù, vuole comunicare ad altri la sua scoperta. E ognuno diventa apostolo nel proprio ambiente.

PARTICOLARI ATTENZIONI

Negli ultimi 10 anni sono molte le chiese cristiane arrivate in Mongolia: tutte confermano che i mongoli sono aperti al cristianesimo, anche se le cifre non sono esaltanti: su una popolazione di 2,5 milioni, i battezzati nelle varie confessioni sono poche centinaia. Il gruppo più numeroso, con circa 400 membri, è quello della chiesa avventista, presente nel paese dal 1993. Essa è sostenuta dagli avventisti australiani, che hanno fatto un gemellaggio di solidarietà e cooperazione con la rispettiva comunità in Mongolia. Con lo stesso approccio si muovono altre chiese evangeliche, come quella dei pentecostali, sostenuti da coreani e americani.
Anche le piccole comunità cattoliche crescono grazie agli aiuti delle chiese sorelle sparse nel mondo. Si tratta infatti di una chiesa ancora bimba, che sta muovendo i primi passi, fragile e povera di mezzi materiali e di personale.
Lo ha ricordato anche il cardinale Crescenzio Sepe, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (ex Propaganda fide), nel discorso pronunciato a Città del Guatemala il 26 novembre 2003, in occasione dell’apertura del secondo Congresso americano missionario: «In numerosi paesi dell’Asia, la chiesa sta facendo i primi passi. Pochi mesi fa sono stato in Mongolia per la consacrazione episcopale del primo prefetto apostolico di Ulaanbaatar, mons. Wenceslao Padilla, missionario di Scheut, filippino. La sua comunità cattolica non arriva ancora a 200 persone».
Eppure è una comunità che desta gli entusiasmi e le attenzioni di una chiesa nascente, come ai primi tempi apostolici. Così si esprime lo stesso cardinale, in occasione della sua seconda visita in Mongolia a distanza di un anno: «Come un padre o una madre di famiglia, pur avendo molti figli, rivolgono naturalmente le loro attenzioni soprattutto a quelli più piccoli, perché maggiormente bisognosi di essere aiutati nella loro crescita, così la giovane chiesa della Mongolia può rappresentare il figlio appena nato: dopo i primi vagiti ha bisogno di cure e attenzioni per irrobustirsi, per crescere e poi camminare sulle proprie gambe.
Guardando alla storia di questa nazione, si può parlare di una crescita prodigiosa della chiesa in un periodo di tempo abbastanza breve. Vedere i missionari e i fedeli dedicarsi senza riserve all’assistenza dei più deboli, considerandoli come fratelli, senza fare differenze di alcun tipo, è spesso una scintilla che accende il fuoco della fede e genera nuove conversioni. Soprattutto i giovani si lasciano coinvolgere con grande disponibilità e generosità. Il santo padre ha più volte ripetuto in 25 anni di pontificato, che i giovani sono la speranza della chiesa: sono sicuro che essi sono anche la speranza della giovane chiesa della Mongolia».
(Fine seconda puntata – continua)

Box 1

IL PAPA E’ ATTESO

P rofondamente ancorati allo sciamanismo, per tre secoli i mongoli furono padroni dell’Asia e parte dell’Europa; sottomisero civiltà millenarie, ma anziché distruggee tradizioni, arte, cultura e religioni, le assorbirono, costituendo un impero immenso e straordinariamente variegato.
Il francescano Guglielmo di Rubruck, che nel 1255 raggiunse l’antica capitale Karakorum, nel suo vivacissimo resoconto riferì di una cultura sorprendentemente dinamica e tollerante. Sul suo cammino incontrò templi buddisti, moschee, chiese cristiane nestoriane, e dappertutto gli obbo, cumuli di pietre votive di ispirazione sciamanica.
Qualche anno prima (1246), Giovanni da Pian del Carpine era stato inviato da Innocenzo iv per sondare la possibilità di un’alleanza contro l’islam. La risposta del Khan fu molto decisa: «Se il papa vuole parlarmi, venga di persona».
Dai tempi dei missionari francescani in oriente gli orizzonti sono cambiati. Dopo mezzo millennio di umiliante sottomissione alla Cina e alla Russia, che la schiacciano anche geograficamente, la Mongolia sta timidamente cercando di rialzare la testa. E anche l’esigua comunità cattolica dà il suo contributo prezioso.
I mongoli aspettano il papa, che l’anno scorso ha cancellato la sua visita programmata per il mese di agosto. «Sembra incredibile – rivela padre Pier Kasemuana, congolese, provinciale dei missionari di Scheut e professore all’Università di Ulaanbaatar -, ma Giovanni Paolo ii è amato profondamente dai mongoli, una popolazione così lontana e quasi totalmente buddista».

Uan Carlos Greco




PROVOCAZIONI MISSIONARIEAccade a Tunisi

A 45 anni, dopo una lunga esperienza di volontariato, Otello Bisetto è stato ordinato sacerdote della diocesi di Tunisi. Essere prete in Tunisia, dove si registrano profondi mutamenti, costituisce una grande sfida per la chiesa locale.

