Cipro – Il dialogo che non c’è

Sono tutti concordi: tra ortodossi, cattolici, maroniti, musulmani non esiste inimicizia; si rispettano e, a volte, si dicono amici, ma il dialogo è un’altra cosa.
L’entrata di Cipro nell’Unione Europea è l’occasione per rompere il ghiaccio.

Boutros Gemayel,
arcivescovo maronita
La prima cosa che mi fa visitare è il piccolo museo di icone. «Le abbiamo portate dal nord senza troppa “pubblicità” quando la regione è stata occupata dai turchi» mi dice.
Sino all’invasione turca (1974) la maggior parte dei maroniti vivevano senza grossi problemi nei villaggi agricoli, quattro dei quali erano al nord. Due sono stati occupati dai militari, che ne hanno trasferito la popolazione; in un altro, parte degli abitanti è rimasta e parte si è trasferita al sud: a Kormakiti, il villaggio più grande con più di 2 mila persone, rimaneva il 40% degli abitanti, che piano piano sono passati al sud per lavorare: oggi ne rimangono poco più di un centinaio.
Quella dei maroniti è l’unica comunità cipriota che ha sempre avuto la possibilità di attraversare la linea verde piuttosto liberamente per visitare i parenti rimasti nei villaggi natii e fermarsi per 3-4 giorni. Il fatto è significativo sull’importanza che la piccola comunità cristiana potrà avere in un futuro dialogo con islamici e ortodossi, una volta ristabilita l’unità dell’isola.

Dopo questo esodo, la comunità ha mantenuto la propria unità?
«Purtroppo no. Sono gruppi sparsi. Solo recentemente abbiamo potuto avere una scuola maronita. Prima i nostri figli erano obbligati a frequentare le scuole pubbliche, dove gli alunni sono in maggioranza ortodossi. Ciò ha promosso la mutua conoscenza fra i giovani, ma favorito anche matrimoni misti: erano arrivati al 70%; oggi sono scesi al 50%».

In un paese diviso, dove si cerca d’instaurare un clima di dialogo, senla parlare di pericolo in questo contesto, mi sconcerta.
«Il pericolo è l’assimilazione: in una famiglia dove la madre è ortodossa e la fede molto sentita, i bambini seguiranno la religione della madre. Quando i maroniti abitavano nei loro villaggi, i matrimoni misti erano pochissimi. Noi abbiamo cercato di fondare centri di aggregazione, con scuole, centri sociali, casa per gli anziani, chiesa. Aspettiamo la soluzione, che permetta ai nostri maroniti di tornare ai villaggi, magari anche lavorando a Nicosia. Il piano di Annan, riconoscendo solo due grandi comunità cipriote, quella greca e quella turca, ha sottoposto i villaggi maroniti sotto l’autorità politica greca. Siamo felici di essere nella parte greca».

Perché?
«Perché sono cristiani come noi: con i greci i maroniti lavorano; con i turchi abbiamo religione, usi e costumi differenti».

Come sono i rapporti con i turchi e le autorità islamiche?
«Buoni. A natale ho celebrato la messa a Kormakiti: due importanti ufficiali turchi, assieme al responsabile religioso, sono venuti ad augurarmi un buon natale. Non abbiamo inimicizia né attriti, ma ci sentiamo parte della comunità greca».

Come vede l’entrata di Cipro in Europa?
«La sto guardando con molto interesse: come chiesa, io sarò cipriota e anche europeo e libanese. Potremo essere il ponte tra Europa, chiesa e Medio Oriente. Piuttosto, abbiamo alcuni problemi con i giovani, che, come in tutto il mondo, non sono molto vicini alla chiesa. Ma con la soluzione del problema di Cipro, potremmo essere più ottimisti, dato che un ritorno ai villaggi significherebbe anche un ritorno alla fede dei padri, alle chiese, alla casa, alla famiglia e potremo di nuovo riunirci».

E con la chiesa ortodossa?
«Abbiamo buone relazioni. Siamo cattolici, né uniati né latini: per gli ortodossi questo è importante. Noi maroniti siamo una chiesa a parte, tutti cattolici della chiesa di Antiochia; abbiamo le nostre tradizioni e relazioni sociali e umane con ortodossi; non siamo occidentali, ma orientali; quindi non siamo visti implicati nelle crociate. È per questo che abbiamo buone relazioni umane e tanti amici tra gli ortodossi».
Seyh Nazim Kibrisi,
leader musulmano
È la più importante guida sufi del mondo islamico. Ultraottantenne, vive in un paesino nella parte cipriota sotto occupazione turca, dove riceve visite di fedeli di tutto il mondo ed esponenti del sufismo internazionale.

La riunificazione dell’isola in una confederazione sembra a un passo: cristiani e islamici saranno di nuovo uniti e interagiranno insieme? Come vede questa nuova unione? Vi sentite pronti?
«Toerà tutto come prima. Dal punto di vista politico Cipro Nord ha una legislazione basata esclusivamente sul nazionalismo, senza alcun attributo islamico. Siamo turchi e la Turchia è uno stato secolare, così come lo è Cipro Nord».

L’islam non è solo una religione, ma anche un modo di vita. È possibile scindere le due fasi?
«Questo governo lo ha reso possibile. Ma sono fortemente critico nei suoi confronti e nella politica che sta attuando».

I politici di Cipro Nord dicono di essere pronti a entrare nella Unione Europea: cosa significa per voi, islamici, unirsi a una Comunità principalmente fondata su valori cristiani?
«È vero che l’Unione Europea è quella che io definisco un «club» cristiano. Nella storia turca abbiamo avuto i cosiddetti «nuovi ottomani». La loro idea di secolarizzazione è ancora viva. I «nuovi ottomani», che ora governano Turchia e Cipro Nord, sono pronti ad abiurare la loro religione e farsi cristiani pur di essere accettati nell’Unione Europea».

Ne è sicuro? Mi sembra un paradosso troppo estremo…
«Si, ne sono sicuro. Ma non lo fanno, perché hanno vergogna. Con il dominio ottomano si è formata una nuova idea di nazione, di leggi, di ordine mondiale ed essi pensano che essere con gli europei significa raggiungere il culmine della civiltà. Io non lo accetto questo».

Lei è contro anche alla globalizzazione dell’economia, che taglia ogni autosufficienza locale.
«Certamente. Sono anche contro quella grande associazione dell’Europa unita, che fa perdere ai singoli paesi identità e cultura originaria».

Nel 2004 una parte di Cipro, quella cristiana, aderirà all’Unione Europea: secondo lei perderà la propria identità?
«No, perché noi non siamo realmente in Europa. Siamo un’isola nel Mediterraneo e siamo indipendenti. Cipro chiede di aderire all’Unione solo per benefici economici e politici; oggi Cipro è un ricco paese, che può competere con qualsiasi nazione europea, sia dal punto di vista economico che politico. Se Cipro non fosse ammesso nella Comunità, non cambierebbe nulla. In realtà, oggi, c’è una grande voglia di non diventare cosmopolita, ma di mantenere la propria identità. E io non penso che questa Unione avrà lunga vita».

Lei critica l’Unione Europea perché cristiana e cosmopolita, la Turchia e Cipro Nord perché secolari: esiste un paese che definirebbe islamico?
«No, e non sa quanto mi dispiace rispondere alla sua domanda in modo negativo! Tra quelli che conosco, forse la Siria è quello che più si avvicina all’ideale islamico”.

Il problema è che l’islam non ha un leader riconosciuto, così ogni capo di comunità interpreta a piacimento ogni parola del Corano.
«La partizione non è una cosa positiva per l’islam. Il mondo islamico si è parcellizzato dopo la prima guerra mondiale, con il collasso dell’impero ottomano: è crollato con il califfo di Costantinopoli, che univa l’islam e dettava le leggi; così l’islam non ha più avuto un leader da seguire e ogni paese e territorio si è erto a giudice per la propria popolazione.
Anche i cristiani sono divisi: cattolici, protestanti, ortodossi. Per anni si sono combattuti. Oggi anche noi combattiamo tra noi stessi. Personalmente sono contro ogni tipo di fondamentalismo nell’islam».
Umberto Barato,
vicario del nunzio apostolico
a Cipro
Francescano, colmo di esuberante simpatia, Umberto Barato è la figura più in vista della chiesa cattolica latina a Cipro. La sua dimora lambisce la linea verde nel punto più caldo di Nicosia. Nella sacrestia della cattedrale la porticina che dà sulla parte turca è sigillata dal 1974.
Impossibilitato a dialogare con gli islamici, domando a che punto è quello con i cristiani ortodossi. La risposta è categorica: «Inesistente. Ci sono buoni rapporti, nel senso che ci si parla e non c’è alcuna inimicizia; ma non si può definire dialogo».

Come mai? Sono loro a chiudere le porte o entrambi?
«Non siamo pronti. Mi sembra che loro non si interessino per nulla della nostra chiesa. Nel passato c’era completa indifferenza; ma la situazione sta migliorando: l’apertura fatta dalla chiesa cattolica certamente facilita le cose.
Tre anni fa, in occasione della visita del papa in Grecia e Siria, sulle orme di san Paolo, abbiamo pensato a uno scalo a Cipro, poi andato a monte per ragioni diplomatiche e di tempo; ma quando si sparse la voce, un vescovo ortodosso disse che il papa avrebbe “attirato l’ira di Dio sulle loro teste”».

Nessuno lo ha smentito?
«Naturalmente quel vescovo fu preso in giro perfino dall’arcivescovo ortodosso di Cipro; ma è significativo che tale frase sia stata pronunciata. Anche tra alcuni fedeli ortodossi il pensiero verso la chiesa cattolica non è benevolo, anche se non è duro come in Grecia. Più che dalla chiesa, è dall’ambiente ortodosso che deriva tale malevolenza. L’unione tra le chiese dovrà esserci, ma per ora vedo tanti piccoli elementi che indicano che siamo molto distanti.
Personalmente penso che l’arcivescovo ortodosso abbia stima del papa e della chiesa cattolica, ma altri metropoliti lasciano un poco a desiderare«.

Tale diffidenza è riconducibile ad un preciso periodo storico?
«È certo eredità dei secoli passati. Fino a poco tempo fa trattavamo i greco-ortodossi come scismatici, che, a loro volta, ci consideravano esempio del male. Ci rinfacciano ancora l’occupazione di Costantinopoli, come se fosse tutta colpa della chiesa; ma io domando loro se turchi e arabi non abbiano fatto mai niente di male. Dopo Maometto, con le guerre sante, hanno occupato regioni asiatiche e l’Africa del nord, distruggendo chiese e costringendo i cristiani a convertirsi. Molti turchi convertiti una volta erano greci: lo afferma lo stesso arcivescovo ortodosso di Cipro. I crociati hanno commesso dei soprusi, non lo nego; ma i musulmani che hanno fatto? Scopo principale delle crociate, anche se poi sono degenerate, era proteggere i luoghi santi, perché i pellegrini venivano molestati e costretti a pagare una tassa. Ben diverso era il fine dei musulmani che volevano conquistare e convertire».

