Propaganda ad una guerra travestita


Don Tonio, che Italia è uscita dalle commemorazioni per la strage di Nassiriya? Non le sembra che la pietas per i morti sia stata quantomeno messa in secondo piano?

«Abbiamo vissuto momenti di forte ed intensa commozione, ma come sempre, questi sono sentimenti che devono essere compostamente vissuti nell’intimità delle lacrime e non in una sorta di liturgia civile che ricicla parole e simboli vecchi. Se ne è approfittato in maniera sciacalla per far propaganda alla guerra travestita, per riproporre una retorica patriottica che speravamo ormai sepolta. Persino un maresciallo dei carabinieri, confidandosi, mi ha detto che si sentiva molto “usato” e che non vedeva l’ora che la cosa avesse termine! Non sono poi mancati coloro che hanno fatto i conti e i confronti tra bandiere arcobaleno e bandiere tricolore, tra gente in piazza il 15 febbraio e i partecipanti ai funerali… Insomma una brutta pagina in cui, ancora una volta, il ruolo più importante è stato svolto dalle televisioni che hanno fatto leva sui sentimenti e sulle emozioni».

Quella italiana a Nassiriya era tutto fuorché una missione di pace. Ma pare che non si possa dirlo…

«Come Pax Christi lo abbiamo ribadito anche nello stesso giorno dell’attentato. La missione italiana non si svolge nel rispetto del diritto internazionale e si propone accanto ad un esercito che ha occupato militarmente un paese straniero dopo un pesante bombardamento. D’altra parte, se continuiamo a mettere in evidenza il buon rapporto con le popolazioni locali e gli aspetti umani dei carabinieri, significa che sono queste le cose che contano. Sarebbe stato meglio allora essere lì come italiani, ma senza armi, accanto alla gente, per aiutare e sostenere la ricostruzione, per riconciliare le parti… E per la verità c’è chi, anche in queste ore, lo sta facendo ma senza meritare nemmeno una citazione nel telegiornale di mezzanotte».

Sembra che ci siano due chiese cattoliche, ben contrapposte. Quella personificata dal cardinale Ruini e quella del papa e di monsignor Nogaro. È d’accordo?

«Basta leggere i passaggi dell’omelia ai funerali e le prese di posizione dei mesi scorsi del pontefice per rendersene conto! Il problema semmai è che non abbiamo una forte attenzione pastorale sui temi della pace e questo fa sì che un sostegno all’uso della forza, giustificato a partire dalla dottrina sociale o dal vangelo, non scandalizza i cristiani come dovrebbe. Sono altrettanto convinto però che, sia pure a fatica, questa sensibilità sui temi della pace e della nonviolenza vadano diffondendosi all’interno della comunità cristiana».

Il popolo delle bandiere della pace è assediato. Come fare ad uscire allo scoperto per reclamare, ancora più fortemente, le ragioni della pace e l’assurdità della guerra?

«Le bandiere sono una rappresentazione, un simbolo che indicano una realtà più vasta che ha bisogno di un migliore radicamento. Il compito che ci attende è soprattutto di carattere educativo per far crescere nella coscienza della gente il valore della nonviolenza, che è l’unico linguaggio della croce. Dovremmo concentrare gli sforzi per dare priorità a questo compito nella comunità e nella società italiane».

Lei è nella redazione del mensile Mosaico di pace. Da Nassiriya come ne esce il giornalismo italiano?

«Rassegnatamente, succube del punto di vista dei potenti. Se si presentassero le testimonianze di vita di tanti missionari e volontari con la stessa dovizia di particolari e la stessa enfasi mediatica con cui ci sono state raccontate le storie dei morti di Nassiriya… avremmo fatto un servizio vero alla pace soprattutto nei confronti delle giovani generazioni. Missioni Consolata si è spesa molto per presentare la testimonianza di Carlo Urbani.
Penso a lui, ad Annalena Tonelli, ai tanti che ho conosciuto in questi anni, pur diversi tra loro, ma accomunati dalla vocazione di servire i poveri, la pace, la giustizia. Ecco, stasera pregherò per quei giornalisti che non hanno ancora conosciuto il valore vero che si nasconde in queste persone e non hanno trovato il coraggio di proporlo ai propri lettori».

Paolo Moiola




Con calma e perseveranza…


Per sedare il vespaio che la guerra ha prodotto, ora occorre un intervento internazionale. Anche se prima questo è stato disprezzato.



Monsignor Bettazzi, non le sembra che televisioni e giornali abbiano usato la strage di Nassiriya?


«L’emozione nazionale per la strage di Nassiriya è stata molto grande, sia per la gravità del fatto, sia perché è giunta improvvisa dopo tutte le assicurazioni dei nostri governanti sulla assoluta mancanza di pericolo per i nostri soldati, che anzi erano molto ben voluti dalla popolazione.
Certo che c’è stata una strumentalizzazione nel ripetere che si trattava di spedizione di pace, senza mai nemmeno accennare che si andava a sviluppare le conseguenze di una guerra, per di più illegale, voluta con determinazione ma affrontata con superficialità. Senza appunto valutare il… vespaio che si sarebbe sollevato, per il quale ora si chiede quell’aiuto internazionale che si era prima spregiato».

«Onore ai soldati morti per la pace» così recitava un manifesto di un partito di governo… Dunque, pace è guerra?

«Mi rendo conto che bisognava soprattutto cercare di attutire il dolore delle famiglie delle vittime, esaltando la finalità della spedizione. Essa, tra l’altro, per non pochi, era un rimedio alle manchevolezze d’aiuto che la patria non sa dare a tante categorie, coprendo così le responsabilità dei governanti per decisioni prese con spirito di parte. Ora credo che, a emozioni sopite, bisognerà valutare con obiettività la situazione e chiedere che i responsabili sappiano riconoscere i loro errori e le loro leggerezze, chiedendo che la responsabilità della gestione passi davvero alla comunità internazionale, al di sopra degli interessi di parte».

Ancora una volta, sulla guerra e sulle sue conseguenze sembra che ci siano due chiese cattoliche, ben contrapposte. Quella personificata dal cardinale Ruini e quella del papa e di mons. Nogaro. Che ne pensa lei?

«È ovvio che vi sono diverse sensibilità al di dentro della chiesa; così come era un po’ prevedibile che il card. Ruini, in quell’atmosfera, potesse dire, sia pure con diversa sfumatura, quel che ha detto. Fra l’altro non era scontato che insistesse tanto sul “non odiare”! Forse era preoccupato che, in quel momento, un atteggiamento più… profetico potesse venir visto, più che come allineamento al papa, come allineamento ai settori più avanzati dell’opposizione politica. È risultato per altro evidente che mons. Nogaro (a parte le malevole deformazioni che certa stampa ha voluto dare delle sue parole) non era isolato, anche nella Cei. E credo che anche questo, all’interno della chiesa e della stessa gerarchia, non può non essere avvertito».

Che si può dire al variegato popolo delle bandiere della pace?

«Credo si debba continuare ad insistere, con calma e con perseveranza. La maturazione della coscienza della pace, così evidente nel confronto tra la prima guerra del Golfo e l’attuale, continuerà ad avere un suo sviluppo se tutti continueremo a compiere quanto sta in noi».

Lei ha pubblicato parecchi libri ed è da sempre una persona che scrive. Che ci dice del giornalismo italiano dopo Nassiriya?

«Questa vicenda conferma le preoccupazioni su quanto si è voluto e si sta continuando a compiere per subordinare i mezzi di comunicazione al potere di chi governa. Quand’ero ragazzo mi commossi per la conquista dell’Etiopia e per quella pace di Monaco, ottenuta anche da Mussolini nel 1938, che fu in realtà la premessa della seconda guerra mondiale. Ma allora si sapeva solo quanto e come il governo voleva si sapesse! La libertà e l’oggettività dei mezzi di comunicazione è la condizione indispensabile per un’autentica democrazia».

Paolo Moiola




Vittime di inutile strage

Il 2 agosto 1922 a Pederobba, un paesino della pedemontana di Treviso, veniva inaugurato all’interno della chiesa un altare in ricordo dei 43 morti della prima guerra mondiale.
Il parroco aveva dettato il testo della lapide che diceva così: «Sacro ricordo, tributo di preghiera, di compianto, di amore ai 43 figli di Pederobba caduti vittime di un’inutile strage nella barbara guerra 1915-1918».
Il prefetto di Treviso, allarmato da queste affermazioni, chiese al vescovo di far cancellare sia l’espressione «vittime di inutile strage», sia l’aggettivo «barbara» riferito alla guerra da poco terminata.
Fu mandato un giovane sacerdote che munito di martello e scalpello cancellò dal marmo quelle parole. Il parroco non oppose resistenza, anche se si permise il gesto di non offrire una stanza da letto all’esecutore di tale ordine, che dovette accontentarsi di passare la notte su una sedia.
Poi aprì il registro dei battesimi e vi scrisse quanto segue: «Il 2 agosto 1922 fu benedetto ed inaugurato il ricordo-altare pei nostri caduti nella guerra 1915/18. (…) Fu celebrata una solenne ufficiatura con grande concorso di popolo; non si volle invitare alcuna rappresentanza civile né militare, per non profanare la serietà della cerimonia con manifestazioni di falso patriottismo che non è sentito dal nostro popolo. Sul monumento venne scolpita la iscrizione seguente … (fa seguito il testo sopra riportato)… La raschiatura delle parole operata sul monumento venne fatta per ordine del prefetto di Treviso, costretto dai fascisti. Ma la verità è una sola: vittime di inutile strage nella barbara guerra 1915 – 1918».