La lunga strada percorsa da Otello Bisetto, sfociata nell’ordinazione sacerdotale, avvenuta il 22 maggio 2004 nella cattedrale di Tunisi, potrebbe racchiudere, per molti versi, una parabola di questo nostro tempo, sia che cerchiamo di interpretarlo dal punto di vista umano che da quello di Dio.

Otello ha 45 anni.

Negli anni di infanzia è passato attraverso qualche anno di collegio, poi ha frequentato la scuola pubblica fino a diventare geometra.
Parte per tre anni nello Zaire come volontario. Ritorna per continuare a esercitare la sua professione; ma poco dopo… incorre (!) nella Caritas diocesana, che lo impegna nel servizio ai migranti. È il periodo in cui il fenomeno dell’immigrazione assume proporzioni sempre più importanti anche qui da noi.
Diventa così il primo responsabile della Casa di Accoglienza di Giavera (TV), di cui aveva contribuito sia per il disegno, che per la ristrutturazione e per l’impostazione dello stile di convivenza.
Dà inizio insieme con altri alla cornoperativa «Una casa per l’uomo» a Montebelluna.
Viene allontanato dalla Caritas e si lascia assorbire totalmente dalla cornoperativa che, anche per suo impulso, si espande e crea nuovi servizi: dall’offerta di alloggio alla politica regionale per l’alloggio delle fasce sociali a rischio di esclusione, alla mediazione culturale, segretariato sociale, ricerca e formazione, disagio sociale, insegnamento della lingua seconda «L2», ecc…

Abbandonata Giavera,
va a vivere con tre algerini, musulmani praticanti, uno dei quali è presente a Tunisi nel giorno dell’ordinazione sacerdotale.
Si propone ad alcuni responsabili diocesani di Treviso per essere prete nel segno di una doppia fedeltà: ai poveri e alla chiesa locale. Ma il periodo del «discernimento» si conclude con un rifiuto: «Sei bravo ma non sei fatto per noi…».
Si sposta a San Floriano, dove va a vivere con don Olivo Bolzon e Marisa Restello; nel frattempo continua a confrontarsi da un punto di vista vocazionale con don Feando Pavanello. Decide, quindi, di partire per due anni per la Tunisia, dove può continuare la sua ricerca fino alla richiesta, questa volta accolta, di diventare prete a servizio di quella chiesa locale che vive la sua fedeltà a Gesù e la sua testimonianza di fede e di speranza cristiana in contesto musulmano.
Il 22 maggio 2004 diviene prete per l’imposizione delle mani del vescovo Twal, del nunzio dell’Algeria e Tunisia e di tutti i preti della Tunisia, che per l’occasione s’erano riuniti al gran completo. Con tutta evidenza si tratta di una vita che è parabola di questo nostro tempo.
Una esistenza che incrocia alcune fra le molte situazioni di frontiera e di rottura che si sono prodotte e si stanno producendo in questi ultimi decenni della nostra storia.
La sua decisione di essere prete per la chiesa in Tunisia si realizza, d’altra parte, in tempi che sembrano annunciare una mutazione della chiesa locale, non da tutti condivisa e che alla lunga potrebbe risultare non adeguata.
La sua ordinazione
sacerdotale si svolge alla luce di una intuizione luminosa. Era dal 1962 che non accadeva un tale avvenimento in Tunisi, al punto che la stessa stampa locale ne traccia un sia pur breve trafiletto. Dopo 42 anni, un adulto di nazionalità italiana, Otello, e un giovane francese, Nicolas, vengono chiamati all’ordine del presbiterato ringiovanendo per ciò stesso la chiesa locale.
Nella medesima liturgia si celebra il 50° di sacerdozio di due preti: Mario Garau, un italiano nato in Tunisia, figlio di minatori sardi, e Michel Prignot, un francese della Mission de France, che ha fatto l’operaio, ora in pensione.
I due preti giovani ricevono le pianete dai due anziani. Questo gesto ha tutta la dolcezza e il sapore di un passaggio del testimone.
I due anziani hanno realizzato la loro vocazione attraversando il periodo coloniale, poi quello dell’indipendenza, infine il periodo della costruzione, dell’autonomia identitaria, politica ed economica del paese.
Molti dei loro colleghi non se la sono sentita di affrontare cambiamenti talmente rapidi e radicali e sono ritornati alle chiese dei loro paesi d’origine. Ma chi è rimasto ha cercato di leggere con gli occhi dello Spirito e con amore appassionato la storia della Tunisia.
Hanno vissuto una fedeltà dinamica alla chiesa locale. Per guadagnarsi da vivere, uno ha fatto l’infermiere nel modesto ospedale di Gafsa, l’altro l’operaio, scoprendo via via nuove strade di sequela, di testimonianza e servizio all’ambiente e al popolo musulmano che essi non hanno cessato di amare.
Si sono trovati a essere, insieme a tutti gli altri che avevano preso la decisione di rimanere in Tunisia, costruttori e partecipi di una chiesa essenzialmente missionaria, proiettata al di fuori di se stessa, ma non proselistica.