Per le due amministrazioni, turca e greca, la soluzione di Cipro sarebbe vicina: siete pronti per l’apertura e dialogo con l’islam?
«Con il governo Erdogan, la Turchia sembra avere un atteggiamento positivo e spera, attraverso Cipro, di entrare in Europa. Noi comunque siamo pronti. I contrasti potrebbero venire con la chiesa ortodossa: ufficialmente ha rifiutato «unanimemente» il piano di riunificazione, anche se non so quanto valga tale unanimità. Oramai non si può tornare indietro. Spero che non ci siano violenze, poiché non c’è solo l’ideale dell’unione; ma sono in ballo interessi economici, politici, strategici, personali, case, terreni e altre proprietà».

L’eventuale soluzione del problema di Cipro non cambierà molto per la chiesa cattolica, dal momento che la quasi totalità del lavoro si svolge nella parte greca.
«Sarà più facile andare al nord, anche se già mi reco due volte al mese a Kormakiti, dove lavorano tre suore, e a Kyrenia, dove abbiamo una chiesa e celebro la messa con una ventina di pensionati inglesi che vivono nell’isola.
Anche nella parte sud la chiesa cattolica è «straniera», in quanto composta da srilankesi, indiani, filippini. La chiesa latina, stabilitasi con le crociate, è vecchia di secoli; abbiamo una comunità locale cipriota che però sta diminuendo, anche perché i latini, sposandosi con greci ortodossi, si sono assimilati con gli ortodossi. Adesso abbiamo 400 persone, tutti stranieri. Un prete dello Sri Lanka è venuto ad aiutarci e segue la comunità cingalese. Così Cipro diventa un campo di apostolato che ci apre nuove prospettive per l’Asia».

Piergiorgio Pescali




Cipro – Andando per conventi

Natura e mito, storia e religioni fanno dell’isola più bella del Mediterraneo un crogiolo di culture e di contrasti. Nel profondo dell’anima rimane indelebile l’impronta impressa da secoli di monachesimo.

L a spuma prodotta dalle onde, che da millenni si infrangono contro lo scoglio di Petra tou Romiou, ripropone all’infinito l’atto di nascita di Afrodite, la dea della bellezza, della sensualità e dell’amore, che a Cipro trovò il suo regno. E l’amore, Afrodite, lo ha sempre elargito generosamente. Fu la dea a dar vita al freddo marmo con cui Pigmalione scolpì Galatea, la statua di cui si innamorò; ma fu ancora lei che sedusse e fu sedotta da Ares, il dio della guerra, tradendo il marito Efesto, per segnare così l’indissolubile legame degli opposti: mare e terra, bellezza e devastazione, bene e male, amore e guerra.
Ecco, il contrasto è forse il sostantivo che più si addice a Cipro, ai suoi abitanti e a chi intende carpie l’anima. Dal mito alla storia, dalla natura umana a quella morfologica, per terminare con la religione, Cipro sembra creata apposta per ricordare all’uomo che è il dualismo a regolare il mondo terreno e, spesso, in modo drammatico.
INTRECCIO DI STORIA E RELIGIONE
La posizione geografica dell’isola, situata sulle rotte commerciali tra Europa e Vicino Oriente e tra cristianesimo e islamismo, ha fatto sì che fin dagli albori della sua storia, gli eserciti conquistatori ritenessero di vitale importanza il suo controllo. Portaerei naturale dell’antichità, a Cipro regnarono greci, fenici, assiri, egiziani, arabi, francesi, veneziani, turco-ottomani, britannici, e ciascuna di queste civiltà ha lasciato qualche testimonianza che ancora oggi è facile riscontrare nell’isola.
Storia e religione qui si attorcigliano, compenetrando l’una nell’altra, proprio come Afrodite e Ares. Già nel 45 d.C., il governatore romano Sergio Paolo, dopo aver fatto sferzare san Paolo con trentanove scudisciate, si convertì al cristianesimo assieme alla maggioranza della popolazione. La colonna a cui l’apostolo di Cristo fu incatenato e frustato è ancora oggi meta di pellegrinaggi nel sito archeologico di Chrysopolitissa, a Pafos, sulla costa occidentale.
Il vangelo portato dalla violenza della frusta, fu causa di ben altra violenza mille anni più tardi, quando lo slancio fideistico dei crociati mise a ferro e a fuoco i correligionari ciprioti, rei di aver abbracciato l’ortodossia. Come accade di frequente, sono proprio i compagni di partito, che militano in un’altra fazione, ad essere l’oggetto delle più feroci angherie. Così per i cristiani.
La spartizione dell’Impero romano, avvenuta nel iv secolo, precorre ciò che noi abbiamo solo riscoperto di recente con la caduta del muro di Berlino: più che le frontiere politiche, sono i confini linguistici e quelli religiosi ad essi legati, a caratterizzare l’Europa del futuro.
La divisione del mondo cristiano tra l’Occidente latino, che rompe ogni legame col passato per ricrearsi una nuova cultura, tradizione, lingua, arroccandosi attorno alla chiesa di Roma, e l’Oriente bizantino, che rappresenta la continuazione del passato, è sancita dallo scisma d’Oriente del 1054.
Ma è la terribile profanazione del trono di Bisanzio, nel 1204, da parte dei condottieri della iv crociata, che misero sul trono di Santa Sofia una prostituta, a essere ricordata dagli ortodossi come la causa della definitiva scissione tra chiesa cattolica romana e chiesa ortodossa.
Quegli anni, fatti di eccidi in nome dello stesso «Dio, buono e misericordioso» bruciano ancora nel mondo greco e slavo. Padre Umberto Barato, vicario del nunzio apostolico di Nicosia, mi dice che ricorderà per tutta la vita il giorno in cui un giovane ortodosso rinfacciò ai cattolici di aver causato il crollo della capitale bizantina e la divisione del mondo cristiano (vedi pag. 37).
Altri ricordano la devastazione portata da Riccardo Cuor di Leone nel 1191 e quella dei templari subito dopo. La famosa Bulla cipria, emanata da papa Alessandro iv nel 1260, che dava alla chiesa cattolica il dominio di Cipro, viene tuttoggi citata dai greco-ciprioti come esempio dell’arroganza di Roma nei loro confronti. Poco sorprende, quindi, che la cacciata dei veneziani da Famagosta e dall’intera isola da parte dei turchi, nel 1571, sia stata salutata con favore dai cristiani ortodossi locali.
I PRIMI «NO GLOBAL»
In questo periodo di oscurantismo religioso, per scampare alle persecuzioni cattoliche, molti pope rimasti fedeli alla chiesa di Bisanzio cominciarono a fuggire nell’interno dell’isola, inerpicandosi lungo i monti Troodos, costruendovi piccoli eremi.
Il monachesimo, una delle peculiarità che all’inizio hanno differenziato le due chiese cristiane, è per la fede ortodossa il principale protagonista della vita spirituale.
Il turista che con i modei mezzi di trasporto raggiunge le piccole chiesette isolate, di pietre rozzamente squadrate, dovrebbe sempre aver presente l’isolamento cui si erano volontariamente relegati i primi mistici ortodossi. Tragitti che oggi si compiono in poche ore, allora richiedevano giorni di cammino. Dove sorgono ristoranti, hotels e piscine, c’erano poche casupole di pastori che, durante l’inverno, tornavano sulla costa. Persino i monasteri e le chiesette più antiche all’inizio erano poco più che una cella di nuda pietra.
La devozione che il popolo tributava ai monaci portò, dopo la morte di chi le abitava, a erigere santuari e chiese che andavano a inglobare le primitive casupole. Sorsero così le centinaia di cappelle disseminate come semi di grano un poco ovunque a Cipro. A volte si sceglie un luogo particolarmente suggestivo, in cima a una rupe o una scogliera; altre volte, invece, si preferiscono siti più oculati, all’interno di un bosco o vicino a grotte. Tutte, però, sono situate lontano dalle arterie principali e, soprattutto, dalle rotte commerciali, a voler rafforzare la scelta di distacco dal mondo terreno.
«I monaci eremiti sono stati i primo no-global della storia» mi dice scherzando il pope di Panagia tou Arakou. Anche oggi, per gustare la vera atmosfera cipriota, davanti a un buon bicchiere di vino e ottimo halloumi (formaggio arrostito alla griglia), occorre salire fin quassù, lontano dai McDonalds e dalle anonime vetrine zeppe di vestiti firmati.
CERCATORI DI QUIETE E DI DIO
Lontano anche dalla calca dei turisti. Gli incerti raggi del sole appena sorto accarezzano la roccia di Petra tou Romiou e la minuscola spiaggia sassosa che le fa da contorno. La calma, per ora, è assoluta; ma so che questa fetta di paradiso, ritagliata rubando ore al sonno, durerà poco, giusto il tempo perché i pullman scarichino orde di turisti vocianti, interrompendo quell’atmosfera mistica che solo la solitudine e la quiete riescono a creare.
In greco solitudine e quiete si traducono con una sola parola: hesychia, da cui deriva il termine «esicasmo»: il movimento ascetico e monastico, rivalutato nella chiesa ortodossa, che si sforza di raggiungere la comunione con Dio.
E così, abbandonando frettolosamente Petra tou Romiou e la costa, cartina alla mano, vado alla ricerca dei monasteri e, per non subire un distacco troppo repentino tra dei greci e Dio cristiano, inizio dal più pagano di tutti: quello di Agios Nikolaos ton gaton (San Nicola dei gatti). Qui decine di gatti trovano pace e rifugio grazie a Sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, la quale introdusse questi felini a Cipro per liberare l’isola dai serpenti.
A mano a mano che mi addentro tra le pinete dei monti Troodos, comprendo la volontà degli eremiti di allontanarsi dal bailamme della costa. Essi erano in fuga dalle truppe militari e dai mercanti, io da altri tipi di eserciti, spesso non meno devastanti e prevaricatori: quelli dei turisti, che nel xiii secolo erano certo meno invadenti.
Fu in quel periodo che Gregorio Palamàs, monaco del Monte Athos e poi arcivescovo di Tessalonica, elaborò la prassi teologica dell’eremitaggio, che ben presto divenne un dogma nella chiesa ortodossa.
MADONNA DELLA TENEREZZA
Mi dirigo al monastero di Kykkos, il più importante di Cipro, passando per il monte Olimpo. I paesaggi si susseguono incantevoli uno dopo l’altro e alla fine giungo alle porte del monastero, costruito nel xii secolo per volontà dell’imperatore bizantino Alessio Comnenus.
Qui il futuro primo presidente di Cipro, l’arcivescovo Makarios iii, passò il suo noviziato e poco lontano la sua tomba domina simbolicamente l’intera isola.
I monaci di Kykkos, come altri confratelli greco-ortodossi sparsi negli altri monasteri, favorirono apertamente la lotta dell’Eoka, l’organizzazione filogreca che negli anni ’50 contrastò la colonizzazione britannica. Non è certo un caso che lo sguardo della mastodontica statua bronzea di Makarios iii, di fronte al palazzo arcivescovile di Nicosia, si posa sul monumento alla libertà, dedicato ai combattenti dell’Eoka.
Ma la notorietà di Kykkos travalica il mero significato politico. La fama del monastero si è espansa in tutto il mondo slavo e greco, grazie alla Panagia Eleousa, l’icona della Madonna della Misericordia, venerata da Mosca a Lalibela (Etiopia).
Entro nella cappella dove è custodita la sacra immagine; un monaco legge passi dell’Antico Testamento proprio sotto la Vergine, che nel suo braccio destro culla Gesù Cristo ancora bambino. La tradizione vuole che sia stato l’evangelista Luca a dipingere il quadro, ritraendo la Madonna così come la ricordava.
Vera o falsa che sia la leggenda, l’icona infonde serenità e profonda spiritualità, grazie allo sguardo e la postura dei due protagonisti. Se pare impossibile che sia stato realmente Luca a dipingee le fattezze, è difficile comprendere come il vero pittore abbia potuto infondere ai soggetti tali cariche spirituali senza averli conosciuti di persona.
ARTE E FEDE
Per un paio di giorni girovago tra i monti Troodos visitando chiese, monasteri, santuari. Alcuni sono dei veri e propri conventi ristrutturati e abitati da decine di monaci, come quello di Trooditissa; altri, invece, e sono quelle che più preferisco, sono piccole cappelle poco illuminate, affrescate di motivi tratti dai vangeli: ultima cena, entrata di Gesù a Gerusalemme, assunzione della Vergine, ritratti di santi.
Nove di queste chiese sono state iscritte nel patrimonio artistico mondiale dell’Unesco: Agios Nikolaos tis Stegis (xi secolo), Agios Ioannis Lambadhistis (xi secolo), Panayia Phorviotissa tou Asinou (xii secolo), Panagia tou Arakou (xii secolo), chiesa della Vergine di Moutoullas (xiii-xiv secolo), di San Michele Arcangelo (xv secolo), di Timios Stavros (xiii-xv secolo), Panagia tis Podhithou (xvi secolo), chiesa di Stavros Ayiasmati (xv secolo) e di Ayia Sotira tou Soteros (xvi secolo).
Nella bellissima e isolata Agios Nikolaos tis Stegis osservo un affresco raffigurante la resurrezione di Lazzaro, uno dei miracoli di Cristo che più hanno colpito l’immaginazione di noi bambini quando, per la prima volta, lo sentimmo raccontare.
Mi reco a Laaca, dove Lazzaro si trasferì e morì. Nella chiesa dedicata al santo, c’è ancora la sua tomba, venerata in tutta la cristianità. Anche qui, rimango in contemplazione degli stupendi affreschi che oano le facciate intee e delle icone raffiguranti san Lazzaro e la Madonna con Bambino.
Rapito dal loro fascino, visito il Museo bizantino di Nicosia, che ne espone un’intera collezione, proprio dietro la stupenda cattedrale di San Giovanni e il palazzo arcivescovile.
Le icone (dal greco eikòn, effige), assieme al canto, divennero ben presto oggetto di devozione presso il popolo. Ma l’affermarsi di questa arte, che caratterizza ancora oggi la fede ortodossa, non è stata così lineare come potrebbe sembrare. L’imperatore bizantino Leone iii cominciò l’iconoclastia (distruzione delle icone); il successore Costantino v, 30 anni dopo radunò il «conciliabolo» di Hiereia (754), in cui fu stabilito che solo l’eucaristia poteva rappresentare l’immagine di Cristo; finché il Concilio ecumenico di Nicea ii (787) riammise il culto delle immagini.
Il movimento iconoclasta, che imperversò con violenza tra l’viii e il ix secolo e che voleva riportare in auge l’aniconismo del cristianesimo originario (quando Cristo era rappresentato solo da un pesce), a Cipro non raggiunse mai gli eccessi che ebbe nel continente. Forse per questo l’arte dell’icona nell’isola raggiunse livelli elevatissimi.
SFIDA ECUMENICA
Mi dicono che presso il monastero di Stavrovouni, il primo edificato a Cipro, continua a esistere una comunità di monaci che ha proseguito la tradizione. Decido di andarla a trovare, ma le regole che ritmano la vita ecclesiale sono ferree: l’ingresso è vietato alle donne; per noi maschietti le visite sono permesse solo in determinati orari, per non disturbare la preghiera e la meditazione quotidiana. È un modo per preservare antichi rituali.
Padre Kallinikos, un vispo ottuagenario, mi accoglie nel suo stupendo studiolo, dalle pareti ricoperte di icone, libri, pennelli, tempere prodotte a mano. Parliamo a lungo del significato delle icone e delle diversità di vedute tra cattolici e ortodossi. «Dovremmo iniziare a parlarci iniziando dalle cose che abbiamo in comune» mi dice mostrandomi col dito un’icona della Madonna col Bambino dipinta da lui.
Abbandono la hesychia di Stavrovouni per rituffarmi nelle strade affollate di Nicosia. Seduto in un caffè, di fronte alla Linea Verde che divide la zona greco-cipriota da quella turco-cipriota, mi tornano in mente le parole riferitemi dal pope del monastero di Kykkos: «Cipro potrebbe essere un grande esempio ecumenico per tutta l’umanità e rappresentare il futuro dell’Europa: qui vivono latini, maroniti, greco-ortodossi, islamici, anglicani. La sua divisione, politica e religiosa, rappresenta il vero dramma dell’incomunicabilità del nostro tempo».

