Una garbatissima protesta

Egregio direttore,
fermo restando il giudizio positivo già espresso sul vostro lavoro, mi spiace dover segnalare il mio disappunto per come è avvenuta la pubblicazione di una mia lettera.
A parte le modifiche del testo originario (che comunque non incidono sul contenuto), mi sembra spiacevole l’effetto complessivo. A distanza di mesi il lettore potrebbe legittimamente non ricordare l’intervento di G. Chiesa e tanto meno le obiezioni del lettore di Perugia. L’impressione, quindi, è che il giornale pubblichi un intervento polemico un po’ gratuito e che prenda le distanze da chi pensa di poter dare dell’idiota ad altri con una certa leggerezza…
In compenso, proprio in seguito a questo episodio, ho scoperto quanti sono i lettori attenti di Missioni Consolata! Scrivo con una certa frequenza anche altrove e non mi era mai capitato che tanta gente insospettabile venisse a chiedermi se sono io «quello che…». E quest’ampia diffusione fa piacere a tutti noi.
Egregio direttore,
fermo restando il giudizio positivo già espresso sul vostro lavoro, mi spiace dover segnalare il mio disappunto per come è avvenuta la pubblicazione di una mia lettera.
A parte le modifiche del testo originario (che comunque non incidono sul contenuto), mi sembra spiacevole l’effetto complessivo. A distanza di mesi il lettore potrebbe legittimamente non ricordare l’intervento di G. Chiesa e tanto meno le obiezioni del lettore di Perugia. L’impressione, quindi, è che il giornale pubblichi un intervento polemico un po’ gratuito e che prenda le distanze da chi pensa di poter dare dell’idiota ad altri con una certa leggerezza…
In compenso, proprio in seguito a questo episodio, ho scoperto quanti sono i lettori attenti di Missioni Consolata! Scrivo con una certa frequenza anche altrove e non mi era mai capitato che tanta gente insospettabile venisse a chiedermi se sono io «quello che…». E quest’ampia diffusione fa piacere a tutti noi.

Signor Claudio, grazie dell’attaccamento a Missioni Consolata, espresso dal finale «tutti noi», che la rende in un certo senso parte della nostra «famiglia». Grazie anche della sua garbatissima protesta. Soprattutto, apprezziamo che lei non dia ad alcuno dell’«idiota» con leggerezza e gratuità.

Claudio Belloni




Dopo 30 anni

A Missioni Consolata sono interessata per:
1°, perché mi è molto utile come strumento di informazione e documentazione per le attività di educazione allo sviluppo nella scuola, date le tematiche di carattere globale che affronto;
2°, perché ho conosciuto e apprezzato la rivista durante un’esperienza estiva fatta presso alcuni missionari della Consolata, in Tanzania, una trentina di anni fa.
Oggi ho provveduto a fare il versamento per il 2004. Sono impegnata pure come volontaria in una Ong sarda (Osvic).