Sapevo dell’esistenza di questo testo, ma non l’avevo mai letto. Nel giorno dei funerali di stato delle 19 vittime della guerra in Iraq ho voluto cercarlo. Dopo averlo trovato mi sono recato a pregare, insieme con l’attuale parroco di Pederobba, davanti al ricordo-altare per le nuove vittime di una inutile strage di una barbara guerra.
Questo testo sapiente offre diverse chiavi di lettura per il nostro oggi. È da cinque giorni che durano questi funerali infiniti, che ormai sembrano non portare più rispetto né per le vittime, né per i loro famigliari. La retorica politico-militare sembra essersi appropriata della loro morte per trasmettere messaggi di altro contenuto che non siano quelli che solamente genitori, figli, spose o fidanzate conoscono.
A me pare di assistere a un’orrenda operazione in cui la morte degli altri viene sfruttata per convincere il popolo italiano che noi non siamo andati in Iraq per fare da pedine di complemento in un contesto di guerra, ma per una scelta umanitaria.
Noi che abbiamo appeso centinaia di migliaia di bandiere di pace sui nostri davanzali, ben prima che scoppiasse la guerra, avevamo, invece, ragione di credere che essa si sarebbe risolta in un’inutile strage. E tale è questa guerra di cui non s’intravede l’uscita. È di ieri la notizia delle dimissioni del rappresentante italiano presso il governo di transizione iracheno, che ha motivato il suo gesto con il fatto che nella presente situazione non si intravedono né i presupposti né la volontà politica che intenda usare i mezzi giusti per ristabilire pace e democrazia in Iraq.
Ci siamo cacciati dentro ad un ginepraio e, ora, per orgoglio, non sappiamo come uscie. Ma intanto c’è chi paga prezzi altissimi: uomini e donne americani che contano già 9.200 morti e feriti, inglesi, italiani, ma anche e soprattutto iracheni.
La sapienza dell’antico parroco di Pederobba l’aveva condotto a compiere un gesto grave e difficile per quegli anni: egli aveva messo alla porta tutte le autorità civili e militari perché il popolo potesse vivere e confrontarsi da solo con il suo dolore e «per non profanare la serietà della cerimonia con manifestazioni di falso patriottismo che non è sentito dal nostro popolo».
Un anno prima, in un gesto sconsolato, sempre usando il registro dei battesimi, egli aveva scritto a conclusione di un anno particolarmente prolifico: “Aumentano in maniera vertiginosa i nati, ma non aumenta la gioia di vivere”. (frase scritta in latino: moltiplicatur gens, at non moltiplicatur laetitia).
Solamente uno che aveva patito con il suo popolo le stragi, le distruzioni, il pianto infinito del dopoguerra e della esasperante, lenta ricostruzione delle case e dello sminamento dei campi, poteva prendersi il lusso di usare tale libertà.
Ma la chiesa di oggi, nella liturgia nazional-popolare a cui abbiamo assistito, ha dato prova di libertà e di profezia evangelica?
Ho sentito pronunciare la fiera parola: li fronteggeremo!
Ma non ho sentito dire né un «mea culpa» né che siamo andati a morire in una terra che non è nostra e per motivi quanto meno ambigui; né una parola di pietà per tutti gli iracheni innocenti che sono morti dall’inizio di questa guerra e che sono i più numerosi; né l’invito a costruire la pace attraverso le vie della pace. C’è stato un deficit di libertà e di vangelo che mi ha inquietato e umiliato. Eppure bastava ricordare le semplici parole del card. Renato Martino: «Se avessero ascoltato il papa non ci troveremmo ora a piangere tutti questi morti».
Forse soltanto tra i suoi, nel proprio paese, tra la propria gente ognuna delle 19 vittime troverà pietà. Solo allora si pronuncerà una parola vera sulla guerra.

don Giuliano Vallotto

(Scritto il 18 novembre 2003 in solidarietà con monsignor Raffaele Nogaro, vescovo di Caserta).

Paolo Moiola




Una domanda, un dubbio, una riflessione…

La chiesa deve essere «sentinella di pace». I suoi nemici sono coloro che ne uccidono l’anima. Con il denaro, l’onore, il potere.

Don Aldo, secondo lei che Italia è uscita dai funerali del 18 novembre? A leggere i giornali e soprattutto a vedere le televisioni ha vinto la propaganda della ragion di stato e non certo la pietas per i morti…
«Dalle cronache televisive è venuta fuori l’immagine di un’Italia inesistente: un’Italia non così come è, ma come, da parte dei nuovi padroni, si vorrebbe che fosse. A tale scopo tutto è stato sapientemente e cinicamente centellinato, filtrato: le sequenze, i volti, le reiterazioni, ma soprattutto le domande agli intervistati ed i commenti alle immagini.
Per una settimana siamo stati sottoposti ad un bombardamento monotematico, una sorta di overdose mediatica, in cui mai e da nessuno è stata posta una domanda, un dubbio, una riflessione. È sembrato quasi che la solidarietà con le vittime comportasse l’imbecillità, l’impotenza mentale a porsi dei perché. In questa ubriacatura anche i termini sono stati stravolti, al punto che le vittime sono state promosse “eroi”. L’eroe è colui che motivatamente ed in maniera attiva intraprende un’azione di alto valore. Qui, invece, ci troviamo di fronte a dei ragazzi che hanno subito un attacco; vittime, appunto, non eroi».

Quella italiana a Nassiriya era tutto fuorché una missione di pace. Ma pare che non si possa proprio dirlo…
«È chiaro; e non potrebbe essere diversamente. Dal momento in cui si impone un teorema per cui la guerra in Iraq è finita con la vittoria delle truppe americane, tanto frettolosamente proclamata da Bush; da quel momento tutte le azioni susseguenti diventano azioni di “pace”, di ristabilimento della “legalità” e delle condizioni necessarie per la riconquista della “libertà”. Attraverso questo ipocrita escamotage, l’America è riuscita ad ottenere la sponsorizzazione dell’Onu; e l’Italia, inviando i suoi uomini, è riuscita ad aggirare la costituzione, tradendola. Ogni altra versione dei fatti diventa menzogna e, in quanto tale, va combattuta; di qui i bavagli e le censure».
Sembra che ci siano due chiese cattoliche, ben contrapposte. Quella personificata dal cardinale Ruini e quella del papa e di monsignor Nogaro. Che ne pensa, don Aldo?
«Nella chiesa c’è sempre stata una certa dialettica tra l’anima profetico-progressista e quella, uso termini un po’ leggeri, ma solo per intenderci, tradizional-conservatrice; una dialettica, anche legittima, già presente ai tempi della prima predicazione degli Apostoli. Mi viene da pensare al primo “concilio” di Gerusalemme, convocato per ricomporre i contrasti tra Pietro e Paolo. Oggi, però, non siamo a questo tipo di contrapposizione. Oggi la lotta, soprattutto nella chiesa italiana, è tra una chiesa servile ed una chiesa libera; tra una chiesa che per un piatto di lenticchie vende la propria anima, ed una chiesa che non può sottrarsi, pena il rinnegare se stessa, alla voce dello Spirito che la chiama ad essere sentinella di pace in un mondo di violenze risorgenti. A questo proposito, a me sembrano quanto mai attuali gli avvertimenti del vescovo sant’Ilario di Poitiers (+367). Quando con Costantino il cristianesimo diventò cristianità e si ritrovò a essere cultura cristiana, civiltà cristiana, il martirio scomparve come quotidiana, contemporanea, reale memoria crucis nella storia cristiana. Ilario di Poitiers, che vede ormai la chiesa non più contraddetta né osteggiata, ma omaggiata e apparentemente ascoltata, ritiene di dover così mettere in guardia i cristiani: “Ora combattiamo contro un nemico insidioso, un nemico che lusinga… non ci flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni, dandoci così la vita, ma ci arricchisce, dandoci così la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo, non ci percuote ai fianchi, ma prende possesso del cuore, non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro, l’onore, il potere”. A qualcuno piace restare nel palazzo».

