Guerre, differenze etniche, cupidigia dei paesi vicini hanno fatto dell’est della Repubblica democratica del Congo una zona di «non-diritto» assoluto.
Ai massacri e saccheggi, bisogna aggiungere l’orrore delle violenze sessuali.
«Èarrivata ieri sera; cinque uomini armati l’hanno violentata la notte precedente, a qualche chilometro da qui – confida Mathilde Muhindo, direttrice di una struttura di aiuti sociali della diocesi di Bukavu, nell’estremità est della Repubblica democratica del Congo -. Questa mattina piangeva continuamente. Ho pianto con lei».
Uscendo dal suo ufficio, si scorge, attraverso una finestra, la silhouette di una donna, dalle spalle ripiegate, il viso nascosto tra le mani, seduta raggomitolata su se stessa al bordo del letto. Di fronte, lo sguardo abbraccia un paesaggio di infinita tranquillità. Lontano, le colline del Rwanda emergono dalla foschia. Sullo sfondo di un grigio intenso, le acque del lago Kivu riflettono come uno specchio.
«Nel 2000, sono arrivate le prime donne con lesioni mai viste in precedenza. Raccontavano storie raccapriccianti per spiegare le loro ferite» ricorda il dottor Denis Mukwege, direttore dell’ospedale di Panzi, a qualche chilometro dal centro della città.
le origini del conflitto
Tutto era iniziato nel 1994. Il Fronte patriottico rwandese, dominato dai tutsi, aveva messo fine al genocidio pianificato da Hutu Power (probabilmente 800 mila morti) prendendo il potere in Rwanda. I cosiddetti autori del «genocidio» fuggirono in Congo: circa un milione e mezzo di rifugiati hutu, reclutati contro il regime rwandese. Per arrivare ad una soluzione, quest’ultimo iniziava una prima guerra nel 1996, sul suolo congolese, durante la quale fu «necessario» decimare almeno 200 mila di questi rifugiati (uomini, donne, anziani, bambini…), indistintamente etichettati come «autori di genocidio», perché fuggivano davanti alle loro truppe.
Ma è stata la cultura di una violenza parossistica, alimentata dall’odio etnico, che ha trovato sfogo sul suolo del Congo, includendo lo stupro, come atto di genocidio.
Poi i fattori di sicurezza sono spariti davanti al «guadagno», obiettivo supremo della «seconda guerra», iniziata nel 1998. «Reti d’élites», secondo la definizione di esperti dell’Onu, composti di capi militari, dirigenti politici, imprenditori senza scrupoli, a Kigali, a Kampala e oltre, appoggiati dalla mafia internazionale, hanno saccheggiato le risorse dell’est del Congo (diamanti, oro, legname…), costruendo i loro circuiti economici per profitti personali. Hanno dovuto perciò ricorrere alla forza, ma senza fare apparire i loro obiettivi reali.
Rwanda e Uganda hanno mascherato le loro imprese di saccheggio, mantenendo quasi clandestinamente truppe più o meno regolari e, soprattutto, pilotando bande armate, sempre a forte connotazione etnica, organizzate secondo i bisogni dei loro mandanti. Gli scontri sono stati raramente seguiti da vittorie o disfatte definitive, poiché l’insicurezza doveva perpetuarsi per giustificare una militarizzazione della regione, indispensabile a coprire i saccheggi. Le popolazioni hanno pagato un prezzo terrificante.
Secondo le stime di un gruppo di esperti dell’Onu, il numero dei morti «supplementari», direttamente imputabili all’occupazione rwandese e ugandese, può essere valutata tra i 3 e i 3,5 milioni. Questo conflitto è stato il più micidiale dalla seconda guerra mondiale. In certe zone del Congo, le inchieste di «Medici senza frontiere» hanno stabilito che un bambino su quattro muore prima dei cinque anni: «Questi posti sono i più toccati dalla mortalità nel mondo».
Infine, le violenze sessuali sono state senza precedenti per numero, il loro carattere sistematico, la brutalità e la perversità con cui sono state fatte. Secondo un dipartimento dell’Onu, «in media, una quarantina di donne erano quotidianamente violentate, tra ottobre 2002 e febbraio 2003, nella città di Uvira e dintorni», dove vivono quotidianamente 200-300 mila persone. Una rete di 8 Ong locali, appoggiate da Inteational Rescue Comittee, ha raccolto ogni mese circa un migliaio di donne, ragazze e ragazzi, vittime delle violenze nel nord e sud di Kivu.