E così ci ritroviamo… dopo 30 anni. Che bello

Giulia Polloni




Aids in Africa

aro direttore,
ho letto l’articolo di G. Ferro sull’Aids in Africa nell’ambito della rubrica «Come sta Fatou?» (Missioni Consolata, dicembre 2003). Esprimo alcune perplessità al riguardo.
L’approccio tipico dei media, come di gran parte del mondo sanitario «istituzionale», al problema dell’Aids in Africa è concentrato sul comportamento sessuale individuale. Per spiegae l’enorme diffusione, si parla di promiscuità e di eccessiva attività sessuale, con un’implicita condanna morale per abitudini «esotiche».
Questo approccio compare anche nell’articolo di Ferro, per altri aspetti ottimo, con il folcloristico racconto del re dello Swaziland o della diffusione di poligamia e relazioni extraconiugali (certamente non peculiare degli africani). La soluzione è, quindi, una politica di prevenzione, basata solo sulla sfera individuale (sesso sicuro, preservativi, ecc.).
Alcune pubblicazioni (per esempio: A. Katz, «Aids in Africa», in Zmagazine, 9/03) evidenziano i limiti di questo approccio. Infatti, poiché il 25% di africani subsahariani è colpito dall’Aids, contro lo 0,01-0,1% occidentale, significherebbe per i primi un’attività sessuale 250-2.500 volte superiore! Le ragioni per tale abnorme diffusione devono essere anche e, soprattutto, altre.
È noto che malnutrizione e infezioni croniche (malaria, tbc, parassiti, ecc.) incidono sulle funzioni immunitarie. Ciò probabilmente rende le persone «sane» molto più vulnerabili all’infezione e quelle Hiv positive più contagiose. Questo potrebbe spiegare il tasso di trasmissione enormemente più alto di quello delle comunità benestanti occidentali.
Accettare queste considerazioni significherebbe, per le istituzioni coinvolte, intervenire, oltre a quanto già in atto, anche sulla povertà delle popolazioni africane per prevenire l’Aids.
Infatti solo con una migliore disponibilità di cibo, acqua corrente, fognature, alloggi ed assistenza sanitaria si potrebbe avere un netto incremento delle condizioni igienico-sanitarie. E magari le ragazze, per sopravvivere, non sarebbero più costrette a vendersi ai vari «paparini» e non accorrerebbero in 50 mila davanti al re dello Swaziland.
Tutto questo, per un congresso internazionale sull’Aids in hotel a 5 stelle, forse potrebbe sembrare troppo fuori dal coro.

Condividiamo le osservazioni del lettore. Missioni Consolata le ha espresse anche sul numero di febbraio 2004, dove si afferma: «La causa principale di Aids, malaria e tubercolosi è l’impoverimento progressivo delle popolazioni» (p. 15).
Tuttavia anche il comportamento sessuale non deve essere sottovalutato. Spesso è l’ultima goccia che fa traboccare il vaso.

Dario Selvaggi




Signore, benvenute!

Cari missionari,
desidero abbonare anche mia figlia alla bellissima rivista Missioni Consolata. Noi, in famiglia, la riceviamo da anni: è davvero un documento straordinario, da conservare sempre e da meditare.
Pertanto vi prego di mandarmi il conto corrente postale o di comunicarmi il numero per fare il versamento di denaro.
Carla Pavese
Casorzo (AT)

Cara signora Carla, per abbonare sua figlia a Missioni Consolata, può usare il conto corrente postale (ccp), allegato alla rivista stessa, che porta il suo nome; oppure può servirsi del ccp
numero 33.40.51.35
intestato a
Missioni Consolata Onlus
Corso Ferrucci 14
10138 Torino
Speriamo che sua figlia resti soddisfatta, almeno come lei… Così pure la nuova abbonata, signora Angela, appena ritornata dal Kenya.

Sono arrivata da pochi giorni dal Kenya, dove sono stata per due mesi nella missione di Wamba. Ho letto anche molti numeri della rivista Missioni Consolata, trovandola stupenda e subito mi sono abbonata. Ho trovato molto giusto quello che scrivete sui missionari. Veramente io non immaginavo che si adoperassero così tanto.
Stando due mesi, ho capito un po’ di cose; prima ero molto scettica e non pensavo (sono reduce da un grave lutto) di trovare nelle suore un amore così grande sia verso di me sia verso la gente locale.
Gli italiani, che magari sono come me (prima), sappiano che ogni soldo ricevuto dai missionari va veramente a buon fine. Sapeste quanta gente non muore di fame proprio perché ci sono i missionari. A Wamba c’è un bellissimo ospedale, e quanta gente si aiuta! Io sono tornata meno egoista e un po’ più serena.
Per favore, pubblicate questa lettera: è anche un ringraziamento. Grazie, zia Giordana Pia, grazie suor Micarnelita! Grazie a tutte le altre missionarie, delle quali non vorrei sbagliare il nome.
Angela Tosco
Bra (CN)

Anna Avanzi, Angela Tosco




Spudoratamente di sinistra

«Spudoratamente
di sinistra»