Il popolo delle bandiere della pace è assediato, non dalla gente ma da editorialisti e da commentatori televisivi. Come fare ad uscire allo scoperto per reclamare, ancora più fortemente, le ragioni della pace e l’assurdità della guerra?
«Il popolo della pace ha bisogno di essere alimentato di speranza e di ragioni per cui sperare. Quando invece viene imbavagliato, bastonato e messo pubblicamente alla berlina, allora è duro resistere e persistere. Che fare? Vedo nascere mille piccole iniziative, ma manca un cornordinamento. E poi, presso chi reclamare le ragioni della pace, se la classe politica attualmente al potere la vedo cieca e sorda ad ogni ragione? Lei ha visto i loro volti, ai funerali presso la basilica di San Paolo? Erano delle sfingi.
Non vedo strategie vincenti a breve raggio, ma so che la storia e il futuro sono dalla nostra parte. A noi non resta che continuare a tessere questo nuovo risorgimento, con parole dette e scritte, con gesti semplici e con manifestazioni. Se taceremo noi, urleranno le pietre».

Porta a porta, Excalibur, Otto e mezzo, i telegiornali…: dalla strage di Nassiriya come ne esce il giornalismo italiano?
«Muto e mutilato. Checché ne dica Berlusconi, se si eccettua qualche testata, la maggior parte dei giornali italiani sono allineati. C’è in giro, un proliferare di testate servili che fa pensare. Chi le finanzia? Per quale scopo? È vero che l’informazione è sempre stata, più o meno, manipolata. In questi ultimi tempi, però, si assiste ad un fenomeno nuovo, in quanto l’informazione non si limita più ad influenzare la pubblica opinione, ma diventa essa stessa una fabbrica di consenso. Le notizie non vengono solo distorte ma create ad arte. Siamo al ribaltamento nel rapporto “fatto-parola”, in quanto le parole non sono più “comunicative”, ma “creative”. La parola crea la realtà. Uno scimmiottamento del mistero cristiano dell’incarnazione. Noi cristiani crediamo che la Parola si “è fatta carne”! Qui invece ci troviamo di fronte alla parola che “crea”!».

Eugenio Scalfari ha scritto che Bush ed amici hanno scatenato la «bestia dell’Apocalisse». La serie degli attentati terroristici dimostra che l’immagine è purtroppo vera. Che fare ora contro l’ondata terroristica che, di norma, non colpisce il potere, ma persone innocenti?
«La guerra ha sortito, sotto questo aspetto, l’effetto di un cerino acceso e gettato in un pagliaio. È stato come soffiare sul fuoco, gettare benzina sulla brace. Il fuoco del terrorismo lo si sarebbe potuto controllare, o al minimo tenere a bada, con una politica di dialogo e di confronto; e invece lo si è voluto ad ogni costo attizzare. In questo senso Bush ed i suoi accoliti sono più terroristi dei terroristi. Come li chiama lei coloro che appiccano fuoco per ogni dove (Kosovo, Afghanistan, Iraq, Medio Oriente ecc.)? Piromani incendiari, non pompieri!
Da questa politica traggono guadagno solo gli apparati militari, i fabbricatori di armi ed i petrolieri. La povera gente ci rimette la vita.
Personalmente sono dell’avviso che un approccio diverso al problema terrorismo avrebbe dato risultati diversi. Come cristiano, poi, sono dell’avviso che, sull’esempio del poverello di Assisi, con i “lupi” è sempre possibile parlare, invece che scotennarli». •

Paolo Moiola




La pietà affogata nella retorica

Sacrificio per la patria o tragedia dell’irresponsabilità umana?
Lacrime pubbliche o lacrime private? Guerra al terrorismo o lotta al terrorismo? Missioni di guerra o missioni di pace? Soldi pubblici ai bilanci militari
o allo stato sociale? Gioalismo al servizio del potere o giornalismo al servizio della verità? A mente fredda, abbiamo chiesto ad alcuni uomini di chiesa com’è cambiata l’Italia dopo la strage di Nassiriya nell’interminabile guerra irachena e in un momento di terrorismo dilagante.
Le loro risposte sono state tutt’altro che scontate…

«Noi siamo i buoni. Cos’altro dobbiamo sapere?». Così ragionano, secondo il settimanale statunitense The Nation (1), i neo-conservatori che, con George W. Bush, guidano attualmente gli Usa.
In epoca di globalizzazione e di imitazione pedissequa delle idee del più forte, il ragionamento si è propagato per ogni dove. Le obiezioni e le critiche, ancorché motivate, sono subito messe a tacere, con le buone o con le cattive.
La guerra preventiva è lo strumento migliore contro il terrorismo? Perché, invece di ridursi, il fenomeno è aumentato a dismisura? I militari italiani in Iraq sono un contingente di guerra o di pace? L’articolo 11 della Costituzione italiana è stato rispettato? La risoluzione 1511 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (ovvero l’autorizzazione alla creazione di una forza multinazionale in Iraq) ha sanato ex post l’illegalità della guerra di George W. Bush? E ancora: si può ottenere il «burro» dai «cannoni»? Fuor di metafora, è lecito utilizzare le armi e le guerre per dare impulso all’economia? La risposta dovrebbe essere ovvia, ma la realtà dice l’opposto.
Lo scorso novembre il Congresso statunitense ha approvato il bilancio della difesa per il 2004: oltre 400 miliardi di dollari, il doppio del prodotto interno lordo (pil) della Danimarca, più di quello della Russia. In questi stessi mesi, il pil degli Usa è in crescita vertiginosa (e forse drogata), dopo un biennio di recessione. I due dati sono in stretta relazione: le spese militari hanno dato una spinta decisiva alla crescita dell’economia. È lecito chiedersi se è morale incentivare la crescita economica di un paese con spese immorali (e che, tra l’altro, andranno a danneggiare altri)?
Guardiamo all’Italia. La campagna Sbilanciamoci, promossa da 30 organizzazioni della società civile (da Altreconomia al Wwf, passando per Mani Tese e Pax Christi), ha prodotto uno straordinario libretto di 66 pagine dal titolo: Cambiamo finanziaria. Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace e l’ambiente (2). Se qualcuno dei grandi giornali italiani decidesse di regalare questo volumetto ai propri lettori (al posto dei consueti gadgets), farebbe un grande servizio all’informazione e soprattutto alla formazione degli italiani.
«La manovra 2004 – si legge a pagina 28 – prevede uno stanziamento (fondo di riserva) di 1 miliardo e 200 milioni di euro per le necessità finanziarie legate alla proroga delle “missioni di pace”. Ma quali “missioni di pace”? Quella in Iraq è ben altro: un contributo all’occupazione del paese, al di fuori delle decisioni dell’Onu. In sostanza un aumento surrettizio di oltre il 5% delle spese militari del nostro paese, che negli ultimi anni erano già aumentate del 10%. Anche perché (…) le missioni vengono poi finanziate con nuovi decreti ad hoc, e mai con i fondi del bilancio della Difesa. La presentazione dell’aumento come finanziamento delle “missioni di pace” è un modo per dare maggiore disponibilità di fondi alla Difesa che, tra l’altro, in questi anni li ha utilizzati male e con molti sprechi».

Nella maggior parte dei paesi occidentali i governi stanno tagliando le spese che vanno al cosiddetto «stato sociale» (welfare state): ancora meno soldi pubblici alla sanità, all’istruzione, all’assistenza, alla previdenza.
Oggi questi governi hanno una motivazione in più per tagliare i finanziamenti statali: la lotta al terrorismo, che ha bisogno di molte risorse. È un crescendo di intensità, con l’aiuto determinante dei telegiornali e dei programmi televisivi, non soltanto quelli di «approfondimento», ma anche quelli di «intrattenimento» (che raggiungono un pubblico più vasto e popolare).
Ormai è impossibile distinguere dove inizia il vero pericolo e dove quello costruito ad hoc. Padre Giulio Albanese parla di una «voglia di scontro di civiltà», secondo la nota tesi (3), che anche don Bruno Forte rifiuta in toto.
«I morti italiani in Iraq come quelli ebrei in Turchia – scrive il teologo napoletano (4) – non sono semplicemente vittime di una follia ideologica che falsamente si appella a ragioni religiose; essi pagano purtroppo anche il prezzo di scelte culturali e politiche sulla cui infondatezza storica, morale e religiosa si era levata fra tante la voce altissima di Giovanni Paolo II. Quando la Santa sede insisteva nel considerare la guerra in Iraq immorale, illegale, inutile e dannosa, la sua voce è stata disattesa».