Piergiorgio Pescali




Cipro – La Breccia

L’1 maggio 2004, entreranno in Europa 620 mila greco-ciprioti; 180 mila abitanti di origine turca dovranno attendere ancora.
Ma nel muro, che da 30 anni li divide, si è aperto uno spiraglio di speranza.

Sta crollando l’ultima vergogna dell’Europa? Nel muro, che dal 1974 divide l’isola di Cipro e le etnie greca e turca, è stata aperta una prima breccia, permettendo alle due comunità di visitare le zone prima a loro proibite. La storica decisione presa da Rauf Denktash, presidente dell’autonominata Repubblica Turca di Cipro Nord (riconosciuta solo dalla Turchia) «potrebbe essere un passo decisivo verso la soluzione del problema dell’isola» ha dichiarato Walter Schwimmer, segretario generale del Consiglio d’Europa.
Ma Kypros Chrisostomides, portavoce del governo della Repubblica di Cipro, ha subito raggelato gli entusiasmi, affermando che «la decisione (di Denktash) è illegale; è un tentativo di sviare l’attenzione della comunità internazionale sulla illegittimità dell’occupazione turca nella parte settentrionale dell’isola. Il muro non sta cadendo e questo non è il modo per risolvere i problemi di Cipro».
Tali problemi sono la presenza di 40 mila soldati turchi e 100 mila coloni immigrati dalla Turchia, stanziatisi nel nord dell’isola dopo il 1974, occupando case e terreni appartenenti ai greco-ciprioti fuggiti al sud. Le forze di destra greco-cipriote si sono scagliate contro l’apertura e hanno sconsigliato i greco-ciprioti di entrare al nord, mentre il quotidiano in lingua greca Phileleftheros ha chiesto al governo di adottare misure di sicurezza, per prevenire infiltrazioni di agenti turchi al sud, definendo criminale il regime turco-cipriota.
Al di là della retorica del dialogo, la mossa di Denktash è stata dettata dalla necessità di recuperare la fiducia di migliaia di turco-ciprioti, scesi in piazza chiedendo le sue dimissioni, dopo il suo rifiuto al piano di Kofi Annan. Proposto nel marzo 2003, tale piano prevede un modello di confederazione simile a quello svizzero.
Inoltre, la decisione di tale apertura è giunta una settimana dopo la visita del primo ministro greco Costas Simitis, che sanciva la firma dell’ammissione della Repubblica di Cipro alla comunità nel 2004.

A tal proposito, Simitis ha parlato di «enosis di Cipro all’Ue», suscitando vivaci proteste da parte turca: nell’isola la parola enosis (unione) è storicamente intesa come annessione alla Grecia. La gaffe di Simitis ha riproposto il problema dell’indipendenza nazionale, anche se George Vassiliou, capo delegazione cipriota per i colloqui d’integrazione, in un’intervista rilasciataci in esclusiva (vedi pag. 38), ha affermato che «a Cipro non esiste alcuna idea di enosis, come non c’è nessuna possibilità che la parte turco-cipriota raggiunga l’integrazione con la Turchia».
La preoccupazione del presidente greco-cipriota, Tassos Papadopouls, è soprattutto diplomatica: le migliaia di greco-ciprioti che, incuranti delle raccomandazioni del governo, si sono riversati al nord devono mostrare alle autorità della parte settentrionale il proprio passaporto, come se stessero entrando in un paese straniero; mentre la polizia greco-cipriota richiede ai turco-ciprioti diretti al sud l’esibizione della sola carta d’identità.
Ma la libera circolazione della popolazione ha avuto anche un effetto boomerang imprevisto per le autorità turche: approfittando della possibilità di varcare il muro, molti abitanti della parte settentrionale hanno richiesto il passaporto della Repubblica di Cipro, che permetterebbe loro di circolare liberamente in Europa e nel mondo intero.
La cicatrice che sfregia l’isola di Cipro sembra abbia finalmente iniziato a rimarginarsi. L’Onu, che da anni preme affinché le due parti riescano a trovare un accordo che ponga fine alla costosa presenza del contingente di 1.400 persone dell’Unificyp (45,6 milioni di dollari Usa annui), non deve lasciarsi sfuggire questa occasione, per riabilitarsi di fronte alla comunità internazionale dopo il disastro iracheno.

Piergiorgio Pescali




La sfida infinita

Per 5 secoli la chiesa latinoamericana ha ricevuto missionari da altrove; da 40 anni sta recuperando la sua coscienza missionaria: oggi invia i suoi evangelizzatori in altri continenti.
Tale maturazione è ancora in corso, con un cammino esemplare, come testimonia l’ultimo Congresso missionario.