Ora si affaccia
su questa chiesa la tentazione di una mutazione genetica. Essa è tentata di spegnere lo slancio missionario, la sua particolare diaconia al mondo musulmano, paga del fatto che imprenditori, funzionari di banca, personale di ambasciata con le loro famiglie al seguito riempiano le poche chiese rimaste.
Otello e Nicolas dovranno essere in grado di scegliere tra la fedeltà alla missione di diaconia della chiesa o il ripiegamento gratificante su se stessa. Tale decisione dovrà essere presa comunque all’interno di una società e di una chiesa che cambiano.
Solo qualche anno fa era impossibile parlare di cristiani tunisini. Ora ho sentito che alla vigilia della pasqua di quest’anno, su iniziativa di un professore di università, è stata affittata una grande sala in un hotel del centro di Tunisi, dove si sono riunite 550 persone per cantare e proclamare la propria fede in «Gesù, il Vivente».
Si ha l’impressione che il confessare la propria fede in Cristo sia ormai più frequente, anche se non meno difficile, che nel passato.
È successo che, quando alcuni di questi cristiani (senza alcun’altra specificazione: evangelici, ortodossi, cattolici…) furono interrogati su chi era stato all’origine della loro scelta di fede, rispondevano che la televisione, internet o i contatti con il mondo esterno avevano fatto loro conoscere ciò che prima non conoscevano.
Stanno franando
le barriere che pretendono circoscrivere e legare fedi e religioni a un determinato territorio. Non esiste più nei fatti né una «casa dell’islam» né una «casa degli infedeli».
Essere preti in Tunisia, dentro a queste mutazioni profonde, diventa una grande sfida, probabilmente paragonabile a quella che la chiesa dovette affrontare dopo la dichiarazione d’indipendenza di questo paese.
Fatti nuovi stanno domandando a questo e agli altri paesi islamici risposte nuove sul piano culturale, religioso e politico.
Il fatto che la Tunisia, come altri paesi che si affacciano sul Mediterraneo, abbia deciso di far parte della zona di libero scambio con la Ue, inciderà sulla vita economica, ma anche sul costume del paese.
All’interno delle società arabo-musulmane alcune realtà come «democrazia», «promozione della donna», «libertà di coscienza», «pluralismo religioso e culturale» sono concetti in movimento e di cui ancora non si avvertono gli esiti futuri.
C’è un continente in movimento da questa parte del Mediterraneo e Otello ha preso la decisione di viverci dentro da uomo e da prete.

Giuliano Vallotto




TURCHIASotto i baffi di Cevat

In Turchia, fondata come stato laico da Ataturk,
avanza l’integralismo islamico, specie nella regione sud-orientale,
dove resistono sparute comunità cristiane,
eredi di un glorioso passato missionario.
Il nazionalismo turco ha ridotto l’Armenia,
primo stato cristiano della storia, a un cumulo di macerie.

Per accompagnarci nel sud-est della Turchia, Cevat, la nostra guida, si è fatto crescere i baffi. Dice che un uomo senza baffi non è preso in considerazione da quelle parti, fino a cinque anni fa teatro di feroci scontri tra l’esercito turco e il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan). Da quando il loro leader Ocalan è stato imprigionato, ci si può muovere con una certa libertà nel territorio, abitato prevalentemente da curdi; ma un pizzico di prudenza non guasta.
Nella prima escursione si unisce a noi Jussuf, guida curda con una coppia di giapponesi: profilo affilato, eleganza innata, anche lui mostra due grossi baffi neri come il carbone.