Il 29 novembre è toccato alla Spagna pagare il fio dell’alleanza con gli Stati Uniti. In un agguato della guerriglia irachena sono stati uccisi 7 uomini appartenenti ai servizi segreti di Madrid. Oltre a queste nuove morti, quello che ha impressionato e, forse, fatto riflettere sono stati quei cadaveri presi a calci tra scene di giubilo.
Com’è possibile?, ci si è chiesti. Ormai tutto è possibile. Il vaso di Pandora dell’Iraq è stato scoperchiato e la violenza che ne esce sembra senza fine e soprattutto sembra travalicato ogni limite alla barbarie dell’uomo bellico.
Davanti alla deriva, non tutti riescono a stare zitti e ad accettare ogni giustificazione calata dall’alto. C’è anche qualcuno che osa dire l’indicibile: «Per quanto possa sembrare strano – ha scritto, ad esempio, il magistrato Domenico Gallo (5) -, non tutto il popolo iracheno ha considerato la conquista e l’occupazione militare americana come una “liberazione”».
Dalla fine della seconda guerra mondiale l’Italia si era ritagliata un importante ruolo di mediazione, di cerniera tra l’Europa e il mondo arabo-islamico. Con l’intervento nella guerra irachena (tra l’altro, per conto terzi) questo ruolo è stato gettato alle ortiche, esponendo il paese e la sua popolazione a possibili vendette dei terroristi.
All’indomani della strage di Nassiriya, su un importante quotidiano un giornalista parlò della «nuova Italia che non scappa» (6). Quasi che «il valore morale» di un paese dipendesse non dal proprio vivere civile all’interno e nel mondo, ma dal comportamento macho in una guerra. In quell’articolo si legge che, dopo Nassiriya, l’Italia non è più «l’Italietta di sempre», non è «un paese molle», ma un paese che ha ritrovato «l’orgoglio nazionale»…
Viene allora in mente padre Eesto Balducci: «L’uomo ha qualcosa di pre-umano in sé, ed è appunto l’aggressività distruttiva».

Paolo Moiola




Un laboratorio per la vita


Incontro con la dottoressa Alessandra Carozzi, presidente della Fondazione De Caeri.

«Ci sono uomini che vanno ricordati. Non per nulla, quando mancano, nasce qualcosa di nuovo». Alessandra Carozzi De Caeri ha idee precise quando parla del marito e della Fondazione Ivo De Caeri, nata in sua memoria un anno dopo la scomparsa.
«Mio marito era un parassitologo esperto in malattie tropicali e infettive. Collaborava con l’Organizzazione mondiale della sanità, soprattutto nell’ambito dei piani di controllo delle parassitosi nei bambini in America Latina e in Africa». Per continuae l’opera con lo stesso entusiasmo, nel 1994 la famiglia ha fatto nascere la Fondazione in sua memoria, insieme con numerosi colleghi, perché «La parassitologia è una branca medica che porta a creare contatti. Non è una specializzazione da studio privato, bensì una medicina aperta al territorio e ai problemi sociali».
Sono passati 10 anni da allora, ma gli obiettivi non sono cambiati, e la calma e la determinazione nella voce di Alessandra De Caeri, presidente della Fondazione, laureata in medicina e biologia, sono espressione della volontà di proseguire lungo una strada che ha già portato diversi risultati. «La nostra missione è cornoperare e collaborare con i paesi in via di sviluppo seguendo i piani sanitari o le strategie del luogo. Un secondo obiettivo è legato alla formazione a sostegno della ricerca, con pubblicazioni scientifiche, corsi aperti a tutti gli operatori sanitari, italiani e stranieri, premi e borse di studio». Si colloca in quest’ambito, per esempio, l’impegno della Fondazione a mantenere aggiornato il testo di parassitologia generale e umana di Ivo De Caeri, strumento di contatto con i giovani universitari su una materia spesso trascurata. «Un compito della Fondazione è anche quello di cercare di far conoscere e capire l’importanza e la gravità di queste malattie nel mondo. Sono causa di milioni di morti ogni anno e questo le rende pari a un’altra guerra dimenticata, perché non ci si dedica tempo né soldi», afferma decisa Alessandra De Caeri.
I due filoni seguiti dalla Fondazione, didattico-formativo e pratico, trovano un punto di collegamento nell’adesione al «Premio giornalistico dottor Carlo Urbani», bandito da Missioni Consolata: ai vincitori verrà offerta la possibilità di uno stage di un mese nel Laboratorio di sanità pubblica «Ivo De Caeri» dell’isola di Pemba (Zanzibar), costruito dalla Fondazione. Ricorda il suo presidente: «Carlo Urbani aveva conosciuto mio marito a un corso organizzato dall’Istituto superiore di sanità in cui Ivo era docente. Carlo gli aveva chiesto qualche indirizzo per dedicarsi ancor di più alla parassitologia presso l’Organizzazione mondiale della sanità. In seguito ha fatto parte della Fondazione per due anni».

Pemba è un’isola che, con Zanzibar e altre minori, appartiene al governo autonomo di Zanzibar, che fa parte della repubblica unita di Tanzania.
Toa indietro con la memoria Alessandra De Caeri. «L’idea del laboratorio era già partita con mio marito, che sull’isola era stato diverse volte per corsi di formazione e come inviato dal ministero degli affari esteri per una revisione delle condizioni sanitarie. C’era la possibilità di avviare un centro unico che cornordinasse i piani sanitari e che facesse parte del sistema sanitario locale». Pemba era sia una zona colpita dalle malattie parassitarie sia un luogo dove c’erano già buoni contatti con le strutture locali, base fondamentale per far partire una collaborazione valida a lungo termine. «La costruzione del centro è terminata nel 1999 e nel 2000 sono iniziate le attività. È un’entità autonoma ha come branche principali la microbiologia, la parassitologia e la virologia. Ci sono poi gli uffici amministrativi e la sezione per la didattica. Entro quest’anno poi dovrebbe essere completato un ampliamento che prevede una piccola mensa, una sezione per la raccolta e l’analisi dei dati e un magazzino per i farmaci».
Il laboratorio svolge un ruolo di controllo di alcune malattie sul territorio: distribuzione dei farmaci e sorveglianza della loro attività e della comparsa di resistenze. Una seconda attività riguarda la formazione del personale, non solo della struttura e di Zanzibar, ma esteso anche a realtà a Sud del Sahara. Un ulteriore ambito d’azione comprende la ricerca scientifica rivolta alla malnutrizione (soprattutto infantile), all’Aids e alle malattie infettive in generale.

Valeria Confalonieri



Romano d’Africa

Per la prima volta Romano Prodi, presidente della Commissione europea, si è recato in visita ufficiale inAfrica dell’Ovest, toccando Senegal, Costa d’Avorio e Burkina Faso.
Al centro dei suoi incontri la cooperazione tra i paesi dell’area e i rapporti
con l’Unione europea. Ma soprattutto una grande preoccupazione: portare la pace in Costa d’Avorio.
Missioni Consolata l’ha intervistato in esclusiva per i propri lettori.

Romano Prodi si presenta nell’edificio della delegazione della Commissione europea a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, poco prima del suo ritorno in Europa.
Dopo un’intensa giornata durante la quale ha lavorato con il presidente della Repubblica Blaise Compaoré e con il primo ministro Paramanga Yonli; ha fatto un discorso all’Assemblea nazionale (il parlamento); ha visitato la sede dell’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (Uemoa), incontrando il suo omologo, Moussa Touré, e i commissari al completo. È stato anche fuori città, a visitare la diga di Ziga, finanziata in parte dall’Ue, che crea un bacino di 200 milioni di metri cubi d’acqua e salverà la capitale dalla penuria idrica.
Arriva dopo un incontro imprevisto (almeno nell’agenda ufficiale) a tre, con Compaoré e il primo ministro avoriano Seydou Diarra. Nell’aria c’è il tentativo di sbloccare la crisi in Costa d’Avorio, paese testa di ponte per l’economia di questa regione. Crisi che ha collegamenti con il vicino Burkina Faso.
Appare un po’ stanco, Romano Prodi, lo si vede dal volto, ma anche visibilmente soddisfatto. Lo dice lui stesso, e sembra a suo agio nell’edificio moderno, perennemente immerso nell’aria condizionata. Scherza con la padrona di casa, la sorridente signora Sari Suomalainen, ambasciatore e rappresentante della Commissione europea in questo paese. Parla in un buon francese, al quale trasferisce il suo intercalare riflessivo. È accompagnato dal ministro degli Esteri Youssouf Ouedraogo e, soprattutto, dal suo consigliere speciale, con il quale si scambiano occhiate, gesti e fogliettini.
L’ultimo atto ufficiale del suo viaggio è la colorata conferenza stampa affollata da giornalisti burkinabè. Chi in gran boubou (vestito lungo maschile, di alto livello, ndr), chi in sgargianti camicione africane e chi in tenuta più occidentale. È incuriosito della presenza, in questo contesto, di un giornalista italiano, forse il più folkloristico, perché l’unico non africano.
Mi avvicino e, mentre la guardia del corpo mi ringhia di sparire, lui la blocca con uno sguardo, mi prende per un braccio come mi conoscesse e chiede: «Mi dica, lei per chi scrive?». Per tutta risposta, io gli allungo in mano una copia del numero monografico di MC sulle guerre. «Ah! Missioni Consolata – dice compiaciuto -. La conosco, allora! Bene, bene, mi fa piacere che lei sia qui».