«È arrivato il tempo per l’America Latina di intensificare i servizi mutui tra le chiese particolari, era scritto nel documento di Puebla 25 anni fa. Che cosa è stato fatto in tutto questo tempo?» ha domandato appassionatamente il cardinale Oscar Rodríguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa (Honduras), ai partecipanti del secondo Congresso americano missionario (Cam2/Comla7). «Il nostro continente contiene il 50 per cento dei cattolici mondiali, ma non ha il 50 per cento dei missionari del mondo» ha continuato il porporato.
Per quasi 500 anni l’America Latina si è considerata «terra di missione» passiva, cioè dipendente, in fatto di personale, mezzi e idee, dalle chiese europee e, più recentemente, da quelle nordamericane.
Pur avendo ancora bisogno di essere alimentata dall’estero, essa sta diventando sempre più una «chiesa missionaria attiva», evangelizzando i gruppi umani che ancora non credono a Cristo e inviando missionari al di là delle proprie frontiere, «dando della sua povertà».
DALLA CRISTIANIZZAZIONE
ALL’EVANGELIZZAZIONE
Per secoli la sfida missionaria della chiesa in America Latina è stata quella d’insegnare alla gente a praticare le espressioni religiose secondo i modelli della cultura dominante: formare buoni cristiani con l’appartenenza alla chiesa, imparando la dottrina, osservando i comandamenti, ricevendo i sacramenti e partecipando alle devozioni cattoliche.
Più che di evangelizzazione, si è trattato di un processo di cristianizzazione, in cui le culture indigene non avevano alcuna importanza (non solo in America Latina) nell’espressione della vita cristiana. I missionari ritenevano quella occidentale come l’unica via, o la più adeguata, per esprimere il vangelo.
Ma il 35% degli abitanti del continente (amerindi, afroamericani e minoranze asiatiche) non sono affatto «latini» nelle loro radici culturali; metà della popolazione è costituita da mestizos, con un grande miscuglio anche sotto l’aspetto etnico e culturale.
Tuttavia, la cristianizzazione ha fatto sì che il cristianesimo non fosse sentito in America come una religione straniera; anzi, la predicazione del vangelo è sempre stata accettata e desiderata. Ma ne è nata una chiesa introversa, occupata a conservare la fede delle sue comunità e la propria influenza sulla società, senza alcuna preoccupazione di comunicare il vangelo ai non cristiani in Asia e Africa. Tale era la mentalità alla vigilia del Concilio Vaticano ii.
Quanto il Concilio definì missioni «le iniziative dei divulgatori del vangelo in mezzo ai popoli e gruppi umani che ancora non credono in Cristo» (Ad Gentes 6), una sessantina di vescovi brasiliani suggerì una differente formulazione: sono missioni «le attività dirette a tutte le creature, particolarmente ai popoli e gruppi umani che ancora non credono in Cristo».
L’aggiunta dell’avverbio non passò, per non annacquare il concetto di missione; in compenso fu aggiunta questa nota: «È evidente che in questa nozione dell’attività missionaria sono incluse obiettivamente anche le parti dell’America Latina, in cui non c’è né gerarchia propria, né maturità di vita cristiana né sufficiente predicazione del vangelo» (AG 6, nota 15).
Con questa nota l’America Latina continuava a ritenersi «terra di missione» in senso passivo e geografico, in quanto vari gruppi umani si presumevano già cristianizzati, ma ancora ignoranti o indifferenti circa la fede cristiana.
Ma a partire dalla seconda metà del secolo xx nella chiesa latinoamericana si è fatta strada la coscienza dell’evangelizzazione in senso specifico, come annuncio del vangelo ai gruppi umani più emarginati, per renderli capaci di un incontro personale col Cristo vivente, attraverso una vera conversione e la sequela.
RINNOVAMENTO DAL BASSO
Cominciò negli anni ’50. Vari missionari impegnati nei paesi delle Ande (Bolivia, Perù, Ecuador) e Centroamerica (Messico e Guatemala), dove si concentra il 90% dei popoli indigeni, sentirono l’urgenza di una nuova evangelizzazione. A tale scopo formarono catechisti e animatori responsabili di annunciare il vangelo nella propria lingua, guidare il culto e la vita ecclesiale delle proprie comunità; soprattutto, studiarono le esperienze religiose ed espressioni culturali dei vari gruppi etnici, le confrontarono con le sacre scritture e le valorizzarono per esprimere la fede cristiana in termini comprensibili ai membri delle singole culture e farla rivivere secondo la loro identità.
Nasceva così la missiologia latinoamericana, le cui radici non sono nelle facoltà teologiche, ma nelle sfide di base dell’apostolato locale.
A risvegliare la coscienza missionaria della chiesa latinoamericana ha contribuito, soprattutto, il rinnovamento della teologia cattolica, operato dal Vaticano ii. Nel 1966, il Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) prese sul serio l’affermazione conciliare che l’intera chiesa è missionaria «per sua natura», che ogni battezzato è responsabile dell’annuncio del vangelo ai non cristiani (Ad Gentes 2). Per animare le singole conferenze episcopali, il Celam diede vita al Departamento de missiones (Demis).
Questo si mise subito al lavoro: in due incontri (nel 1967 in Ecuador e nel 1968 in Colombia) cominciò a identificare le situazioni specifiche missionarie, a stabilire le priorità e tracciare le linee guida della nuova evangelizzione. Fu coniato il termine «situazioni missionarie», riferite ai gruppi umani da evangelizzare, non perché vivono in giurisdizioni ufficialmente designate come «territori di missione», ma perché le loro culture non hanno ancora incontrato la forza vivificante del vangelo.
Erano gli anni in cui si stava affermando la teologia della liberazione: essa si interessava anche degli indigeni, ma quasi esclusivamente sotto l’aspetto socio-economico, dando poca importanza a quello culturale. Perfino la seconda Conferenza del Celam, tenuta a Medellín nel 1968, pur riconoscendo l’esistenza dei popoli indigeni, li considerò come gruppi socialmente emarginati, non come popoli la cui identità culturale sfidava la chiesa nell’attività missionaria specifica.
Ma poiché il 90% degli indigeni era concentrato in soli 5 paesi; le altre 17 conferenze episcopali prestarono poco interesse al lavoro del Demis, considerato come un dipartimento del Celam per gli affari indios o di antropologia.
Anzi, la proposta di mons. Samuel Ruiz, vescovo del Chiapas (Messico), presidente del Demis dal 1969 al 1974, di formare chiese diversificate tra i popoli indigeni fu considerata irrealistica, un’esagerazione, se non una minaccia.
Ironia della sorte, gli orientamenti teologici e pastorali del vescovo messicano, sono diventati dottrina ufficiale della chiesa, da quando Paolo vi, in Evangelii nuntiandi (1975), parla di «evangelizzazione delle culture».
LA GRANDE SVOLTA
Dal 1975, grazie all’Evangelii nuntiandi, vescovi e teologi latinoamericani cominciarono a prendere sul serio la relazione tra vangelo e cultura. La terza Assemblea generale del Celam (Puebla 1979) segnò una svolta di 360 gradi nella coscienza e azione missionaria: i vescovi riconobbero l’esistenza di «situazioni missionarie» non solo tra gli indigeni, ma anche tra gli afroamericani (30% della popolazione del continente), a lungo ignorati dall’apostolato della chiesa ed ora considerati «i più poveri dei poveri», una «situazione missionaria permanente».
Se fino a Puebla erano stati i missionari a promuovere la valorizzazione teologica delle culture tradizionali, da quel momento saranno i pensatori indigeni e afroamericani ad approfondire tale argomento, nella ricerca di una teologia propria: si cominciò a parlare di «teologia india» e «teologia afroamericana».
CONGRESSI MISSIONARI
Il cambiamento più profondo aperto da Puebla è il senso di urgenza impresso alla chiesa latinoamericana ad accogliere la sfida dell’evangelizzazione dei popoli fuori delle proprie frontiere, in Africa e Asia, «dando dalla propria povertà» (DP 368) di personale e mezzi.
A svegliare e forgiare questo nuovo spirito missionario furono, negli ultimi 25 anni, i congressi missionari. Già prima di Puebla, le Pontificie opere missionarie (Pom) ne avevano organizzati alcuni a livello nazionale; a quello messicano, tenuto a Torreón nel 1977, parteciparono vari delegati dei paesi latinoamericani e furono presi impegni sull’animazione missionaria e vocazioni missionarie a livello continentale. Così nacque il Comla (Congresso missionario latinoamericano), sigla ufficiale ratificata nel secondo convegno, tenuto a Tlaxcala (Messico) nel 1983. Come segno di comunione e partecipazione all’evangelizzazione del mondo, fu richiesto alle diocesi più ricche di personale di inviare i loro sacerdoti alle chiese più bisognose.
Il terzo Comla, tenuto a Bogotá nel 1987, ribadì la responsabilità missionaria delle chiese diocesane. Il quarto, celebrato a Lima nel 1991, mobilitò la chiesa latinoamericana nell’invio di missionari ad gentes, come atto fondamentale della propria fede. Il quinto Comla, nel 1995 a Belo Horizonte (Brasile), mise in risalto i problemi dell’inculturazione e la vocazione missionaria degli afroamericani.
Sulle orme del Sinodo dei vescovi d’America (1997), che «considerò il continente come una realtà unica», missionari provenienti dal Canada alla Terra del Fuoco parteciparono al sesto Comla, tenuto nel 1999 a Paraná (Argentina), che diventò il primo Congresso americano missionario (Cam1).
PONTE TRA NORD E SUD