TRA IL TIGRI E L’EUFRATE

Partiamo da Gaziantep, città in pieno boom economico, prossima al confine siriano. Il faraonico e contestato progetto Gap (Guneydogu Anadolu Projesi), che prevede la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche per lo sfruttamento delle acque del Tigri e dell’Eufrate, sta cambiando l’aspetto e l’economia della regione, un tempo arida e povera terra di emigrazione.
Una gigantesca diga frena il corso dell’Eufrate, creando un enorme bacino che presto sarà collegato alle acque del Tigri da un condotto, il più grande al mondo. Intanto i territori della Mesopotamia siriana e irachena hanno già perso il 30% della loro preziosissima acqua.
Questa terra «tra i due fiumi» è terra biblica: ad Harran sarebbe nato Abramo; qui il patriarca avrebbe ricevuto le promesse divine e l’invito a partire per una terra sconosciuta; presso la parentela rimasta ad Harran, Abramo avrebbe mandato a cercare la sposa per il figlio Isacco; scelta caduta su Rebecca.
Nel suo viaggio verso la terra di Canaan, Abramo si sarebbe fermato a Edessa (oggi Urfa o Sanliurfa), dove è venerato anche dai musulmani. La fama della città, però, è legata alla storia del cristianesimo. Eusebio di Cesarea attesta che già al tempo degli apostoli l’intera città e la regione circostante erano state convertite al cristianesimo.
Ben presto Edessa diventò un importante centro culturale, letterario e di diffusione della fede cristiana: da qui i missionari si spinsero al di là dei confini dell’impero romano, verso la Persia e il resto della Mesopotamia.
Nei secoli seguenti, la vivacità della chiesa di Edessa fu funestata prima da persecuzioni, poi da dispute religiose: il rifiuto della dottrina sancita dal Concilio di Calcedonia (451) sulla doppia natura, umana e divina, di Cristo, costò la scomunica al vescovo di Edessa, Giacobbe Baradeus, che fondò la chiesa giacobita o siro-ortodossa.
Altra città storica è Diyarbakir, l’antica Amida, sulle rive del Tigri, cantata nella Genesi come l’Eden per la sua gloriosa vegetazione. Città di frontiera, fu dominata di volta in volta dagli imperi che si affermarono in Mesopotamia: urriti, ittiti, assiri, medi, persiani, seleucidi, romani, sassanidi, bizantini, arabi, mongoli, turcomanni, ottomani.
Di queste antiche civiltà rimane quasi nulla, se si eccettuano la colossale cinta muraria in pietre nere di basalto, di origine romana, e le moschee costruite sotto le varie dinastie islamiche. Ben poco rimane delle numerose chiese della comunità cristiana, che la tradizione fa risalire alla predicazione dell’apostolo Giuda Taddeo.
La chiesa della Vergine Maria è sede dei giacobiti, di cui rimangono solo 15 famiglie. Attraverso un dedalo di viuzze del centro, raggiungiamo la chiesa dei caldei. Ci accoglie il signor Zaki Kasar: parla francese, avendo studiato a Istanbul e lavorato per 30 anni per la Nato. Una volta al mese un prete del monastero di Zafaran viene a celebrare la messa per le 30 famiglie che ancora resistono alle discriminazioni di cui sono vittime.
Sono cristiani in comunione con Roma: proprio a Diyarbakir, in seguito a uno scisma tra i nestoriani, nel 1552, fu eletto patriarca di Babilonia Giovanni Sulaqa, il quale, confermato nella sua carica dal papa Paolo iii diede origine alla chiesa caldea, rimasta in comunione con la chiesa cattolica romana.
Altre memorie cristiane, come la chiesa di Santa Maria e la basilica di San Tommaso sono sepolte sotto le mura e i minareti delle moschee; eppure rimane qualche segno, come colonne, capitelli e pavimentazione che ricordano gli antichi splendori cristiani.
Oggi la città nella «terra tra i due fiumi» è interamente e severamente musulmana: donne velate, uomini vestiti all’antica, folte barbe che fanno rizzare i baffi a Cevat: «Urfa e Diyarbakir non mi piacciono – confessa -. Vi vedo il regresso del mio paese sotto l’avanzata dell’islam più integralista».

FONDAMENTALISMO

Mentre mi emoziono nel percorrere le strade in terra biblica, Cevat appare nervoso e addita le numerose moschee in costruzione, le donne avvolte da ingombranti mantelli e il viso coperto dal velo nero, segni evidenti del prevalere della cultura araba e l’avanzare del fondamentalismo islamico.
Nato e cresciuto a Istanbul, educato nel prestigioso liceo Galatasaray, Cevat si sente legato all’occidente e, come la maggior parte dei turchi dell’ovest, spera di poter presto entrare nella Comunità europea; per le sue due figlie piccole, sogna una Turchia libera e democratica; ma si rende conto che il paese sta attraversando una situazione delicata.
«Stiamo tornando indietro» spiega Cevat, mentre mi racconta che anche a Istanbul avanza il fondamentalismo: la suocera, che vive con la sua famiglia, è stata contattata da un gruppo integralista e ora segue le direttive imposte alle donne, nell’abbigliamento e nelle preghiere.
«Ataturk aveva severamente proibito il velo: come è potuto succedere? – si domanda preoccupato -. Da tre anni sono state introdotte lezioni di religione nelle scuole di stato; per la prima volta dalla fondazione dello stato laico, si studia il Corano tradotto in turco: prima, chi lo voleva, mandava i figli alla scuola coranica, dove imparavano i versetti a memoria in arabo».
Il fondamentalismo attecchisce e avanza nelle città, gonfiate dall’immigrazione intea, soprattutto nei quartieri dove c’è povertà, disoccupazione, necessità di case. «Il contadino conduce una vita dura, prega, ma non sarà mai integralista – spiega Cevat e avverte -: in questa regione arrivano miliardi di dollari dai paesi arabi, che vengono spesi per diffondere un islam intollerante e severo. Trovare casa o lavoro diventa semplice: basta rivolgersi all’imam. Se una studentessa vuole una borsa di studio, basta che acconsenta di mettersi il velo».

LA LINGUA DI GESU’