Signor presidente, al termine della sua visita che impressioni ha avuto della democrazia in questi tre paesi?
«Sono molto incoraggiato perché la democrazia ha fatto dei progressi, c’è un dibattito politico molto forte, vivo e c’è un desiderio di cooperazione tra paesi. Ma è per questo che la situazione avoriana mi rende triste, perché la Costa d’Avorio ha una grande tradizione democratica, e adesso, come ho detto ieri ai vostri colleghi avoriani, il linguaggio dei giornali e dei media avoriani, così forte, si sente l’odio. È molto preoccupante, da un’idea di una lotta politica troppo dura e con molte tensioni».
(Romano Prodi si riferisce ad alcuni quotidiani, ma anche la televisione nazionale in Costa d’Avorio che, a più riprese, hanno incitato alla caccia all’immigrato, vedi MC ottobre 2003).

Da settembre in Costa d’Avorio i ministri delle Forze nuove, gli ex ribelli, contestano le scelte del presidente Gbagbo sostenendo che non rispetta gli accordi di Marcoussis (località vicino a Parigi dove si firmarono gli accordi a gennaio 2003). Il processo di pace è bloccato e il paese spaccato in due. Lei ha incontrato il presidente e il primo ministro Diarra. Pochi minuti fa ha avuto ancora un incontro con Diarra e il presidente burkinabè Compaoré. Cosa sta cercando di fare l’Ue per risolvere la crisi?
«Penso di aver lavorato per, e penso sia meglio che le Forze nuove entrino nel governo, per poter ritrovare l’unità del paese. Sicuramente, allo stesso tempo, bisogna impegnarsi ad approvare e mettere in opera le nuove leggi, definite a Marcoussis: proprietà fondiaria, cittadinanza, voto.
Non so se ci sono riuscito, non ho alcun potere di imporre la mia volontà, perché questa è una decisione della Costa d’Avorio, ma io ho tentato tutte le pressioni possibili, nel limite del rispetto del paese. Ho incontrato il primo ministro con il presidente Compaoré, abbiamo parlato insieme, perché bisogna dire le stesse cose in tutti i campi. Penso che sia stato molto utile parlare in modo aperto tra amici. E spero che produrrà delle conseguenze positive. Io ho fatto e farò tutti gli sforzi, perché il problema è di terribile urgenza. Il paese è diviso, l’economia di tutti i paesi (dell’Africa dell’Ovest) Burkina Faso incluso, ha sofferto molto, non si può fare alcuna organizzazione di tipo regionale senza la Costa d’Avorio, allora bisogna fare tutto per chiudere la crisi.
Il giorno della conclusione a Kleber (ultimo atto di Marcoussis, ndr.) mi sono impegnato con 400 milioni di euro e li ho preparati, di urgenza. Non abbiamo sospeso, ma è impossibile versare questi soldi, perché sono legati alla pacificazione e alla riunificazione. Abbiamo chiari i problemi della sofferenza del popolo e non sospendiamo l’aiuto umanitario. Ma questa è una quantità di soldi straordinaria per il rilancio della vita politica condizionato all’applicazione concreta delle decisioni di Marcoussis».

La pace è imprescindibile per lo sviluppo. Ma le guerre nel mondo e in Africa sono in aumento. Qual è il ruolo dell’Ue nella prevenzione dei conflitti?
«La via scelta è sempre stata quella di favorire in anticipo le cornoperazioni regionali. Quando c’è una cooperazione regionale che funziona bene il conflitto non viene, proprio perché esiste una rete di protezione di conoscenza dall’esterno. Purtroppo nel caso della Costa d’Avorio il conflitto è partito lo stesso, però secondo me sono stati proprio i legami inteazionali che hanno impedito che diventasse sanguinoso. Nonostante tutto se non abbiamo avuto le stragi e le tragedie che ci sono state in altri paesi, penso sia perché abbiamo lavorato molto sulla cooperazione regionale. Non vedo altre misure di prevenzione dei conflitti con gli strumenti che abbiamo oggi».

A livello concreto cosa vuol dire?
«Appoggiare le istituzioni regionali, come l’Uemoa, a livello di budget come facciamo, fino alla cooperazione, anche di carattere militare. Siamo arrivati al punto di dire che siamo disponibili, quando sarà capace di farlo, di dare all’Unione Africana i mezzi finanziari per costruire una forza di pace, perché io sono convintissimo che è inutile che noi pensiamo che la pace in Africa possa essere garantita da forze estee».
La riduzione della povertà è l’obiettivo centrale dell’accordo di Cotonou. Quali politiche e metodi l’Ue sta mettendo in pratica affinché i poveri non siano esclusi dalla crescita economica, per ottenere un vero sviluppo sostenibile?
«Con Cotonou abbiamo delle strategie ben definite, di aiuto agli investimenti, di aiuto alla riorganizzazione della società civile, ma anche di aiuto alla cooperazione internazionale (intesa tra paesi limitrofi, ndr.), perché per noi lo sviluppo dei paesi isolati è quasi impossibile. Abbiamo incontrato il presidente dell’Uemoa e abbiamo detto che la cooperazione è stata necessaria in Europa, ma è ancora più necessaria nei paesi poveri, altrimenti non ci sarà mai uno sviluppo. Non abbiamo imposto delle dottrine generali per tutti i paesi. Per noi è soprattutto un dialogo di tipo paritario».

L’Ue è molto avanzata in termini di integrazione. Cosa devono fare i paesi dell’Uemoa per raggiungere gli stessi risultati?
«La pace! – esclama Romano Prodi con un guizzo negli occhi -. Le strutture di cooperazione di questi paesi sono molto simili alle nostre, hanno avuto l’unione monetaria prima di noi. Il problema è di seguire la strada che hanno iniziato. Capite perché per me il problema della Costa d’Avorio è un’ossessione, non c’è alcuna possibilità di fare una vera cooperazione senza quel paese. Il presidente dell’Uemoa mi ha appena detto che, dal momento in cui c’è stata la crisi, ha perso 40% del budget. In questo modo non c’è alcuna possibilità di avere un funzionamento effettivo dell’istituzione».

E che appoggio l’Unione europea può portare all’Uemoa?
«Noi abbiamo un programma di lavoro in comune, contatti regolari e un sostegno completo. L’Uemoa è anche il pivot dell’accordo di partenariato economico, che abbiamo firmato in ottobre, tra Ue e Africa dell’Ovest. Noi abbiamo cercato una cooperazione internazionale non solamente su rapporti bilaterali. Penso che sia la sola via per lo sviluppo di questa regione».

L’incontro dell’Organizzazione mondiale del commercio a Cancun doveva essere l’incontro tra paesi poveri e ricchi sul piano commerciale. È stato un fallimento. Che fare adesso?
«Chiaro che siamo delusi dal fallimento di Cancun, ma non abbassiamo le braccia, perché il mondo, e soprattutto i paesi meno sviluppati hanno bisogno di regole che li proteggano dall’arbitrario e dall’unilateralismo».

Un gruppo di paesi africani, tra cui il Burkina Faso, a Cancun ha chiesto la revisione delle politiche di sovvenzione di Ue e Usa sulla produzione del cotone, bene primario di esportazione per questi paesi. L’accordo non c’è stato. Quali sono i vostri impegni concreti?
«Non è solo un impegno. Abbiamo già deciso di ridurre del 60% il sostegno ai prezzi del cotone, questo per diminuire il problema di concorrenza ai produttori africani. Il 40% resta, ma mi sono impegnato a spingere per riformare anche questo, pur non avendo scadenze certe. Nella nostra politica è chiaro che occorre aiutare i paesi africani ad avere un potere sul mercato del cotone; oggi ciò è impedito a causa delle sovvenzioni ai produttori, negli Usa e in Europa. Noi abbiamo modificato la politica agricola, ma vorrei andare a fondo della questione e dire agli Usa che anche loro dovrebbero cambiarla».

Quale politica dell’Ue sull’immigrazione, nel momento in cui gli stati membri stanno edificando dei muri per proteggere la fortezza Europa?
«La politica europea sull’immigrazione è ancora in fase di costruzione. Abbiamo approvato l’Agenzia per l’immigrazione, che è un’istituzione molto importante ma con funzioni soprattutto tecniche di cooperazione. La Commissione aveva proposto di definire con i paesi dell’Africa e soprattutto del Mediterraneo delle quote di immigrazione, ma non è stato possibile. Questo ambito resta quindi degli stati membri. Secondo me tra pochi anni non sarà più possibile avere una politica frammentaria e sarà necessaria una politica europea».