Il centro di Mathilde Muhindo, da solo, ne ha ricevuti, unicamente in giugno, ben 145. Sovraccarichi, alcuni di questi centri ricevevano le donne a gruppi di dieci. Le comunità parrocchiali, che avevano un ruolo determinante nella prima assistenza, dovevano mandarle unicamente a tuo.
E questa è solo una piccolissima parte visibile dell’iceberg. Arrivavano solamente le donne informate dell’esistenza di queste strutture di sostegno, abbastanza forti da recarsi in questi centri, camminando, a volte, per parecchi giorni. Poiché c’erano anche saccheggi sistematici, venivano spesso ridotte a chiedere a una vicina un vestito. Dovevano poi pagare il «diritto di passaggio» ad ogni sbarramento che incontravano e pure le spese mediche; poche tra loro sapevano che questo tipo di cure era quasi gratuito: un’eccezione, in un paese in cui le strutture sanitarie sono obbligate ad essere interamente autofinanziate. Queste vittime hanno soprattutto osato rompere il tabù della condanna, che tocca tutte le donne violentate.
una popolazione
«scorticata viva»
L’assalto generale iniziava, di solito, qualche ora prima del calare della notte. Dopo aver accerchiato un villaggio, gli uomini armati si dividevano in gruppi, che saccheggiavano e violentavano a tuo. Verso le due, tre del mattino, requisivano degli uomini per portare il bottino fino alla base. Le bande armate più irregolari, quelle i cui rifugi si trovavano nelle foreste, mai-mai e hutu armati, rapivano donne e ragazze. Queste diventavano loro schiave sessuali e domestiche per settimane o mesi e, a volte, venivano scambiate da una banda all’altra.
Le violenze sessuali erano così frequenti, da diventare quasi una norma: più uomini violentavano una donna e a più riprese. Il marito veniva legato in una specie di gabbia, i bambini portati vicino e tutti erano costretti ad essere presenti. «Otto o dieci mi hanno violentata – confida una vittima -. Mio marito me l’ha detto». Lei era, infatti, svenuta molto prima della fine.
Sempre più gli assalitori obbligavano a degli incesti tra padri e figlie o fratelli e sorelle. Arrivavano a sodomizzare gli uomini, una pratica assolutamente inconcepibile nelle campagne africane. L’età delle vittime andava dai 4 agli 80 anni. «Ne ha quattordici» mormora l’infermiere che è accanto ad una ragazza, alla quale il dolore chiude gli occhi a metà.
La sala, che ospita una ventina di pazienti, è stranamente vuota e silenziosa: in un ospedale africano, famiglie rumorose e indaffarate circondano abitualmente il malato. Tutte o quasi sono attaccate a sonde. «Sappiate che l’odore è molto forte» aveva avvisato un medico. Seduta sul letto, una donna lavora ai ferri una matassa di un bianco luminoso e un’altra di un verde brillante, i due colori tradizionali del corredino per neonati. Di fronte, un uomo prega, dondolando la testa, la mano posta sulla fronte di una malata senza vita. Un quinto dei 250 letti dell’ospedale di Panzi è occupato da donne, che devono subire sino a sei interventi chirurgici per riparare le violenze sessuali subite, o devono essere trattate per le mutilazioni. Nell’ospedale, queste donne sono due o tre volte più numerose dei civili, ricoverati per ferite d’armi, e quattro o cinque volte di più dei militari, curati per le stesse ragioni.
Il tasso di sieropositività dei pazienti è del 19% secondo alcune statistiche mediche, del 30% secondo altre. La metà è colpita dalla sifilide e ciò moltiplica i rischi di un ulteriore contagio. Si calcola che almeno due terzi dei combattenti regolari o irregolari siano contaminati dall’Aids. Di fronte a una popolazione «scorticata viva» da una lunga e crudele guerra, queste percentuali sono sufficienti per denunciare il piano machiavellico di sterminio, un vero tentativo di «genocidio».
Argomento supplementare: questa ondata di stupri sarebbe partita dalle file dell’esercito regolare rwandese, agli inizi del 2000, quando Kigali aveva deciso di fare dell’est congolese il suo punto d’appoggio, per rendere il Congo intero suo satellite. Si è concordi, oggi, nell’affermare che tutti i gruppi armati, senza nessuna eccezione, si sono dedicati a queste pratiche e le peggiori sono probabilmente state le bande armate hutu.
Ma perché? Mathilde Muhindo evoca inizialmente «la violenza per la violenza», dato che «i combattenti non sapevano più perché si battevano e neppure contro chi». Ma l’aumento della barbarie sarebbe stato soprattutto «un’arma di guerra», un tentativo di destabilizzazione pianificata, non solamente con le armi, ma anche con l’Aids e la fame.