Ricca di monumenti musulmani, originali per colori e architettura, Mardin è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio culturale dell’umanità. Fino a pochi anni fa era interdetta agli stranieri, a causa delle tensioni e i sanguinosi scontri tra il governo di Ankara e il Pkk.
Punto di passaggio tra l’alta valle del Tigri e la fertile pianura dell’Eufrate, Marida, così si chiamava anticamente, fu un altro faro d’irradiazione cristiana: nei dintorni sono sparse le vestigia di antiche parrocchie e monasteri, ancora oggi abitati da monaci e varie comunità cristiane.
Scendiamo verso la zona cristiana e bussiamo inutilmente alle porte di due chiese. Finalmente una che si apre: è quella dedicata a San Behram. Padre Gabriele, occhiali e zucchetto nero, ci accoglie cortesemente nella sua chiesa del iv secolo. Ci parla dei suoi fedeli, una comunità di aramei, eredi dell’antica chiesa di Antiochia, che parlano ancora l’aramaico, la lingua che parlava Gesù.
L’interno della piccola chiesa è molto suggestivo. Un quadro, appeso all’ingresso, ricorda il martirio di 40 cristiani in Cappadocia, affogati in un lago gelato, nel iii secolo, per ordine di un comandante romano.
«Vi sentite discriminati, in un mondo tutto islamico?» chiedo a padre Gabriele. «Noi cristiani dobbiamo emanare la luce della nostra fede. Come dice il vangelo, dobbiamo porgere l’altra guancia».
La risposta è diplomatica, ma il senso è chiaro: la vita non è facile per questo drappello di cristiani orientali, ultimi eredi di antiche tradizioni. La piccola comunità di San Behram si compone di 350 persone, il prete è eletto dai parrocchiani e vive con loro, ne è responsabile. Il patriarca abita nel monastero di Zafaran, a pochi chilometri dalla città.
Nella regione tra Mardin e Midyat sono rimasti circa in 5 mila, a causa della forte emigrazione, provocata da discriminazioni, ai limiti della persecuzione. Il resto degli aramei, circa 22 mila, in maggioranza vivono a Istanbul, altri sono emigrati in Europa, specie in Germania, dove mantengono le loro tradizioni: lunghe cerimonie religiose, sempre in aramaico.
Il monastero di Zafaran è una specie di fortezza, isolata sotto la cima rocciosa di un monte punteggiato da eremi in rovina. Anche qui si parla e prega nella lingua di Gesù.

GENOCIDIO SCONOSCIUTO

A Van, nella regione montagnosa della Turchia nord-orientale, entriamo nel cuore di quella che una volta costituiva la Grande Armenia: regno antichissimo, indipendente fin dal 93 a.C., abbracciò il cristianesimo e ne fece la religione nazionale, diventando il primo stato cristiano (301).
Sotto la dominazione di selgiuchidi, turcomanni, ottomani, che cercarono di imporre la legge coranica, gli armeni subirono pesanti discriminazioni, ma riuscirono a conservare l’identità culturale e religiosa.
Nella 1a guerra russo-turca (1774), essi accolsero lo zar come liberatore: la parte orientale dell’Armenia fu annessa alla Russia; in quella rimasta sotto il dominio turco vennero eliminati 200 mila armeni.
Alla fine del secolo xix e l’inizio del xx, i nazionalismi turco e armeno raggiunsero il parossismo. Nella speranza di risuscitare la Grande Armenia, durante la 1a guerra mondiale, gli armeni si allearono con i russi contro turchi e curdi. L’illusione affogò in un autentico genocidio: negli anni 1915-18 furono eliminati oltre 1,5 milioni di cristiani armeni; 100 mila bambini furono affidati a famiglie curde, perché cancellassero la loro identità.
I segni di quella tragica illusione sono ancora impressi nelle macerie della vecchia Van: occupata dai russi (1915-17), fu completamente distrutta nel corso della loro ritirata. Ma nei dintorni rimangono anche alcune vestigia dell’antico regno cristiano, come la chiesa di Akdamar, nell’omonima isola nel lago Van. La purezza dell’architettura e il caldo colore della pietra di questa chiesa, sono un incanto. Sulle pareti estee un antico artista ha scolpito storie bibliche e splendidi rilievi, muti testimoni della civiltà e fede di un popolo perseguitato e ignorato.
Il nazionalismo turco è palpabile. «Once vatan» (prima patria), «Che bello essere turchi» e altre scritte del genere capeggiano sulle brulle pendici dei monti delle lande desolate al confine con l’Iran. A scriverle sono i soldati di leva che, oltre a imparare a conoscere tutte le realtà della regione, devono occupare il tempo libero creando enormi scritte patriottiche con pietre e altro materiale, che siano ben visibili dalla strada.
In due giorni di viaggio non ho mai visto tanti militari. Mentre ci avviciniamo a Dogubayazit si moltiplicano i posti di blocco, con relativi controlli e perquisizioni. Siamo a 30 km dal confine iraniano e dobbiamo arrivare in albergo prima delle 19, ora di chiusura delle strade. Anche questa era terra armena, fino al genocidio del 1917.
Appena arrivati a Kars, Cevat si taglia i baffi. Ora lo vedo più disteso, in questo paese aspro di pascoli e foreste. La città mostra i segni lasciati dalla presenza russa nel xix secolo nell’urbanistica e nello stile dei palazzi: anni di incuria e intonaci scrostati non cancellano l’eleganza degli edifici ottocenteschi.
Dominata dalla mole della fortezza di pietra nera c’è una chiesa armena dalla tipica cupola su tamburo ottagonale, chiusa al culto da quando tutti gli armeni se ne sono andati, sotto l’incalzare del genocidio dimenticato.
Più sconvolgente è la visita ad Ani, la splendida capitale medioevale della Grande Armenia, al confine con l’Armenia ex sovietica. Le mura sono in via di restauro; è un buon segno; ma all’interno gli eleganti e raffinati edifici sono ruderi, sparsi in una vasta area diventata prateria. Numerose e straordinarie sono le chiese; una in particolare conserva affreschi che stanno svanendo sotto la furia delle intemperie.
Ani è una «città morta». È proibito fotografare, per non testimoniare il disfacimento di un sito sacro agli armeni di tutto il mondo.