Ma con l’allargamento dell’Unione non sarà ancora più complesso?
«Con l’allargamento dal punto pratico la situazione dell’immigrazione africana cambierà, perché pensiamo che, con l’allargamento, avremo un’immigrazione dai 10 nuovi paesi verso gli attuali. Da questo punto di vista, secondo me non c’è più spazio per l’immigrazione non europea. È chiaro che i flussi diminuiranno nel momento in cui ci sarà una nuova speranza di sviluppo. E nei paesi membri dell’allargamento c’è una nuova speranza di sviluppo interno».

Alcune associazioni burkinabè chiedono l’annullamento del debito estero. Lei cosa risponde?
«Non abbiamo alcun potere diretto sul debito perché è gestito da altre istituzioni, ma la posizione della Commissione è sempre stata in favore della remissione del debito dei paesi più poveri nelle condizioni definite. Noi abbiamo sempre votato e spinto in favore di questo».

Marco Bello




L’olivo del gran capo

Nato a Campolongo (UD) nel 1912, morto a Tosamaganga (Tanzania) nel 2003,
65 anni di missione. È padre Rambaldo Olivo, ridotto all’osso.
Per lui il cognome valeva più del nome.
Si compiaceva di essere «un olivo verdeggiante».

Si spense a Tosamaganga
il 26 giugno 2003. Lui che spesso esprimeva il timore di essere solo al momento della morte, ebbe il dono della presenza di due confratelli e di una decina di suore, che con la preghiera lo accompagnarono durante la breve agonia. Aveva scritto: «Signore, prendimi quando vuoi, ma liberami dalla morte subitanea. Dammi il tempo per un’ultima spazzolata. Però, fiat ut vis…».
Il Signore lo ascoltò, anche troppo! Il suo fu uno spegnersi lento, un consumarsi senza alcuna malattia, se non l’anzianità. Negli ultimi due anni la totale inattività, la vecchiaia e il timore di essere di peso gli erano un tormento. Si lamentava che il Signore lo avesse dimenticato, chiamando prima di lui missionari più giovani e ancora in salute. Ogni volta che le campane suonavano a morto diceva: «La prossima volta sarà per me». Era in attesa continua.
Aveva pure scritto: «Non ho dolori fisici e neppure morali. Cerco di fare ciò che vuole il Gran Capo. Per me è stato tanto misericordioso. Sono pronto alla sua chiamata…».
Lo visitai la sera del 20 giugno, festa della Consolata, e lui non voleva assolutamente che me ne andassi. Numerose volte feci cenno di andarmene, ma lui, stringendomi la mano, mi obbligava a restare. Fino a quando, assopitosi, potei lasciarlo. Ebbi la netta percezione che sentisse vicina la sua «pasqua».
Ripassai a salutarlo il giorno 24, e stava meglio. Era l’ennesima «risurrezione» di Olivo? No, perché due giorni dopo spiccava il volo verso l’eternità. Sul petto aveva un crocifisso e un quadretto della Consolata. Il crocifisso: quello che gli fu consegnato 65 anni prima, alla partenza per le missioni.
Un giorno scrisse: «Quel crocifisso lo porto ancora oggi, anche se è piuttosto consumato. Mi auguro di presentarmi al Gran Capo con Lui». Sì, il crocifisso era consunto. Così il quadretto della Consolata. Crocifisso e Consolata erano sempre lì sulla sedia, accanto a lui. Li baciava. Erano il suo viatico.

Missionarietà.
Che fosse a Madibira, Irole, Kibao, Igwachanya o Tosamaganga, lo stile missionario di padre Olivo era sempre lo stesso. Poche sue parole lo descrivono: «Visito tutte le famiglie di ogni villaggio, anche quelle pagane, anche quelle musulmane: nessuno mi ha mai messo alla porta… Sono sempre in giro a controllare le scuole, a vedere che i catechisti insegnino, a benedire le famiglie, a portare la parola di Vita».
Un giorno scrisse a lettere maiuscole: «Un grazie sincero al buon Dio, che mi ha sempre tenuto la sua mano santa sul capo in tutti i miei anni d’Africa. Anni dei quali non mi sono mai pentito».
La missione gli era nel cuore e gli sprizzava da ogni parte.

Gioia e facilità
di relazioni. Ecco una sua testimonianza da Madibira, la prima missione: «Non ebbi difficoltà di sorta né con il nuovo ambiente, né con i missionari». E, ricordando le possibili difficoltà della vita comunitaria, è bello leggere ciò che scrisse del periodo trascorso a Tosamaganga con padre Giovanni Berghi: «Siamo stati insieme 17 anni, e non è mai successo che io sia andato a letto con il muso per qualche torto ricevuto da lui o che io gli abbia fatto qualche affronto. Eravamo più che fratelli siamesi. Discutevamo e programmavamo: nulla si faceva senza dirci tutto».

Lunga la processione
quel giorno al cimitero di Tosamaganga, dove riposano tanti missionari e missionarie della Consolata. Meticolosa, come sempre, la deposizione della bara nella fossa, con i riti culturali da osservarsi, e la copertura con la terra scavata.
Ultime preghiere… E per un missionario di 91 anni (di cui 65 spesi in Tanzania) non poteva mancare una danza, al suono di tamburi, attorno alla sua tomba ricoperta di fiori. Non era un atto funebre. Era una danza di gioia, affetto e gratitudine cui hanno partecipato anche i padri e le suore.
Con padre Rambaldo Olivo scompare una generazione di missionari: quelli venuti in Tanzania prima della seconda guerra mondiale; quelli che hanno camminato e camminato spesso malati di malaria; quelli che hanno seminato nel pianto, ma che hanno pure goduto la gioia dei frutti successivi. Missionari innamorati della missione.
Affermava padre Olivo: «L’Africa mi piace sempre di più con il passare degli anni, i madibiresi soprattutto». Se c’è un ricordo che rimarrà indelebile in chi lo ha conosciuto è il suo zelo missionario: visitare, annunciare, catechizzare, celebrare. E anche la sensibilità nei confronti di chi era in necessità. Era generoso e riconoscente.
Sentiva molto la gratitudine. «Se ho fatto qualcosa di buono, lo devo all’aiuto ricevuto da tanti confratelli», dalle missionarie della Consolata, dalle suore Teresine, dai sacerdoti diocesani Tito e Rodrigo, dalle autorità locali e dalla popolazione (egli la considera tutta buona), dai benefattori in Italia.
Da tutti otteneva aiuto. E chi poteva rifiutarsi di fronte alla sua bonaria imperiosità? Il suo dito perennemente alzato ne era un simbolo.

Padre Olivo
hai camminato a piedi, hai percorso chilometri e chilometri in bicicletta e in moto. Hai guidato l’auto persino in modo spericolato, fino a due anni fa. Ora riposa in pace, con quel lieve sorriso che ti era abituale.
Noi ringraziamo il Signore per la tua lunga e operosa vita e per i molteplici doni che ti ha elargito perché facessi del bene a tutti. Ti ringraziamo per l’esempio di totale sacerdotalità, per sentirti ed essere missionario della Consolata nella bocca, nel cuore, nella vita. È il mantello di cui vogliamo essere ricoperti. Lascialo cadere su di noi. •

Giuseppe Inverardi




Un’immensa vergogna

Guerre, differenze etniche, cupidigia dei paesi vicini hanno fatto dell’est della Repubblica democratica del Congo una zona di «non-diritto» assoluto.
Ai massacri e saccheggi, bisogna aggiungere l’orrore delle violenze sessuali.