Il Cam2-Comla7 si è tenuto nella capitale del Guatemala dal 25 al 30 novembre 2003. La scelta di questo paese è estremamente significativa: il Centroamerica è cuore del continente, un ponte che unisce nord e sud e ha il compito di favorire la comunione e la solidarietà effettiva tra tutti i popoli americani.
In un’atmosfera quasi pentecostale, dinamica, entusiasta e ricchezza di simboli, hanno partecipato oltre 3.000 congressisti: 8 cardinali, 113 vescovi, 800 tra sacerdoti, religiosi e religiose, diaconi e pellegrini provenienti dalle regioni delle Americhe.
Partendo dal motto «Chiesa in America, la tua vita è missione», nelle conferenze e riflessioni di gruppo sono stati dibattuti temi legati alla missione: spiritualità e nuovi cammini di animazione e formazione delle chiese locali e comunità parrocchiali, inculturazione e dialogo interreligioso, le attuali sfide della migrazione e globalizzazione.
«La missione a partire dalla piccolezza, povertà e martirio» è stato certamente il tema chiave di tutto il congresso, sviluppato e approfondito nelle sue radici evangeliche. Il Guatemala ne era una icona vivente: paese piccolo, povero e, soprattutto, insanguinato dalla persecuzione e uccisione di migliaia di martiri, catechisti e semplici fedeli, oltre a preti, religiosi e religiose, per culminare con l’assassinio di mons. Juan José Girardi (1998).
Un applauso commosso ha accolto la proposta di avviare il processo di beatificazione di 103 martiri guatemaltechi, la cui documentazione storica è foita nella ricerca che è costata la vita a mons. Girardi.
Suggestiva è stata pure la liturgia della giornata dedicata alla «missione e martirio». In una preghiera in rito tradizionale maya, un gruppo di donne sono entrate in chiesa danzando e portando con sé pane, acqua delle sorgenti delle loro montagne, il fuoco, l’incenso, la bibbia tradotta nella loro lingua, le foto dei martiri e le loro reliquie. Hanno pregato per le tante vedove provate dalla violenza, ma anche per la vita che continua a nascere. Per intercessione di tutti i loro martiri, hanno rivolto la preghiera a Dio Padre/Madre, creatore e formatore.
La preghiera ha richiamato, ancora una volta, l’attenzione sulla possibilità di «evangelizzare» i riti tradizionali e «inculturare» il messaggio evangelico nel contesto culturale maya e di altre etnie.
VERSO IL FUTURO
I temi trattati sono stati ripresi e sintetizzati nel messaggio finale, inviato alle chiese del continente, intitolato: «Non possiamo tacere ciò che abbiamo visto e sentito». Senza cedere all’enfasi retorica, il documento vuole «parlare» alla chiesa universale e al mondo intero, con la consapevolezza del contributo originale che le chiese d’America possono dare proprio a partire dalla loro povertà e martirio.
Nel messaggio viene riaffermata «l’unità fondamentale» di tutti i popoli del continente, che deriva «dalla comunione nella stessa fede, stessa speranza e stessa carità»; un’unità che neppure le frontiere esistenti tra i diversi paesi e le barriere rappresentate dalle differenti lingue e culture possono ostacolare.
Il documento offre pure indicazioni per il cammino futuro. La più concreta è certamente la decisione di aprire nell’America Centrale, entro il 2005, un «Centro per la formazione e animazione dei missionari ad gentes», in cui sono coinvolti tutti gli episcopati della regione.
Il tema della «piccolezza, povertà e martirio» è una ennesima occasione per sottolineare la dignità di quelle popolazioni americane che, nonostante l’emarginazione economica e sociale, sono immensamente ricche, perché possiedono la fede.
Non poteva mancare nel testo un riferimento esplicito alla presenza al Congresso degli indigeni del Guatemala, che hanno suscitato profonda impressione in tutta l’assemblea. «Con la loro preghiera – dice il messaggio – gli indigeni ci portano a contemplare Dio nella creazione, a confidargli dolore e sofferenza, a conservare la speranza, anche quando l’orizzonte sembra completamente buio, a scoprire la sua presenza provvidenziale nelle cose e nei gesti più semplici, a ringraziarlo». Di fronte alla fede degli indigeni, prosegue il testo, si rafforza in tutti la convinzione che «il regno di Dio nasce nei cuori dalla piccolezza, povertà e martirio».
Naturalmente, viene ribadito l’invito alla missione ad gentes: «Dobbiamo condividere ciò che di più bello abbiamo ricevuto nel giorno del battesimo: il dono della fede». In tale prospettiva entrano anche il problema degli immigrati e il fermo impegno delle chiese d’origine ad accompagnarli e delle chiese di destinazione ad accoglierli con maggior calore.
Uomini e donne del Centroamerica, come i primi cristiani fuggiti da Gerusalemme a causa della persecuzione, arrivando nel nord del continente «armati della loro fede profonda e del loro immenso amore alla chiesa», possono ricordare a quanti vivono nell’abbondanza i valori autentici del vangelo.
L’ultimo punto riprende il titolo del messaggio. «Non possiamo tacere ciò che abbiamo visto e sentito», ossia l’incontro con Cristo risorto. Da qui un lungo elenco di richiami a fare della missione la propria vita: dai bambini, che sono «la primavera missionaria della chiesa»; ai giovani, perché dedichino la loro vita a Cristo; ai cristiani, chiamati ad essere missionari in virtù del battesimo; ai consacrati, chiamati alla sequela radicale di Cristo; ai presbiteri, perché siano disponibili ad essere inviati in ogni parte della terra, in virtù dell’ordinazione; ai vescovi, perché vivano a fondo la natura missionaria del loro ministero.

Benedetto Bellesi




Parliamaoci chiaro

«Meglio cinque parole intelligibili che diecimila in lingue» diceva già san Paolo. Tale suggerimento è,
oggi, valido più che mai sia in campo sociale che in quello religioso; anzi, è raccomandato soprattutto nel dialogo ecumenico.

Q ualche passo avanti nel dialogo ecumenico, specie tra cattolici, ortodossi e protestanti, è stato compiuto. Se si paragonasse tale dialogo a una tavola rotonda, è senz’altro assodato che ogni membro che siede a quel tavolo si considera su un piano di perfetta uguaglianza con i suoi partners. La deontologia del dialogo ormai è accettata. Quanto ad accordi, tuttavia, le distanze sono ancora enormi, che assumono a volte tali dissonanze, da sembrare un’orchestra con strumenti non accordati.
Due, soprattutto, sono i punti dove il disaccordo può dirsi totale. Il primo, specie tra cattolici e protestanti, riguarda il culto mariano e dei santi. Su questa questione nel 1990 uscì un documento ecumenico, frutto di un laborioso dialogo tra «cattolici romani e luterani» negli Stati Uniti, svoltosi dal 1983 al 1990, in otto dense riunioni.
Il documento ha un titolo molto significativo: L’unico Mediatore – I Santi e Maria; ed è molto lungo (152 pagine) e disgraziatamente molto complesso; quindi poco accessibile ai comuni mortali. Sembra quasi di assistere a una concitata partita di ping pong, botta e risposta. Non su un vasto campo di calcio, ma su un minuscolo tavolo da pranzo.
Il secondo punto di profondo disaccordo riguarda la figura stessa del papa e la sua funzione nella chiesa. Il 25 maggio 1995, Giovanni Paolo II scrisse un’enciclica dal titolo Ut unum sint sull’impegno ecumenico. Nella parte finale dell’enciclica, in cui tratta direttamente del vescovo di Roma, riconosce che il papa, proprio lui, «costituisce una difficoltà per la maggior parte degli altri cristiani, la cui memoria è segnata da certi ricordi dolorosi. Per quello che ne siamo responsabili, con il mio predecessore Paolo VI, imploro perdono».
PAROLE VUOTE
DISCORSI INCOMPRENSIBILI
Il prof. Tullio de Mauro, nella prefazione al libro di Roberto Berretta, Il piccolo ecclesialese illustrato, osserva che, ad esempio, la parola dono, così bella e dolce, diventa acerba come un limone, se presentata in un’«ottica ablativa».
Il noto predicatore Raniero Cantalamessa aggiunge: «Uno dei motivi per cui, in molte parti del mondo, si sta verificando un esodo dei cattolici verso altre chiese o sètte, è che la predicazione cattolica è diventata così ricca e complessa da non arrivare direttamente al cuore di una persona…» e per conto mio aggiungerei: neppure al cervello.
Se anche nell’ambito della stessa nostra chiesa, tra noi cattolici, non riusciamo a capirci, come fare a dialogare con fedeli di altre chiese, che forse devono affrontare le stesse nostre difficoltà?
Tanto più che, a quanto pare, un po’ tutti i settori del nostro vivere civile sono infestati da questo virus del parlare e scrivere senza farci capire.
Un giornale pubblicò la seguente lettera di un cliente di una banca: «Nella mia banca c’è un nuovo consulente finanziario addetto ai servizi di risparmio. Parla da esperto di borsa, usa parole per me incomprensibili. Viene da pensare che non voglia essere chiaro per vendere quello che vuole. Le pare giusto?».
E dopo la firma segue un esilarante articolo a commento e a conferma.
Un altro autore, per dimostrare la mania di certi politici di scrivere in modo incomprensibile – quasi tutti – riporta questo periodo di prosa politica: «Gli elementi di intelligence (evviva l’inglese!) e i risultati delle operazioni di polizia hanno confermato l’esistenza nel nostro paese di poli impegnati in attività, la cui valenza emerge alla luce di una strategia globale che trova nella fase logistica momento nodale per garantire la mobilità dei militanti».
Mi auguro che il tipografo abbia riportato in modo esatto questo testo. Ma il commento del giornalista è questo: «Se fossi presidente della Camera l’avrei rispedito al mittente: “Per favore riscrivete tutto in un linguaggio decente, chiaro e stringato. I rappresentanti del popolo italiano non saranno un granché, però non avete il diritto di offenderli con una prosa così demente”».
Lo scopo di questo mio scritto è, però, religioso, specie nei suoi aspetti ecumenici. Uno di questi aspetti, primario e indispensabile, senza del quale tutti gli altri servono a poco, è di parlare in modo comprensibile.
Ci sarebbe da divertirsi, prima di arrivare al punto, ma il sorriso sarebbe sempre amaro.
Indro Montanelli, nella celebre La Stanza del Corriere, diede una secca risposta alla lettera di un teologo che dissentiva dal suo modo di presentare lo scisma del 1054, che spaccò la chiesa in due: «Vede, questa è la grave stortura della cultura italiana, teologia compresa: di essere una cultura a circolo chiuso… di pochi eletti: ai quali io non appartengo, né mai ho ambito di appartenere. Perché il mio compito – quello che mi sono sempre prefisso – è di spiegare le cose a chi non le sa, non a chi le sa meglio di me, ma vuole tenersele per sé».
E più spassose ancora, a volerle riportare per intero, sarebbero le critiche di Guido Ceronetti a scritti redatti in «un gergo del tutto demenziale», che provano che chi così scrive «non è mentalmente a posto». E aggiunge, e ciò vale anche per il linguaggio religioso: «La prima delle difese è il linguaggio: se le sue porte sono senza cardini, i lupi vi entrano a frotte, con la solita zampina infarinata».
«I RUMINANTI
DELLA SACRA ALLEANZA»
È noto che il papa Luciani parlava in modo semplice. Aveva voluto accanto a sé suor Celestina per un compito speciale: che gli leggesse le sue prediche e gli dicesse se capiva tutto.
Qualcosa del genere aveva fatto anche don Bosco, servendosi di sua madre. Un giorno le lesse un articolo, nel quale chiamava l’apostolo Pietro «il clavigero». Sua madre l’interruppe: «Clavigero? Dov’è questo paese?». «Non è un paese – le rispose il figlio – vuol dire: colui che porta le chiavi». «E allora dillo così e lascia quella parola che io non riesco neppure a pronunciare».
J. Maritain chiamava certi biblisti, teologi, vescovi e papi per i loro scritti troppo lunghi e soprattutto difficili: i ruminanti della sacra alleanza. Come buoi o quei tipi che masticano continuamente gomma americana.
TEOLOGIE DEMENZIALI
E SGANGHERATE
Tempo fa ricevetti in omaggio un libretto dal titolo: La via dell’anima. In prima pagina, quasi come dedica o sintesi del volumetto, si legge:
Nella parusia spirituale
si raggiunge il sé
paradiso metapsichico
che permette di considerare
la morte fisica come
paradiso metafisico.
Ma il buon Dio ci liberi dai paradisi metapsichici e più ancora da quelli metafisici!
In un’altra pagina il cristiano è così definito: «Il cristiano è l’attributo di chi ha subito in modo cosciente-accettato il processo di transizione psiche-pneuma ed è diventato persona».
Il vescovo di Como, mons. Alessandro Maggiolini, su un giornale tra i più diffusi d’Italia propose «una legittima difesa da parte dei credenti – preti inclusi – contro il moltiplicarsi patologico dei documenti ecclesiali».
E ciò per un motivo, non solo pastorale, ma anche ecumenico, cioè di possibili dialoghi e accordi.
E i più responsabili di questo degrado sono i teologi di professione, con i loro scritti il più delle volte incomprensibili. Si potrebbe stralciare un campionario, a dir poco, allucinante. Tre esempi soltanto, tra i mille che si potrebbero elencare.
In un libro sullo Spirito Santo leggo: «Lo Spirito perfetto dà luogo alla cre-azione, vero processo teogonico, col quale le potenze praeter Deum, predivinizzate, operano demiurgicamente a formare l’unum-versum, l’universo intero delle cose create, realizzando a un tempo l’individuazione e caratterizzazione delle Persone…» e i puntini indicano che non sarebbe finito!
Così, secondo esempio: «Lo Spirito Santo è il traboccare ad extra dell’exstasi ad intra del Padre e del Figlio». Povero Spirito Santo!
Terzo esempio: «Da Gregorio di Nissa al Concilio Vaticano II, ogni antropologia iconica ha valutato l’autentica relazionalità logonomica dell’uomo e l’autentica relazionalità cristonomica del cristiano»; e tutto ciò per dire che esiste un «io liturgico».
Ma questa è pazzia pura: teologia rompicapo, vaniloquio teologico.
Ripenso a san Paolo che ai Corinti, amanti del «parlare in lingue» da esperti carismatici, li ammonisce (mi si perdoni il latino): «Sed in ecclesia volo quinque verba sensu meo loqui, ut et alios instruam (nell’assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri) quam decem millia verborun in lingua (piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue)», che volgarmente tradurrei: «Preferisco dire cinque parole capite da tutti che diecimila incomprensibili!» (cfr 1 Cor 14,19).
Anche perché è assolutamente impossibile non far scappare la gente dalle chiese o avviare un dialogo ecumenico, anche solo tra noi, con tante e tante parole, non sempre dettate da un comune buon senso.