Spettabile redazione,
ho letto con molta attenzione gli articoli sulla guerra irachena e ho constatato con amarezza che tutti i commentatori appartengono solo ad un’area politica ben definita (cfr. Missioni Consolata, gennaio 2004).
La pagina di Giulietto Chiesa, poi, mi ha fatto rabbrividire: come può fare tanto il moralista, lui, che prendeva 300 rubli al mese dal Pcus, per raccontarci che in Urss c’era il paradiso e oggi considera venduti i giornalisti di centro-destra?
Un’informazione eticamente corretta doveva dare voce anche ad autori che la pensano in modo diverso, così da dare ai lettori una visione pluralistica del problema, consentendo loro di farsi liberamente una loro idea sul problema, e non solo quella imposta dalla vostra rivista.
Dal prossimo anno non rinnoverò più l’abbonamento (era da parecchi anni che lo facevo) e lo rifarò solo quando sarete informatori super partes, non portavoci soltanto di un’area politica (spudoratamente di sinistra).
Lucia Salvador

Certamente la lista dei commentatori della guerra irachena (tre sacerdoti diocesani, un missionario e un vescovo) poteva essere diversa; e le idee espresse possono essere anche errate. Ma bisogna provarlo con fatti e persone, come i nostri autori hanno argomentato il loro intervento, appellandosi a sant’Ilario di Poitier, a fatti di vita parrocchiale, ecc.
Non basta dire: appartengono tutti solo ad un’area politica. La politica partitica non è garanzia di verità.

Pieve di Soligo (TV)




La croce dell’Islam fondamentalista

Anche l’islam fondamentalista ha imparato a fare la croce. Ma è un segno di maledizione e sterminio.
In un tour attraverso l’Africa sono passato a Khartoum, in Sudan, paese dominato dall’integralismo islamico. Paese dove si discute il trattato di pace, dominato dai musulmani del nord, che volevano dare al sud cristiano, che poggia sul petrolio, il 15% dei proventi: il fatto che sia stato firmato il 50/50 è già positivo.
Con amici ho potuto vedere ciò che grida vendetta al cospetto di Dio: i campi profughi intorno a Khartoum; una guerra che dura da 20 anni e ha fatto oltre 2 milioni di morti e obbligato 4 milioni di persone a lasciare il loro verde e fruttuoso villaggio al sud, la loro capanna con gli animali e, su camion da bestiame o con marce forzate di 800 km, portati e buttati come animali da macello nella sabbia rovente intorno alla capitale dove manca tutto.
Per il cibo devono dipendere dalle organizzazioni umanitarie; mancano pozzi e l’acqua viene trasportata con gli asini e venduta in taniche; medicinali e medici sono un sogno.
Nel 2003, mi diceva un’amica, per 2 mesi la temperatura non è mai scesa sotto i 55° e una mosca, come le nostre, a questo calore, diventa velenosa e una sua puntura scava fino all’osso e lacera per 6 mesi.

M a è ciò che ho visto al campo di Geberona (700.000 profughi) che mi spinge a farmi voce di chi non ha voce.
L’Esodo parla dell’angelo sterminatore che risparmiava le case segnate col sangue dell’agnello. A Geberona, invece, ho visto lo sterminio dei poveri più poveri: una spianata di catapecchie, che la gente, in diversi anni e con infiniti sforzi e sacrifici, era riuscita a costruirsi con le proprie mani.
Con la scusa del futuro sviluppo della città, un grosso bulldozer opera la distruzione: vengono date 24 ore per sloggiare e prendere il nulla che hanno e poi le case segnate con una croce bianca vengono rase al suolo, e quella povera gente deve ricominciare da capo.
Ho pensato a un’altra croce, quella uncinata: stessa persecuzione, stessa crudeltà, stessa logica di morte.
Mi ha colpito la dignità di quei fratelli calpestati.
I miei amici cercano di aiutare i giovani dei campi profughi, offrendo loro il trasporto, un pasto (l’unico al giorno), l’istruzione e l’apprendimento di un mestiere. E un loro fratello fa da ponte per gli aiuti umanitari e la realizzazione di progetti per una preparazione adeguata e modea.
Sentivo il bisogno di far sapere tali atrocità, affinché nessuno possa dire: «Io non lo sapevo!».
Il popolo sudanese, il musulmano comune è buono, rispettoso e cortese. Il veleno del fanatismo è morte. Uno dei miei amici ha sognato, una notte, che stava difendendo gli agnelli, attaccati da lupi ringhiosi e decisi a sbranarli.
Sta costruendo la pace.
Sudan, sia pace su di te!
John

John




Buona fortuna sister Magdalena

Una nidiata di orfani, circondati
dall’affetto di cinque «missionarie
della carità».
Che continuano
a diffondere
nel mondo
il «dono»
di Madre Teresa.