THALATTA! THALATTA!

In viaggio verso ovest, sostiamo a Erzurum: anche qui un tempo vivevano una fiorente chiesa armena e una consistente comunità cattolica. Se ne sono andati quasi tutti; delle loro belle chiese neppure una traccia.
Ancora due alti passi montani e scendiamo verso Trabzon, sulla costa del mar Nero. Ma prima risaliamo fino a 1.200 metri di altitudine, per visitare il monastero di Sumela.
Inserito nella parete rocciosa a picco su una valle verdissima e fiorita di rododendri, il monastero appare come un sogno tra le nuvole. Per 15 secoli è stato un centro importante del monachesimo orientale (vedi riquadro).
Rifugio ideale per la preghiera e la contemplazione, è raggiungibile solo con una lunga arrampicata, su un sentirnero pietroso e una stretta scala di pietra. Gli affreschi della cappella principale sono stati sfregiati da molto tempo da ignoti e ignobili visitatori, ma la bellezza del luogo è ancora intatta.
Finalmente raggiungiamo Trabzon e possiamo gridare anche noi: «Mare! Mare!», come fecero, nel 400 a.C., Senofonte e i suoi «Diecimila» soldati di ritorno da Babilonia, dopo 3.200 km a piedi, attraverso le montagne e le popolazioni dell’Anatolia orientale.
Antica città greca, fondata da emigranti di Trapezos, in Arcadia, Trebisonda ci è familiare, essendo entrato in un nostro proverbio: perdere la trebisonda. Il suo nome, però, è presente anche nei racconti di missionari e viaggiatori del tardo medioevo: di qui passarono molti francescani e domenicani per evangelizzare le terre del Medio ed Estremo Oriente, fino alla Cina.
La città rimase per alcuni secoli l’ultimo baluardo della civiltà bizantina, finché fu conquistata dai turchi e annessa all’impero ottomano (1461). Fino a questo tempo la chiesa godette di una vitalità che le costruzioni architettoniche di quel tempo ancora attestano.
Il monumento più bello è la chiesa di Santa Sofia, eretta nel xiii secolo da Alessio iii Commeno, a ricordo della più famosa e grande basilica di Costantinopoli. Trasformata in moschea, gli affreschi e i mosaici furono coperti da intonaco, finché i restauri degli anni sessanta li hanno riportati agli antichi splendori e la basilica è stata ridotta a museo. Altre belle chiese invece, come Sant’Anna, Sant’Andrea, Sant’Eugenio, la Vergine dalla testa d’oro, continuano a funzionare come moschee.
A differenza delle città della Turchia orientale, Trabzon appare modea, vivace e cosmopolita. Alla tanta vivacità non sono estranei gli oleodotti che portano il greggio dal Caucaso e dall’Asia Centrale.
Ma il fatto più positivo è che, anche dentro le vecchie mura ottomane, le strade sono affollate di ragazze in jeans e maglietta; pochissime portano il velo islamico: segno che da queste parti l’integralismo islamico non ha ancora affondato le sue radici, con buona pace dell’anima di Ataturk e dei baffi di Cevat.

MONASTERO TRA CIELO E TERRA

Secondo la tradizione, il famoso monastero di Sumela (oggi Maryemana manastiri, monastero della Madre Maria) fu fondato dai monaci ateniesi Baaba e Sofronio, seguito a una visione della Vergine, che chiese loro di costruire un monastero nel Ponto, sul mar Nero. Lasciato il loro eremo nella penisola calcidica in Grecia, portando con sé un’icona della Madonna attribuita a san Luca, raggiunsero questo luogo e si stabilirono nelle grotte di alto roccione, a picco su un torrente ricco d’acqua delle Alpi pontiche. Nella grotta più ampia stabilirono la cappella della Madonna. Era l’anno 385.
La fama del santuario della «Vergine della montagna nera» (in greco Panaghia tou mélas, da cui Sumela) e della loro santità si sparse rapidamente ed aumentò dopo la loro morte, avvenuta nel 412 (nello stesso giorno attesta la tradizione) e attirò pellegrini, offerte e, soprattutto, altri monaci. In poco tempo Sumela divenne uno dei centri più importanti del monachesimo orientale.
La posizione, resa inaccessibile con opportuni accorgimenti, e le fortificazioni costruite resero il monastero inviolabile per secoli, un’oasi di pace in mezzo a un turbinio di guerre e di lotte. Il momento massimo di splendore fu raggiunto tra il 1200 e il 1400, grazie ai favori degli imperatori di Bisanzio, che ne promossero i lavori di ricostruzione, fortificazione e abbellimento mediante gli affreschi.
Con la conquista della regione da parte degli ottomani (1461), il sultano prese il monastero sotto la sua protezione e ne garantì la sopravvivenza pacifica, garantendo ai monaci la proprietà del monastero e dei terreni adiacenti.
I monaci continuarono la loro attività pacifica e spirituale fino agli ultimi anni della prima guerra mondiale, quando abbandonarono il monastero al momento dell’avanzata dell’esercito russo; vi ritornarono poco dopo, ma dovettero andarsene definitivamente nel 1923, alla conclusione della guerra greco-turca.
Ancora oggi, gli edifici conventuali, abbarbicati sul fianco di un ripido dirupo, appaiono dalla valle come sospesi tra cielo e terra. Ma all’interno si vedono subito i segni lasciati da decenni di abbandono, depredazioni e atti vandalici di ogni genere, che hanno ridotto il complesso a poco più di un rudere. Eppure il poco che rimane di affreschi e opere murarie danno ancora un’idea dello splendore di questo monastero.