Igino Tubaldo




I sogni di Lodovico

Una colonia di lebbrosi
è diventata una comunità viva e autosufficiente
per opera di padre Lodovico Crimella, deceduto 10 anni fa.
I suoi ideali e progetti sono stati ereditati
da un prete diocesano locale, che continua
a tradurli in realtà.

«L a civiltà non è né il numero, né la forza, né il denaro. La civiltà è il desiderio paziente, appassionato che vi siano sulla terra meno ingiustizie, meno dolori, meno sventure», tuonava Raoul Follereau, l’apostolo dei malati di lebbra, nato 100 anni fa in Francia (Névers, 17 agosto 1903).
Tra i tanti seguaci di Follereau, padre Lodovico Crimella, missionario della Consolata, nato nel 1937 a Valmadrera e tornato alla casa del Padre il 4 dicembre 1994, ha lasciato un’importante e originale eredità sulle sponde del Lago do Aleixo (Brasile).
Padre Joaquim Hudson, il ventinovenne sacerdote dell’Amazzonia, attualmente cornordinatore della comunità del Lago do Aleixo, racconta: «Conobbi padre Lodovico nel 1987, quando avevo 13 anni: quasi per caso, accompagnai mia sorella alla comunità del Lago do Aleixo, perché vi portava due conoscenti, marito e moglie, malati di lebbra con deformità visibili.
La comunità Onze de Maio era l’unica in tutta l’Amazzonia che poteva offrire ospitalità a persone con quella sofferenza. Mi parve di arrivare in paradiso. Padre Lodovico ci accolse bene e fui molto impressionato per quanto erano riusciti a realizzare in un ambiente che, pochi anni prima, era considerato un ghetto. Di tanto in tanto con mia sorella andavo a trovare quelle persone, che morirono due anni dopo serene e con dignità – sottolinea con convinzione padre Hudson -. Solo a 17 anni entrai nel seminario di Manaus, interessandomi sempre ai più poveri ed emarginati delle favelas.
Nel 1994, quando avevo ormai 20 anni, appresi della morte di padre Crimella, che fu ricordato nella preghiera in tutte le parrocchie di Manaus, e di come un suo confratello, padre Josè Maria Fumagalli, diventato monaco benedettino, si fosse impegnato di seguire la comunità per un anno.
Padre Fumagalli si fermò per ben quattro anni, ma poi, nel 1998, dovette far ritorno al suo convento. In quel periodo stavo terminando il seminario e tutti i giorni pregavo con il vescovo di Manaus, mons. Louis Suarez Vieira. Ogni mattina durante la preghiera il vescovo chiedeva: “C’è qualcuno che desidera prendersi la responsabilità della comunità del Lago do Aleixo?”. Nessuno voleva andarci: è una parrocchia di 40 mila persone, divisa in 12 comunità, con ancora 1.550 hanseniani disabili o in cura.
Una mattina, pensando a quanto aveva fatto padre Crimella, mi ritrovai a dire: “Ci vado io”. E così, nel 1999, appena ordinato sacerdote, iniziai il mio servizio al Lago do Aleixo, nella stessa casa dove tanti anni prima avevo incontrato padre Lodovico, che ricordo tutti i giorni nella santa messa».
Ma che cosa ha fatto padre Lodovico, che nel 1993 fu insignito del premio Raoul Follereau dall’Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau (Aifo)? Avevo conosciuto quest’intrepido missionario della Consolata nel 1992 e, ascoltando la sua storia, mi ero ben presto convinto che i progetti sviluppati con la comunità hanseniana del Lago do Aleixo erano in perfetta sintonia con l’etica dello sviluppo e rispondevano all’ideale di civiltà, sollecitato da Raoul Follereau.

B ravo amministratore, dieci anni di esperienza nella diocesi di Roraima, padre Lodovico si ritrovò, nel 1980, ad ascoltare le sofferenze di 300 famiglie, con uno o due ammalati di lebbra, abbandonate in stato di povertà sulle sponde del Lago do Aleixo dopo la chiusura della Colonia per lebbrosi avvenuta nel 1978. Grande ammiratore di don Milani, padre Lodovico ascoltò e pregò per queste persone; poi con loro iniziò la grande avventura.
Nel novembre del 1981 si tennero moltissime assemblee. Tutti erano liberi di partecipare e offrire il loro contributo, dibattendo temi vitali per la comunità come: acqua potabile, lavoro, scuola, pesca, casa, assistenza medica. L’arcivescovo diede a quell’insieme di famiglie l’entità giuridica di «parrocchia» (anche se i cattolici si contavano sulla punta delle dita), con la condizione che padre Lodovico fungesse da orientatore. Fu democraticamente eletto un consiglio di sette persone che decise di sviluppare piccole attività cornoperative utili per la comunità: allevamento di polli e maiali, acqua potabile, pesca, coltivazione razionale del terreno, rivendita dei prodotti.
Nel 1992 la comunità del Lago do Aleixo contava 20 mila persone con circa 1.600 malati di lebbra in cura, seguiti dall’ospedale governativo. Il consiglio era ormai formato da ragazzi che avevano frequentato le scuole e ogni famiglia era impegnata in un progetto cornoperativo, che permetteva di guadagnarsi dignitosamente da vivere.
Padre Crimella puntò sempre all’autosufficienza di ogni attività; perciò non accettò mai grandi interventi che avrebbero ucciso lo spirito d’iniziativa della comunità, ma solo piccole somme, come capitale iniziale legato a progetti specifici, per aiutare il decollo della piccola società cornoperativa.
L’opuscolo CSELA em ação (Comunità sociale educativa del Lago do Aleixo in azione), pubblicato nel 2000, mostra chiaramente come tutte le attività iniziate dalla comunità insieme a padre Lodovico, continuate con padre Fumagalli ed ora cornordinate da padre Hudson si siano sviluppate o modificate, mantenendo lo spirito originale: sviluppo armonioso della comunità con partecipazione democratica e responsabilità di tutti.
La comunità conta ormai 40 mila persone (20% bambini fino a 12 anni, 35% adolescenti da 13 a 20 anni, 30% adulti e 15% oltre i 60). Circa 250 famiglie sono impegnate direttamente nelle cornoperative del Csela, altri lavorano a Manaus. I cattolici della parrocchia San Giovanni Battista, suddivisi in 12 comunità sono ormai 35 mila. Per malati ed ex-malati di lebbra si ha cura della prevenzione e riabilitazione sociale.

I nfatti, padre Hudson, prossimo alla laurea in psicologia, racconta: «Abbiamo iniziato corsi di nuoto per i bambini, perché purtroppo molti sono morti nel lago. L’esame medico per ammettere i bambini ai corsi è molto rigoroso: lo scorso anno abbiamo scoperto 6 casi di lebbra. Curati subito, i bambini guariscono in 6 mesi. Abbiamo ancora tanti casi di ex-malati di lebbra con deformità visibile, ma si cerca di inserirli in attività produttive. Ne è un esempio l’attività di calzoleria, ormai gestita da un ex-hanseniano, che userà il silicone per fabbricare calzari adatti ai piedi con ulcere degli ex-malati di lebbra».
Con gratitudine il sacerdote dell’Amazzonia ricorda l’importante presenza di quattro suore della Consolata, da anni impegnate nella comunità del Lago do Aleixo: «Sono ormai più di 10 anni che suor Giuditta si trova nella comunità e si occupa di bambini, mentre suor Severa è impegnata nella scuola, suor Teresa nella farmacia e suor Renata nel lavoro pastorale. Le suore sono, comunque, inserite in tutti i settori dove c’è bisogno e sono molto amate dalla gente. Due anni fa, quando sembrava dovessero ritirarsi, la gente fece una mezza rivoluzione».
Tanti amici continuano ad appoggiare il Csela, seguito con particolare affetto dagli «Amici del Lago do Aleixo», formato da fratelli e conoscenti di padre Lodovico, impegnati a sostenere piccoli progetti significativi cari a padre Crimella e vitali per la comunità. Memorabile è stato il 2000, anno del Giubileo, quando al Lago do Aleixo, accanto al cippo commemorativo in memoria di padre Lodovico, fu issata la campana proveniente da Valmadrera.
Nel settembre 2002 don Carlo Ellena, sacerdote Fidei donum della diocesi di Torino, con 25 anni di missione in Brasile, ha visitato per il gruppo Bakhita-Follereau di Torino la Comunità del Lago do Aleixo ed ha scritto: «Padre Joaquim Hudson, parroco della Comunità e praticante di psicologia presso l’ospedale dei lebbrosi, è un’ottima persona, con idee molto chiare e avanzate su come affrontare i problemi delle gente, degli ex malati di lebbra e le varie iniziative sociali, ereditate dai sacerdoti che lo hanno preceduto. Le attività stanno procedendo molto bene e con un chiaro indirizzo non patealistico, ma di promozione, mirando alla gestione autonoma delle attività. Alcune sono già indipendenti, altre lo stanno diventando, altre sono ancora in fase di sperimentazione…
In una parola mi pare che l’idea grande di padre Lodovico Crimella sia seguita ed anche perfezionata. Per giungere all’indipendenza si punta chiaramente alla produzione di rendita (si produce per vendere e autosostenersi)… Abbiamo visitato le varie attività, progetti e iniziative, che sono moltissime e sparse nelle varie comunità, ma gestite con lo stesso stile e filosofia. Ho incontrato gente simpatica, generosa e disponibile alla collaborazione… Sono realtà che lasciano il segno».