«Èarrivata ieri sera; cinque uomini armati l’hanno violentata la notte precedente, a qualche chilometro da qui – confida Mathilde Muhindo, direttrice di una struttura di aiuti sociali della diocesi di Bukavu, nell’estremità est della Repubblica democratica del Congo -. Questa mattina piangeva continuamente. Ho pianto con lei».
Uscendo dal suo ufficio, si scorge, attraverso una finestra, la silhouette di una donna, dalle spalle ripiegate, il viso nascosto tra le mani, seduta raggomitolata su se stessa al bordo del letto. Di fronte, lo sguardo abbraccia un paesaggio di infinita tranquillità. Lontano, le colline del Rwanda emergono dalla foschia. Sullo sfondo di un grigio intenso, le acque del lago Kivu riflettono come uno specchio.
«Nel 2000, sono arrivate le prime donne con lesioni mai viste in precedenza. Raccontavano storie raccapriccianti per spiegare le loro ferite» ricorda il dottor Denis Mukwege, direttore dell’ospedale di Panzi, a qualche chilometro dal centro della città.
le origini del conflitto
Tutto era iniziato nel 1994. Il Fronte patriottico rwandese, dominato dai tutsi, aveva messo fine al genocidio pianificato da Hutu Power (probabilmente 800 mila morti) prendendo il potere in Rwanda. I cosiddetti autori del «genocidio» fuggirono in Congo: circa un milione e mezzo di rifugiati hutu, reclutati contro il regime rwandese. Per arrivare ad una soluzione, quest’ultimo iniziava una prima guerra nel 1996, sul suolo congolese, durante la quale fu «necessario» decimare almeno 200 mila di questi rifugiati (uomini, donne, anziani, bambini…), indistintamente etichettati come «autori di genocidio», perché fuggivano davanti alle loro truppe.
Ma è stata la cultura di una violenza parossistica, alimentata dall’odio etnico, che ha trovato sfogo sul suolo del Congo, includendo lo stupro, come atto di genocidio.
Poi i fattori di sicurezza sono spariti davanti al «guadagno», obiettivo supremo della «seconda guerra», iniziata nel 1998. «Reti d’élites», secondo la definizione di esperti dell’Onu, composti di capi militari, dirigenti politici, imprenditori senza scrupoli, a Kigali, a Kampala e oltre, appoggiati dalla mafia internazionale, hanno saccheggiato le risorse dell’est del Congo (diamanti, oro, legname…), costruendo i loro circuiti economici per profitti personali. Hanno dovuto perciò ricorrere alla forza, ma senza fare apparire i loro obiettivi reali.
Rwanda e Uganda hanno mascherato le loro imprese di saccheggio, mantenendo quasi clandestinamente truppe più o meno regolari e, soprattutto, pilotando bande armate, sempre a forte connotazione etnica, organizzate secondo i bisogni dei loro mandanti. Gli scontri sono stati raramente seguiti da vittorie o disfatte definitive, poiché l’insicurezza doveva perpetuarsi per giustificare una militarizzazione della regione, indispensabile a coprire i saccheggi. Le popolazioni hanno pagato un prezzo terrificante.
Secondo le stime di un gruppo di esperti dell’Onu, il numero dei morti «supplementari», direttamente imputabili all’occupazione rwandese e ugandese, può essere valutata tra i 3 e i 3,5 milioni. Questo conflitto è stato il più micidiale dalla seconda guerra mondiale. In certe zone del Congo, le inchieste di «Medici senza frontiere» hanno stabilito che un bambino su quattro muore prima dei cinque anni: «Questi posti sono i più toccati dalla mortalità nel mondo».
Infine, le violenze sessuali sono state senza precedenti per numero, il loro carattere sistematico, la brutalità e la perversità con cui sono state fatte. Secondo un dipartimento dell’Onu, «in media, una quarantina di donne erano quotidianamente violentate, tra ottobre 2002 e febbraio 2003, nella città di Uvira e dintorni», dove vivono quotidianamente 200-300 mila persone. Una rete di 8 Ong locali, appoggiate da Inteational Rescue Comittee, ha raccolto ogni mese circa un migliaio di donne, ragazze e ragazzi, vittime delle violenze nel nord e sud di Kivu.
Il centro di Mathilde Muhindo, da solo, ne ha ricevuti, unicamente in giugno, ben 145. Sovraccarichi, alcuni di questi centri ricevevano le donne a gruppi di dieci. Le comunità parrocchiali, che avevano un ruolo determinante nella prima assistenza, dovevano mandarle unicamente a tuo.
E questa è solo una piccolissima parte visibile dell’iceberg. Arrivavano solamente le donne informate dell’esistenza di queste strutture di sostegno, abbastanza forti da recarsi in questi centri, camminando, a volte, per parecchi giorni. Poiché c’erano anche saccheggi sistematici, venivano spesso ridotte a chiedere a una vicina un vestito. Dovevano poi pagare il «diritto di passaggio» ad ogni sbarramento che incontravano e pure le spese mediche; poche tra loro sapevano che questo tipo di cure era quasi gratuito: un’eccezione, in un paese in cui le strutture sanitarie sono obbligate ad essere interamente autofinanziate. Queste vittime hanno soprattutto osato rompere il tabù della condanna, che tocca tutte le donne violentate.
una popolazione
«scorticata viva»
L’assalto generale iniziava, di solito, qualche ora prima del calare della notte. Dopo aver accerchiato un villaggio, gli uomini armati si dividevano in gruppi, che saccheggiavano e violentavano a tuo. Verso le due, tre del mattino, requisivano degli uomini per portare il bottino fino alla base. Le bande armate più irregolari, quelle i cui rifugi si trovavano nelle foreste, mai-mai e hutu armati, rapivano donne e ragazze. Queste diventavano loro schiave sessuali e domestiche per settimane o mesi e, a volte, venivano scambiate da una banda all’altra.
Le violenze sessuali erano così frequenti, da diventare quasi una norma: più uomini violentavano una donna e a più riprese. Il marito veniva legato in una specie di gabbia, i bambini portati vicino e tutti erano costretti ad essere presenti. «Otto o dieci mi hanno violentata – confida una vittima -. Mio marito me l’ha detto». Lei era, infatti, svenuta molto prima della fine.
Sempre più gli assalitori obbligavano a degli incesti tra padri e figlie o fratelli e sorelle. Arrivavano a sodomizzare gli uomini, una pratica assolutamente inconcepibile nelle campagne africane. L’età delle vittime andava dai 4 agli 80 anni. «Ne ha quattordici» mormora l’infermiere che è accanto ad una ragazza, alla quale il dolore chiude gli occhi a metà.
La sala, che ospita una ventina di pazienti, è stranamente vuota e silenziosa: in un ospedale africano, famiglie rumorose e indaffarate circondano abitualmente il malato. Tutte o quasi sono attaccate a sonde. «Sappiate che l’odore è molto forte» aveva avvisato un medico. Seduta sul letto, una donna lavora ai ferri una matassa di un bianco luminoso e un’altra di un verde brillante, i due colori tradizionali del corredino per neonati. Di fronte, un uomo prega, dondolando la testa, la mano posta sulla fronte di una malata senza vita. Un quinto dei 250 letti dell’ospedale di Panzi è occupato da donne, che devono subire sino a sei interventi chirurgici per riparare le violenze sessuali subite, o devono essere trattate per le mutilazioni. Nell’ospedale, queste donne sono due o tre volte più numerose dei civili, ricoverati per ferite d’armi, e quattro o cinque volte di più dei militari, curati per le stesse ragioni.
Il tasso di sieropositività dei pazienti è del 19% secondo alcune statistiche mediche, del 30% secondo altre. La metà è colpita dalla sifilide e ciò moltiplica i rischi di un ulteriore contagio. Si calcola che almeno due terzi dei combattenti regolari o irregolari siano contaminati dall’Aids. Di fronte a una popolazione «scorticata viva» da una lunga e crudele guerra, queste percentuali sono sufficienti per denunciare il piano machiavellico di sterminio, un vero tentativo di «genocidio».
Argomento supplementare: questa ondata di stupri sarebbe partita dalle file dell’esercito regolare rwandese, agli inizi del 2000, quando Kigali aveva deciso di fare dell’est congolese il suo punto d’appoggio, per rendere il Congo intero suo satellite. Si è concordi, oggi, nell’affermare che tutti i gruppi armati, senza nessuna eccezione, si sono dedicati a queste pratiche e le peggiori sono probabilmente state le bande armate hutu.
Ma perché? Mathilde Muhindo evoca inizialmente «la violenza per la violenza», dato che «i combattenti non sapevano più perché si battevano e neppure contro chi». Ma l’aumento della barbarie sarebbe stato soprattutto «un’arma di guerra», un tentativo di destabilizzazione pianificata, non solamente con le armi, ma anche con l’Aids e la fame.
«Pianificata»? Nessuno ne ha la prova formale. Ma, nell’est del Congo, violentare (anche con estrema ferocia) «è il lavoro dei militari», gridava uno di loro a una sua vittima. L’impunità totale dei colpevoli era quasi sempre assicurata, anche quando la popolazione riusciva a catturarli e consegnarli alle autorità. Il comando lasciava fare, compreso quello dell’esercito rwandese, famoso per la sua disciplina.
La migliore prova, come ha rivelato Human Rights Watch, è che, se le truppe e la guerriglia rwandese rispettavano «più o meno» i diritti di guerra sul suolo del loro paese, questo ritegno spariva quando erano fuori; in Kivu, per esempio.
Queste violenze sono state «una guerra nella guerra» sostiene l’organizzazione; «una dimostrazione di forza» afferma un medico. Bisognava dimostrare al marito, alla famiglia, al villaggio che erano tutti impotenti. È come se i violentatori avessero detto loro: «Noi possiamo farvi tutto ciò che vogliamo». Umiliare e terrorizzare, dimostrando l’assenza di ogni ricorso, finché la popolazione si rassegnasse a sottomettersi. «Non siamo andati in Congo per essere popolari; sicuramente non per mostrare ai congolesi quanto siamo buoni» aveva avvertito Paul Kagamé, l’uomo forte di Kigali.
ridotte ad essere
«più nulla»
Destabilizzazione economica anche. La produzione e il commercio agricolo sono entrati in caduta libera: la popolazione cercava rifugio lontano dai villaggi per passare la notte, ma le aggressioni si moltiplicavano anche in pieno giorno, nei campi e per le strade. Sono le donne che coltivano; per questo erano costrette a recarsi a lavorare in gruppo nei campi di una di loro, sperando che il numero desse un po’ di protezione.
Le donne assicurano anche il piccolo commercio tra villaggi e città, ma le violenze sessuali avevano reso ogni spostamento sempre più azzardato. E la malnutrizione saliva vertiginosamente. «C’era una politica deliberata per svuotare le campagne e fare affluire la gente nelle città, dove non c’era da mangiare» afferma un’alta personalità religiosa. Una politica che racchiude assalitori e vittime in una spirale infeale: da suicidio per i primi, omicidio per le seconde.
Mentre aumentava la violenza, diminuiva la produzione; poiché gli assalitori trovavano sempre meno da saccheggiare, le estorsioni diventano sempre più violente. I loro capi facevano bene attenzione a non dare nemmeno il minimo salario e il cibo, ad eccezione delle truppe regolari del Rwanda.
Destabilizzazione morale e sociale. «Ho dovuto aprire il mio pareo davanti a qualcuno che non era mio marito – dicono le vittime -; il violentatore mi ha ridotta a non essere più nulla», soprattutto perché marito, figli e villaggio ne sono a conoscenza. Tutte e tutti risentono di un’immensa vergogna. «Avrò la malattia che non ho cercato» temono tutte. «Da noi – precisa un avvocato – un uomo non riprende una donna che è stata con un altro, anche se violentata: è come un atto di infedeltà». Numerose tra loro sono ripudiate, una donna senza marito è relegata sullo scalino più basso della scala sociale.
Infine, essendo state sistematicamente derubate e spogliate di ogni utensile da cucina, anche del più piccolo attrezzo agricolo, come potrebbero assumere quello che è considerato il loro ruolo principale: curare e nutrire la famiglia?
«Tuttavia, queste donne restano in generale estremamente forti» constata Karin Watcher, che dirige un programma dell’Inteational Rescue Committee. Nelle riunioni alle quali chiedono di partecipare, sono zappe, semi, pentole le priorità di cui fanno richiesta.
Sono queste stesse forze che una suora, specializzata nel diminuire il trauma delle vittime, cerca di tirare fuori, chiedendo loro, senza stancarsi: «Cosa non ti hanno tolto?», finché lo trovano esse stesse: l’amore che hanno per i figli e il marito. Senza sosta, fa loro raccontare le circostanze della violenza subìta, insistendo su ciò che hanno tentato per sfuggirvi.
Allora, racconta la suora, si risollevano, anche fisicamente, come se stessero per ritrovare la loro fierezza e dignità. Si ricordano: «Ho resistito, fino al limite delle mie forze».