Claudia Caramanti




RWANDAChiamati all’ora 11a

Da tempo in pensione, 52 anni
di matrimonio, Laura e Giovanni hanno trascorso alcuni mesi
in Rwanda e sono tornati con una convinzione: la presenza di «coniugi missionari» è utile e necessaria
per aiutare la famiglia africana
a fondare la loro vita su una solida esperienza spirituale. Si augurano che altre coppie sentano questa chiamata «tardiva» e la attuino.

È naturale domandarsi, a una certa età, se si può ancora essere utili. Grazie a Dio, siamo sani; la famiglia o meglio il clan, che da noi è sorto, è ben strutturato; qualche energia può ancora essere spesa, malgrado artrosi e limiti che inevitabilmente l’età comporta.
Volevamo conoscere l’Africa, ma fuori dai soliti viaggi turistici, che riportano in clima e posti diversi, ma senza un vero contatto con la realtà del paese e della gente.
Come sempre, quando si desidera veramente qualcosa, la si va a cercare e, in un modo o nell’altro, la si trova. Così è stato per noi.
Un giorno inaspettatamente riceviamo una telefonata da un’amica: «Volete andare in Africa per un po’ di tempo? Perché non in Rwanda?». L’invito arrivava da padre Canisius Niyosaba, parroco di una immensa e sperduta parrocchia (114 mila anime) della diocesi di Kigali (Rwanda), che avevamo conosciuto in Italia. Abbiamo colto la palla al balzo con entusiasmo.
Alcuni figlioli erano entusiasti della nostra idea, altri molto meno: «Se vi capita qualche malanno? Non avete più l’energia di un tempo e le vostre reazioni sono più lente. Sopporterete il clima caldo dell’Africa, voi che amate solo le montagne d’alta quota? E se poi scoppiasse una rivoluzione? In Rwanda sono avvenute cose incredibili, ecc.».
L’elenco degli aspetti negativi che l’affetto dei figli presentava non finiva mai. Ci hanno dimostrato che ci volevano bene e questo ci ha fatto molto piacere, ma non ci ha smosso dalla nostra decisione, anche perché la maggioranza dei nipoti era entusiasta d’avere nonni pronti a partire per un’avventura africana.
Anche se le nostre esperienze specifiche non avrebbero avuto riscontro nella realtà africana, abbiamo risposto con entusiasmo all’invito inaspettato di andare in Rwanda per parlare della nostra lunga esperienza di vita matrimoniale e familiare. Eravamo una coppia con figli e nipoti e questo era il punto centrale. Da oltre 40 anni ci siamo interessati all’aspetto spirituale del nostro stato di vita, cioè del matrimonio e della famiglia, con lo studio e la discussione con altre coppie e persone competenti.
È così che siamo partiti.

S iamo arrivati in Rwanda senza porci un limite di tempo e senza idee da colonizzatori: volevamo vedere e capire, per poi coinvolgere amici e conoscenti.
L’abitudine ai rifugi di montagna e ai disagi delle alte quote ci avevano addestrato a non guardare troppo per il sottile. Non abbiamo cercato alberghi, ma solo l’accoglienza che ci era offerta, per vivere con la gente e avere contatti e incontri.
Inizialmente siamo stati a Kicukiro, vicino alla capitale Kigali, per un primo approccio con la realtà e la storia del paese. Quindi abbiamo raggiunto Ruhuha, a 80 km dalla capitale, nelle regione di Ngenda, confinante con il Burundi, a 1.500 metri di altitudine; così, invece del caldo paventato, abbiamo avuto un’estate fresca.
Le difficoltà dei primi contatti sono state facilmente superate dalla gentilezza e accoglienza ricevute, soprattutto dal rispetto e curiosità: una coppia di anziani sempre insieme, bianchi coi capelli bianchi, in posti dove forse non si erano mai viste cose simili e dove l’età media degli uomini è di 60 anni, 50 per le donne… suscitava meraviglia, interesse e stupore.
Bambini e ragazzini erano strabiliati: ci accompagnavano volentieri nelle nostre passeggiate, mentre i più piccoli avevano paura: appena si mostrava di andare loro incontro, scappavano o si nascondevano.
Tutti volevano salutare stringendoci la mano, spesso con entrambe le loro mani, o sostenendo il braccio destro con la sinistra: quasi volessero trasmettere il loro spirito e chiedere il nostro.