P adre Joaquim Hudson è fiducioso per il futuro, anche se ben cosciente della difficoltà, e ci confessa il suo sogno: «La cosa bella della comunità è che tante attività vanno avanti bene, abbiamo sviluppato tante cornoperative e moltissimo lo sport, che tiene i giovani impegnati e lontani dalla delinquenza dilagante nei quartieri periferici di Manaus. Abbiamo ben 35 squadre di calcio, di cui 5 formate da ragazze; ci sono corsi di ginnastica, anche per la terza età, di capoeira, di nuoto e di canottaggio.
Ma la mia preoccupazione maggiore è la scuola. Tutti, finalmente, terminano le elementari, ma è difficile farli proseguire: abbiamo una sola laureata in pedagogia proveniente dalla comunità. Con la nuova biblioteca e alcuni computer, speriamo di invogliare i giovani allo studio. Il mio sogno è di avere laureati provenienti da questa comunità, per formare qualificati gruppi dirigenti, capaci di orientare al meglio lo sviluppo di tutta la comunità e cancellare definitivamente lo stigma legato alla lebbra».
Il grande sogno di padre Lodovico è diventato il sogno di padre Hudson.

Silvana Bottignole




Ritorno al futuro

È ancora scuro quando imbocchiamo la «strada imperiale» che congiunge Addis Abeba alla regione orientale dell’Etiopia. Siamo diretti a Shambu, a 240 km dalla capitale, nel cuore del Wollega, la regione dove i missionari e missionarie della Consolata lavorarono per 25 anni, finché, allo scoppio della seconda guerra mondiale, furono cacciati dagli inglesi (1941).
Nonostante il nome pomposo della strada, la gibbosità dell’asfalto, curve e i saliscendi rallentano la corsa. In compenso possiamo gustare gli scenari, sempre vari e pittoreschi e, soprattutto, rivivere pagine di vita missionaria, apprese in gioventù dai missionari che sono passati per questa stessa via, quando era meno «imperiale».
A CACCIA DI MEMORIE
Il percorso che ora compiamo in sette ore di automobile, allora richiedeva giornate di cammino; anzi, settimane di estenuanti carovane, quando dalla capitale venivano trasportati i materiali necessari alla costruzione delle missioni.
Dopo 120 km e quasi tre ore di viaggio, entriamo nel Wollega; ci fermiamo ad Ambo, cittadina già rinomata per le piscine termali, oggi famosa in tutta l’Etiopia per l’omonima acqua minerale. Ma a noi rievoca altre memorie.
Per tre anni, dal 1938 al 1941, alloggiando in abitazioni provvisorie, padri e suore della Consolata svolsero attività scolastiche e sanitarie (vedi riquadro). Appena deciso di dare una sede definitiva alla missione e gettate le fondamenta della chiesa, dovettero abbandonare tutto.
A una dozzina di chilometri da Ambo, visitiamo la missione di Guder, fondata nel 1926 e abbandonata nel 1941, al colmo dello sviluppo (vedi riquadro). Del mulino e segheria rimane il piccolo canale d’acqua che ne azionava i motori; delle scuole elementari non è sfuggito al saccheggio neppure un mattone; stessa sorte è toccata alla casa dei padri.
Più fortunata è stata quella delle missionarie: una parte è ancora in piedi, anche se, caduto l’intonaco, le pareti di terra e paglia sembrano un animale spelacchiato. Più in basso si scorge il tetto del noviziato delle Ancelle della Consolata: l’edificio è in buone condizioni, grazie a profondi ammodeamenti.
Della chiesa resta la piattaforma del presbiterio e gradini sconnessi. La sorpresa è a pochi metri: in una minuscola cappella ortodossa possiamo ammirare una bella immagine della Consolata, scolpita sulla grande lunetta di pietra che oava la facciata della chiesa.
IL RITORNO
La Consolata è rimasta nel Wollega e ha richiamato i suoi figli. Nel 1970 i missionari della Consolata sono tornati in Etiopia e organizzato il vicariato di Meki, con la segreta speranza di rientrare in quello di Gimma, oggi vicariato di Nekemte.
Le suore vi sono arrivate prime, per svolgere attività apostoliche, sanitarie e di promozione umana in tre missioni: Sakko (1974), Komto e Konchi (1977). Nel 2001 il sogno si è completato: padri, fratelli e suore hanno iniziato a lavorare in équipe nella zona di Shambu, ai piedi dei monti Acca, una regione con grandi possibilità di prima evangelizzazione tra vari gruppi oromo.
Uno di tali gruppi, gli higgu, aveva chiesto di entrare nella chiesa cattolica, grazie alle visite saltuarie di preti etiopici di Nekemte e del catechista Addisù Yadessa, che vi aveva soggiornato più a lungo e svolto un’attività di primo annuncio del vangelo.
La decisione di iniziare l’evangelizzazione degli higgu ha avuto una lunga gestazione. Nel luglio 2001 abba Johannes, fratel Brusa e suor Lena Emilia hanno fatto lunghe trasferte per visitare la gente, famiglia per famiglia, conoscere la loro cultura, saggiae le intenzioni e studiare le possibilità di iniziare la missione con uno stile nuovo.
Nel febbraio seguente, padri e suore si sono stabiliti definitivamente nel paese, affittando due casette di fango in periferia; in una terza accolgono dei giovani che vengono da lontano per frequentare la scuola e vi tengono incontri di formazione umana e religiosa, insieme a corsi di lingua inglese.
«Non siamo venuti con progetti di strutture per opere sociali, necessarie in altre zone, come Meki, per poi annunciare il vangelo – spiega suor Lena Emilia -. Vogliamo stare con la gente e dare priorità all’evangelizzazione; eventualmente, le attività sociali verranno in seguito».
Tale esperienza è possibile per il fatto che i due missionari destinati a Shambu, abba Johannes e abba Teklu, sono etiopici, entrambi di etnia oromo, e non hanno bisogno di permessi governativi per svolgere attività esclusivamente religiose.
DAL VECCHIO
AL NUOVO TESTAMENTO
«Visitando le famiglie – racconta abba Johannes -, abbiamo trovato una società rimasta all’Antico Testamento, in una tremenda ignoranza religiosa, terrorizzata da superstizioni, anche se la maggioranza della gente è battezzata. Unico punto di riferimento della loro religiosità è il tabot. La prima domanda che ci hanno fatto è se lo abbiamo anche noi».
Nella mentalità etiopica non c’è vera chiesa senza tabot, ma la gente non sa dire cosa sia e quale funzione abbia. Portato in processione, sul capo del pope, avvolto in drappi e veli multicolori, il tabot è oggetto di venerazione e di mistero: non si vede, non si tocca, non lo si può avvicinare.
«Per inaugurare la cappella – continua abba Johannes – abbiamo portato il nostro tabot: una pietra benedetta dal vescovo e ben addobbata. E da qui siamo partiti per iniziare la nostra catechesi, spiegando che esso è simbolo della presenza di Dio e ricorda l’arca dell’antica alleanza, dove venivano conservate le tavole della legge, la manna e il bastone di Aronne. Tutto questo per concludere che, ora, il nostro tabot è Cristo Gesù, morto e risorto, presente nell’eucaristia».
«Quest’anno, per la festa del tabot – continua suor Lena Emilia -, alla celebrazione della messa è seguita la processione col Santissimo, invitando i fedeli a riconoscere la vera presenza di Dio. “Finalmente sappiamo che cosa è il tabot” ha detto la gente entusiasta, contemplando l’ostensorio senza veli».
«È solo il primo passo – continua abba Johannes -. Ci vorranno anni prima di passare dal Vecchio al Nuovo Testamento, specialmente tra gli adulti». I giovani sono più aperti e desiderosi di conoscere la fede. Fanno domande profonde e impegnative. Già 27 di essi, ragazzi e ragazze, dopo un’adeguata catechesi, hanno ricevuto la prima comunione.
GUERRA AL MALIGNO
La sfida più grande è la superstizione. Gli higgu credono che in ogni famiglia ci sia uno spirito da tenere a bada e ricorrono all’indovino, che ordina loro cosa fare per placarlo: offrire sacrifici di animali presso determinati alberi, fonti, fiumi e montagne.
Tale credenza alimenta la schiavitù del terrore e dissangua le famiglie, costrette a spendere gli scarsi introiti per comperare gli animali da sacrificare e pagare l’indovino. In tutti gli angoli delle case, poi, sono sparsi amuleti d’ogni genere, recipienti con latte, sangue animale e altre offerte per lo spirito.
E sembra che tali spiriti inseguino la gente fino in chiesa. «Abbiamo tanti casi di isteria» osserva timidamente suor Lena Emilia. E seguono racconti impressionanti di donne e ragazze che, appena entrano nel recinto della cappella, cominciano a dimenarsi e urlare come forsennate; e solo dopo lunghe preghiere di tutta la comunità e abbondanti aspersioni di acqua benedetta ritornano normali.
A volte tali fenomeni capitano all’inizio della messa, allora il male può diventare contagioso: scacciato da una persona, lo spirito si impossessa di un’altra. Abba Johannes non ha dubbi: si tratta di possessione diabolica. E quando egli accenna alla storia di Drrebe, anche suor Lena Emilia sembra vacillare nella sua spiegazione razionale.
«È una bella ragazza – continua la suora -. Un giorno venne in chiesa con occhi stralunati; all’inizio della celebrazione eucaristica cominciò a gridare con una voce caveosa, da uomo: “Io possedevo già sua madre. Questa ragazza non la lascerò mai. Se mi cacciate, toerò di nuovo da sua madre”».
«Era un demonio amara – incalza abba Johannes -. La giovane raccontò tutta la sua storia parlando in amarico, lingua che non conosceva e non aveva mai parlato in vita sua».
Dopo un’ora di preghiere, esorcismi e aspersioni la giovane ritoò normale. Fu accompagnata a casa, dove la madre, vedendola tornare insieme a tanta gente, cominciò a gridare come una disperata. Quando anch’essa si calmò, furono raccolti tutti gli amuleti della casa e bruciati nel cortile. «Ora la ragazza è felice e sorridente come non era stata mai» conclude suor Lena Emilia.
Abba Teklu ricorda il caso del mago Negheri. Malato e debole, non prendeva cibo da vari giorni, quando alcuni cristiani lo invitarono a cambiare vita e venire in chiesa. «Appena il coro intonò il canto di inizio della messa – racconta abba Teklu -, il vecchio cominciò a danzare e si portò di fronte all’assemblea, gridando e gesticolando come un ossesso. Tre giovani riuscirono a stento a portarlo fuori dalla cappella: dieci minuti di preghiera furono sufficienti a farlo ritornare in sé. Toò in chiesa calmo come un angioletto».
Dopo la messa raccontò la sua storia e disse che si sentiva libero finalmente. Ma per completare l’opera, lo accompagnarono a casa, dove radunò tutti i suoi amuleti, ne fece un bel mucchio e vi appiccò il fuoco.
«Ora è sano e vegeto; sempre primo ad arrivare in chiesa, insieme a tutta la famiglia, che nel frattempo è stata battezzata» conclude abba Johannes.
SFIDE E SPERANZE
La liberazione dalla paura è una sfida difficile e impegnativa, ma già si raccoglie qualche frutto. «Nei primi tempi, quando visitavamo le famiglie – racconta suor Lena Emilia – donne e ragazze scappavano o rimanevano chiuse in casa; incontrandole per strada, non si riusciva a guardarle in faccia; ora salutano, sorridono, parlano come persone normali. All’inizio venivano in chiesa solo gli uomini; oggi essi portano tutta la famiglia». Il lavoro non è facile, specialmente tra gli adulti che, per mentalità e abitudini ancestrali, hanno un concetto utilitaristico della fede e ricorrono numerosi alle benedizioni e preghiere del prete per essere liberati dal malocchio e altre diavolerie. Più facile, invece è lavorare con i giovani. Tenendo presente che Shambu conta 9 mila studenti di scuola elementare e secondaria, è chiaro che il campo di lavoro è sterminato.
Ma nel centro di Shambu, il lavoro è praticamente impossibile, anche se missionari e missionarie sono ben voluti dalla gente: la loro presenza è sgradita ai preti ortodossi che, con prediche e proiezioni di video-cassette, dipingono la chiesa cattolica come incarnazione del male e arrivano a proibire i loro fedeli di salutare padri e suore.
Fuori del paese, nelle campagne e nelle zone montagnose, non ci sono problemi; molti gruppi rurali chiedono la presenza dei missionari. Tra questi, a una sessantina di chilometri, vicino al Nilo Bianco, c’è Asendabo, una cittadina dove soggioò il cardinal Massaia. È in progetto di iniziare il lavoro missionario anche in quella zona e riprendere il lavoro del grande missionario: fa parte del carisma dei missionari della Consolata, fondati dal beato Giuseppe Allamano proprio per continuare l’opera del cardinal Massaia. •