«Pianificata»? Nessuno ne ha la prova formale. Ma, nell’est del Congo, violentare (anche con estrema ferocia) «è il lavoro dei militari», gridava uno di loro a una sua vittima. L’impunità totale dei colpevoli era quasi sempre assicurata, anche quando la popolazione riusciva a catturarli e consegnarli alle autorità. Il comando lasciava fare, compreso quello dell’esercito rwandese, famoso per la sua disciplina.
La migliore prova, come ha rivelato Human Rights Watch, è che, se le truppe e la guerriglia rwandese rispettavano «più o meno» i diritti di guerra sul suolo del loro paese, questo ritegno spariva quando erano fuori; in Kivu, per esempio.
Queste violenze sono state «una guerra nella guerra» sostiene l’organizzazione; «una dimostrazione di forza» afferma un medico. Bisognava dimostrare al marito, alla famiglia, al villaggio che erano tutti impotenti. È come se i violentatori avessero detto loro: «Noi possiamo farvi tutto ciò che vogliamo». Umiliare e terrorizzare, dimostrando l’assenza di ogni ricorso, finché la popolazione si rassegnasse a sottomettersi. «Non siamo andati in Congo per essere popolari; sicuramente non per mostrare ai congolesi quanto siamo buoni» aveva avvertito Paul Kagamé, l’uomo forte di Kigali.
ridotte ad essere
«più nulla»
Destabilizzazione economica anche. La produzione e il commercio agricolo sono entrati in caduta libera: la popolazione cercava rifugio lontano dai villaggi per passare la notte, ma le aggressioni si moltiplicavano anche in pieno giorno, nei campi e per le strade. Sono le donne che coltivano; per questo erano costrette a recarsi a lavorare in gruppo nei campi di una di loro, sperando che il numero desse un po’ di protezione.
Le donne assicurano anche il piccolo commercio tra villaggi e città, ma le violenze sessuali avevano reso ogni spostamento sempre più azzardato. E la malnutrizione saliva vertiginosamente. «C’era una politica deliberata per svuotare le campagne e fare affluire la gente nelle città, dove non c’era da mangiare» afferma un’alta personalità religiosa. Una politica che racchiude assalitori e vittime in una spirale infeale: da suicidio per i primi, omicidio per le seconde.
Mentre aumentava la violenza, diminuiva la produzione; poiché gli assalitori trovavano sempre meno da saccheggiare, le estorsioni diventano sempre più violente. I loro capi facevano bene attenzione a non dare nemmeno il minimo salario e il cibo, ad eccezione delle truppe regolari del Rwanda.
Destabilizzazione morale e sociale. «Ho dovuto aprire il mio pareo davanti a qualcuno che non era mio marito – dicono le vittime -; il violentatore mi ha ridotta a non essere più nulla», soprattutto perché marito, figli e villaggio ne sono a conoscenza. Tutte e tutti risentono di un’immensa vergogna. «Avrò la malattia che non ho cercato» temono tutte. «Da noi – precisa un avvocato – un uomo non riprende una donna che è stata con un altro, anche se violentata: è come un atto di infedeltà». Numerose tra loro sono ripudiate, una donna senza marito è relegata sullo scalino più basso della scala sociale.
Infine, essendo state sistematicamente derubate e spogliate di ogni utensile da cucina, anche del più piccolo attrezzo agricolo, come potrebbero assumere quello che è considerato il loro ruolo principale: curare e nutrire la famiglia?
«Tuttavia, queste donne restano in generale estremamente forti» constata Karin Watcher, che dirige un programma dell’Inteational Rescue Committee. Nelle riunioni alle quali chiedono di partecipare, sono zappe, semi, pentole le priorità di cui fanno richiesta.
Sono queste stesse forze che una suora, specializzata nel diminuire il trauma delle vittime, cerca di tirare fuori, chiedendo loro, senza stancarsi: «Cosa non ti hanno tolto?», finché lo trovano esse stesse: l’amore che hanno per i figli e il marito. Senza sosta, fa loro raccontare le circostanze della violenza subìta, insistendo su ciò che hanno tentato per sfuggirvi.
Allora, racconta la suora, si risollevano, anche fisicamente, come se stessero per ritrovare la loro fierezza e dignità. Si ricordano: «Ho resistito, fino al limite delle mie forze».
Tradotto e adattato da: René Lefort, La guerra nella guerra. Violenze sessuali contro donne e ragazze nell’est del Congo, in «Human Rights Watch», giugno 2002.
Renè Lefort