I l Rwanda è un piccolo paese molto giovane, dove la gente vuole conoscere, sapere, imparare. Ben presto abbiamo scoperto che, prima di ogni attività concreta, dovevamo instaurare un rapporto fra persone, ponendoci allo stesso livello, nell’amicizia umana semplice, spontanea e priva di interessi.
Il genocidio del 1994 ha lasciato segni visibili (cimiteri, ossari, tombe comuni, carceri stracolme) e molti rancori nascosti nell’animo di tutti, determinando atteggiamenti di silenzio, paura e sfiducia. I danni della colonizzazione e ideologie importate dall’Occidente sono ancora presenti e pesanti: le prevenzioni sui bianchi sono giustificate.
Tuttavia, anche se ci sono ancora problemi enormi (povertà, mancanza di lavoro, malattie, deficienze sociali) la gente che abbiamo incontrato è sempre stata gentile, dignitosa, paziente, anche allegra e serena. C’è una grande voglia di danzare e cantare, cosa che esplode negli incontri religiosi. Caratteristiche che fanno parte del loro essere.
Occorreva, innanzitutto, costruire la pace e la riconciliazione, la fiducia in se stessi e ristabilire i rapporti di fiducia reciproca. Far capire che, per essere persone libere, occorre assumere diritti e doveri, prima di poter pensare a qualche obiettivo concreto e realizzare una collaborazione.
La domanda sulla nostra età dava avvio a una conversazione. Pensavamo che la nostra anzianità avrebbe potuto essere un fattore negativo. Invece l’interesse, l’attenzione e la viva partecipazione in ogni nostro rapporto con gli altri hanno messo in luce come l’anziano sia di per sé, per la sua esperienza di vita, portatore di saggezza e merita rispetto e ascolto.
Per questo ci chiedevano consigli pratici, a cui cercavamo di rispondere, adattando la nostra esperienza alle condizioni locali. Negli incontri abbiamo raccontato la nostra vita e ascoltato i loro problemi, spesso originati da ignoranza o consuetudini, assunte in modo acritico: cosa riconosciuta anche da loro.

U n’altra domanda che ci rivolgevano spesso era: «Come avete fatto a vivere assieme per tanto tempo?».
La nostra presenza di coppia, con 52 anni di matrimonio, era più eloquente delle parole: testimoniava che marito e moglie possono vivere serenamente nell’amore, che non bisogna mai perdere fiducia in se stessi, ma cercarla insieme per fare ogni giorno un passo avanti.
Invitati a vari incontri con singole persone, famiglie e gruppi, abbiamo constatato grande attesa, apertura e desiderio di comprendere il matrimonio nella sua vera realtà umana e religiosa. I loro molteplici interventi ci hanno aperto una porta sul loro modo di vivere nello stato di vita che è anche il nostro; infatti, sia loro che noi camminiamo su una stessa strada che, per tutti, non è facile e assicurata.
Ci siamo resi conto di come la famiglia viva in una situazione di crisi latente, forse dovuta a una fede ancora superficiale. Mancanza di fedeltà, poligamia, liti e dissapori provocati dall’alcornolismo, problemi legati alla dote, predominio dell’uomo e condizione pesante della donna, eccessiva natalità e povertà sono i maggiori problemi ascoltati dalla loro bocca.
Le molte domande rivelavano il loro modo di vivere lo stato matrimoniale, le difficoltà legate a situazioni ancestrali e radicate profondamente nella cultura. Uno dei punti centrali e difficili da capire era l’uguaglianza tra uomo e donna nella famiglia. Soprattutto erano curiosi di sapere come l’amore vero possa implicare la fedeltà reciproca: altro punto che capivano poco.
Eppure abbiamo incontrato tante coppie africane che ci hanno impressionato per la loro aspirazione a una vera esperienza spirituale familiare.

T oati a casa abbiamo valutato la nostra avventura e abbiamo voluto raccontarla.
In una zona dove si vedono pochissimi bianchi, appartenenti a organizzazioni umanitarie, ma generalmente non sposati, la nostra presenza è stata una novità positiva per noi e per la gente incontrata. Ha corroborato la convinzione che una lunga vita matrimoniale è un valore in sé di testimonianza ed esperienza.
Non avremmo mai pensato che i nostri 52 anni di vita come sposi e genitori fossero una credenziale di altissimo valore per il contesto culturale africano. L’apertura dell’africano verso l’anziano e la situazione della coppia africana sono segni dello Spirito per un nuovo tipo di chiamata.
Siamo convinti che, oggi, l’Africa ha bisogno anche di «coppie missionarie anziane», come testimoni di fedeltà. Naturalmente devono avere certi requisiti: lunga esperienza di vita familiare cristianamente vissuta e capacità di manifestarla agli altri, continuando ad amare insieme.
Molte coppie di pensionati, chiamate nell’undicesima ora a lavorare nella vita del Signore, potrebbero fare un’esperienza come la nostra. Già si organizzano viaggi per visitare le missioni; ma è giunta l’ora d’incarnarsi per qualche tempo nella realtà missionaria. Noi siamo pronti a ritornare, perché il cristiano non può andare in pensione.

Laura e Giovanni Paracchi