Benedetto Bellesi




Gridare ai sordi

Caro direttore,
sono un missionario laico della Consolata (Milaico). Lavoro a Nampula (Mozambico), nel seminario diocesano gestito dai missionari della Consolata. Mi trovo molto bene con essi, tanto che sono alla seconda esperienza; la prima l’ho fatta ancora in Mozambico, a Mecanhelas.
Leggo Missioni Consolata, sempre interessante. Noto anche una polemica «brutale», portata avanti da qualche lettore contro persone che scrivono sulla rivista. Le incoraggio.
Già due anni fa, prima del ritorno dal Mozambico, Paolo Moiola era attaccato, ed io mi chiedevo come si potesse essere così violenti. Rientrato in Italia, dopo tre anni filati, ho capito il motivo della «violenza», e stavo per essee contagiato, se non altro per la stanchezza psicologica accumulata in Africa.
L’informazione dei media è martellante e deviata dagli interessi personali del presidente del Consiglio (ma non solo). Sta portando all’odio e disgrega il tenue tessuto sociale creato faticosamente in oltre 50 anni di repubblica. Sta tramontando la stima, anche tra persone di partiti diversi. Noi, che ci riteniamo cristiani, non dobbiamo permetterlo…
Ben vengano i Giulietto Chiesa (e non solo), se ci fanno pensare e ci lavano gli occhi assopiti nel quotidiano. Il «lavaggio» è duro, specie quando non si vuol pensare. Forse non vale la pena «gridare ai sordi». Ma che succederebbe se non si gridasse più? Non voglio immaginarlo.

Giancarlo, buon lavoro. Milaico (Missionari laici della Consolata) ha sede in: Via del Solstizio 2,
31040 Nervesa
della Battaglia (TV);
tel 0422/771272
(milaico@libero.it).

Giancarlo Pegoraro




Attenti alla storia

Egregio direttore,
ho letto su Missioni Consolata di settembre la risposta del giornalista Chiesa alle critiche di alcuni lettori. Permetta qualche considerazione.
La risposta di Chiesa è assolutamente inadeguata. Egli lamenta il tono aggressivo di qualche intervento (e può essere giusto), ma il Chiesa non si rende conto di quanto aveva scritto (MC, gennaio ’03): affermazioni non comprovate da alcun dato, contrarie alla verità, insinuazioni gratuite. A quella lettura, anch’io mi sentii indignato.
Il Chiesa accusa gli altri di luoghi comuni; ma egli fa lo stesso: i suoi due scritti sono infarciti di espressioni di critica verso gli Stati Uniti, i suoi presidenti e di simpatia per l’Urss.
Chiesa, nonostante le contestazioni (anche serene) di molti lettori con nomi, date, riferimenti a fatti storici incontestabili, non avanza correzioni, ammissione di errore di valutazione e nessuna revisione. Si aggrappa a qualche frase ritenuta eccessiva e ignora totalmente il resto. Una scappatornia per far credere che ha sempre ragione. Ma così non è.
Egli cita a memoria se stesso e sbaglia. Scrive infatti: «L’altra cosa che, a quanto pare, ha molto indignato è la semplice constatazione che a vincere il nazismo è stata una coalizione di cui fecero parte Francia, Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti».
Ora nel suo primo articolo non c’è traccia di una simile affermazione. Se egli avesse scritto quelle parole, nessuno si sarebbe indignato. Egli scrisse allora che «… la vittoria contro il nazismo fu ottenuta con il contributo assolutamente essenziale dell’Unione Sovietica, mentre gli Stati Uniti arrivarono dopo, con ritardo (c’è chi pensa che sia stato un ritardo molto grave), a prendersi una parte del merito…».
Francia e Gran Bretagna, che per prime sono entrate in guerra in difesa della Polonia contro l’aggressione nazista, non sono ricordate. Tralasciando quelli più piccoli, che pure hanno fatto la loro parte con gravi sofferenze, due stati (Francia e Gran Bretagna) sono ignorati, uno (Stati Uniti) è arrivato in ritardo. Quindi il merito della vittoria è dell’Urss!
E il Chiesa si stupisce se a qualcuno è scappata qualche parola di troppo! Egli invita ripetutamente gli altri a studiare la storia. Ma lui l’ha studiata?
Il ricordo di quegli avvenimenti mi induce a chiedere a Chiesa se ha mai riflettuto sul comportamento dell’Unione Sovietica (Stalin) nel primo periodo di guerra. La preoccupazione primaria è stata lo spostamento dei confini verso Ovest; occupa successivamente oltre un terzo della Polonia (in base al lugubre trattato Hitler-Stalin), Lituania, Lettonia, Estonia e parte della Finlandia con l’importante porto di Murmansck, poi trasformato in base militare. Questa è storia.
L’Unione Sovietica, trascinata in guerra dal proditorio attacco di Hitler, per ricacciare l’invasore, ha combattuto poi sanguinose battaglie, che hanno richiesto enormi sacrifici, dando un contributo altissimo alla vittoria finale sul nazismo. Anche questa è storia e sarebbe ignobile non riconoscerlo.
Contemporaneamente non possiamo dimenticare gli Stati Uniti che, pur non immuni in altri campi da atteggiamenti discutibili o anche inaccettabili, hanno combattuto, pressoché da soli, contro il Giappone, membro del Tripartito, hanno partecipato alla creazione del fronte Sud (Africa, Italia) e hanno contribuito in modo essenziale allo sbarco in Normandia con abbondanza di uomini e mezzi. Pure questa è storia.
Mi auguro che Missioni Consolata, che entra in casa mia da 40 anni, continui a pubblicare scritti sereni, anche vivaci e battaglieri, ma rispettosi della verità, aperti alla conoscenza dell’ampio mondo missionario, ispirati alla dottrina sociale della chiesa, lontani da cattedre o scranni preferenziali che mal si accordano, all’occorrenza, con la virtù dell’umiltà.

Giulietto Chiesa ha suscitato reazioni favorevoli e contrarie, e tutte partendo dalla storia. Ciò significa che i fatti o non sono interamente conosciuti o sono selezionati…
Siamo grati al signor Azeglio per il suo contributo sereno, vivace, rispettoso.

Azeglio Collini




Più possibilità per Carlo Urbani

Egregio direttore,
mi permetto di fare presente un’anomalia che ho riscontrato nel bando di concorso (di idee) del Premio giornalistico, intitolato al dottor Carlo Urbani.
Anzitutto il mio plauso per l’iniziativa intrapresa di Missioni Consolata (la leggo con attenzione e curiosità), non solo per l’indirizzo del premio, ma anche per dare la giusta importanza ad un uomo di rare qualità umane.
Quello che mi fa protestare è che il bando del Premio sia rivolto esclusivamente a laureati in medicina, chirurgia e odontorniatria. Con tale scelta, si esclude quanti (e sono moltissimi) «frequentano» il Sud del mondo, che laureati non sono. Mi riferisco in particolare a missionari, ricercatori, erboristi, volontari… che, acquisendo esperienze e professionalità in campo sanitario, a volte superano molto le esperienze di medici.
Ho conosciuto e conosco missionari della Consolata (e di altri ordini), impegnati nell’assistenza sanitaria, che potrebbero scrivere non dei trattati, ma dei libri.
Proprio per dare maggiore valenza all’iniziativa del Premio, ma soprattutto ricordare nel migliore dei modi la dedizione del dottor Carlo Urbani, le suggerisco di ampliare la possibilità di partecipazione anche alle altre categorie che ho menzionato: questo anche per conoscere un mondo sommerso che vive magari in prima linea proprio nel Sud del mondo.

Grazie della garbatissima protesta. Se andrà in porto la seconda edizione del Premio «Carlo Urbani», terremo conto della proposta.

Giuseppe Bertelli Motta