Tradotto e adattato da: René Lefort, La guerra nella guerra. Violenze sessuali contro donne e ragazze nell’est del Congo, in «Human Rights Watch», giugno 2002.

Renè Lefort




Cipro – Unione dimezzata – Intervista a George Vassilou

Tra i più accreditati leader politici ciprioti, George Vassiliou ha condotto i colloqui per l’ammissione della Repubblica di Cipro all’Unione Europea: un passo importante per la soluzione della riunificazione dell’isola.

L’1 maggio 2004 la Repubblica di Cipro entrerà a far parte dell’Unione Europea: sarà una festa riuscita a metà, data l’intransigenza turca nel trovare una soluzione alla divisione dell’isola?
«La Repubblica di Cipro è stata già accettata nell’Ue, mentre la Turchia deve ancora dimostrare di aver raggiunto alcuni traguardi. Alla Tv turca ho dichiarato che, se la Turchia ottempererà alle richieste europee, nessuno stato dell’Unione si opporrà alla sua candidatura. Dopo il vertice di Copenaghen (2002), è chiaro che la decisione di entrare o meno in Europa è solo nelle mani della Turchia. Spero, anche per il bene della nostra regione, che Ankara prenda la decisione giusta e si muova verso quella direzione».

Più volte Denktash ha dichiarato che, se la Repubblica di Cipro entrerà nell’Ue, la parte nord chiederà l’integrazione alla Turchia. Pensa che la minaccia sia reale?
«Non c’è una possibilità su un milione che la parte turco-cipriota raggiunga l’integrazione o venga annessa alla Turchia: sarebbe la fine per le aspirazioni turche di entrare nell’Ue. Principi dell’Unione sono la pace e cooperazione amichevole tra tutti i paesi, piccoli o grandi. Tale minaccia non è una novità: Denktash non ha mai voluto una soluzione del problema Cipro e ha cercato di sabotae i colloqui di ammissione. Le cose cambieranno in un prossimo futuro: ho grande speranza nelle azioni di Erodgan, presidente della Turchia, che sta cercando di creare le condizioni per la soluzione del problema di Cipro».

L’entrata di Cipro in Europa faciliterà, secondo lei, i negoziati tra le due parti cipriote?
«Certamente. Le grandi manifestazioni contro Denktash dimostrano chiaramente che i turco-ciprioti esigono una soluzione definitiva del problema dell’isola. Noi pensiamo che, con la coice della Unione Europea, questa prospettiva è assicurata. Vede, se non ci fosse stata la candidatura di Cipro, la soluzione federale prospettata per l’isola sarebbe stata difficile da raggiungere, a causa dei reciproci sospetti tra le due comunità. L’ammissione sta creando le condizioni per una soluzione federale».

Riusciranno i turco-ciprioti a fare cambiare atteggiamento a Denktash e il governo?
«Spero che Denktash non riesca a sopravvivere senza l’appoggio del popolo. Ma non dimentichiamo che nella zona occupata ci sono quasi 40 mila soldati e almeno 100 mila immigrati turchi, portati da Ankara sull’isola, che prendono ordini dalla Turchia. Il nuovo governo turco non ha ancora stabilito radici nel paese e sta ancora cercando di assestarsi; ciò si riflette anche su Cipro: stiamo quindi a vedere cosa accade ad Ankara».

Per la prima volta, l’Ue confinerà con una regione a maggioranza islamica, un confine religioso tra mondo cristiano e islamico: potrebbe essere un’occasione per riaprire un dialogo tra le due religioni, ma anche un innesco per rinvigorire focolai. È preoccupato?
«Personalmente non ho mai creduto che l’Ue sia un club cristiano. Non dobbiamo dimenticare che la cristianità è forse una, ma ci sono molti conflitti tra le stesse comunità cristiane, come nell’Irlanda del nord. È vero che in Europa la maggioranza della popolazione è cristiana e, forse, la metà è cattolica: ma questo, nella mia opinione, è garanzia di stabilità. L’Europa, inoltre, come entità, garantisce la libertà di religione. Per me, poi, ogni persona, sia essa cattolica, protestante, ortodossa, islamica, è uguale in quanto essere umano. Quello che combatto è il fondamentalismo, che non esiste solo tra i musulmani. Noi dobbiamo appoggiare qualsiasi stato non integralista e la Turchia è un paese a maggioranza islamica, ma che si riconosce secolare. L’esclusione della Turchia per ragioni religiose, sarebbe un regalo al fondamentalismo islamico, e questo porterebbe enormi problemi anche per il futuro dell’Europa».

Cipro ha una certa nomea per le banche compiacenti che riciclano i soldi sporchi della mafia russa, traffico di armi e droga: uno degli ostacoli per l’ammissione nell’Ue. Qual è la situazione oggi?
«Varie équipes di ispettori inviati dall’Ue hanno esaminato il settore finanziario e il modo con cui veniva gestito: è stato stabilito che Cipro ha un sistema finanziario ben organizzato, che non ricicla assolutamente denaro sporco. Nei paesi europei, lo dico con sicurezza, si ricicla molto più denaro sporco che a Cipro».

Molte bandiere greche, qui a Cipro, sventolano non solo su chiese e monasteri, ma anche negli edifici pubblici, come le scuole: ho l’impressione che l’enosis sia ancora viva nei greco-ciprioti.
«No! assolutamente no! L’enosis è morta tempo fa. Non c’è alcuna idea di enosis. La bandiera greca è conseguenza naturale dell’ellenismo, dell’esser greco-ciprioti. È un simbolo di identificazione etnica e culturale. Negli Usa le bandiere greche sono accanto a quelle statunitensi. Inoltre, non bisogna dimenticare che 40 anni fa Cipro era una colonia britannica e la bandiera greca era esposta per sottolineare la propria identità.
Ora che diverremo europei, i ciprioti saranno europei, ma continueranno a essere ciprioti: greco ciprioti e turco-ciprioti».

Piergiorgio Pescali