Ormai sono passati due anni dalla nostra indimenticabile esperienza in Kenya; ma è come se avessimo ancora nelle orecchie le voci e le grida allegre dei bimbi dell’orfanotrofio di Maralal.
Ma facciamo un passo indietro.

Agosto 2001,
Torino-Nairobi, Nairobi-Suguta Marmar, dove c’era il nostro «campo base», coloratissima sede da cui, ogni mattina, partivamo per una «missione» diversa: c’erano giornate in cui andavamo a visitare i villaggi più sperduti, per portare vestiti o medicinali; altre con l’impegno della catechesi alle donne e ai bambini; altre ancora, in cui si correva per celebrare la messa in più posti; e poi, finalmente, il meritato giorno di riposo, in visita al vivacissimo mercato di Maralal! Ci assaliva subito un’euforia strana: gli occhi ci si riempivano di colori e il naso degli odori più diversi: stoffe, spezie, animali, pile di collanine di tutte le forme e dimensioni, e, dulcis in fundo, caratteristici personaggi nostrani.
Ed è proprio durante queste nostre giornate a Maralal, che abbiamo avuto la fortuna di conoscere sister Magdalena e la sua grande schiera di «tesori». Nella cittadina, infatti, c’è l’unico orfanotrofio del distretto Samburu. Sulla via principale, dietro un muro completamente scrostato e una piccola porticina di ferro, in realtà si apre un grande mondo: panni colorati stesi al sole, giochini sparsi per il cortile e poi loro, le cinque magnifiche padrone di casa, attorniate da una schiera di pulcini, tutti occhioni e sorrisi!
A capo delle cinque suore missionarie della carità (l’ordine di Madre Teresa di Calcutta) c’è suor Magdalena, la superiora, responsabile della struttura, ormai da cinque anni. Dopo le presentazioni e una visita nei locali dell’orfanotrofio, le suore ci hanno gentilmente offerto un thè caldo, mentre suor Magdalena si è seduta con noi, iniziando a raccontarci la sua storia e quella del suo operato a Maralal…

Raccontava,
per esempio, di quando la mattina uscendo in strada, a volte trovavano fagottini lasciati espressamente davanti alla loro porta, con dentro bimbi abbandonati: le famiglie infatti, sapendo di non poterli accudire e mantenere, preferivano privarsene, lasciandoli in un porto sicuro, dove cibo e una sana educazione non sarebbero mai mancati! O quando tutti i bimbi piangevano insieme, perché era l’ora della pappa e le cinque suorine, da sole, non riuscivano a tenere il ritmo!
La cosa che ci ha colpito di più è stata quella di entrare nel dormitorio: tante piccole testoline nere, dentro una trentina di lettini blu, si sono girate al nostro arrivo e, dopo il primo momento iniziale di silenzio e stupore, c’è stato chi si è messo a ridere, chi a piangere e chi si rintanava sotto le copertine per la timidezza. Erano bellissimi, ce li saremmo portati a casa tutti quanti!
Ora siamo ancora in contatto con suor Magdalena. In questi due anni ci siamo scritti lettere e cartoline, noi raccontando il nostro solito tran-tran quotidiano e loro aggioandoci sui piccoli progressi dell’orfanotrofio: ampliamento delle strutture, camerette per i bimbi, rinnovo della sala mensa e nuove divise scolastiche per gli scolaretti.
Per due anni abbiamo anche raccolto e mandato loro vestitini, scarpe e giochi; loro ci ringraziavano, mandandoci disegni e foto. Non avremmo potuto chiedere di meglio!

Con l’ultima lettera
però, abbiamo appreso che suor Magdalena, alla fine di gennaio, è stata trasferita in un’altra città, in un altro continente, per un’altra missione. Il suo operato a Maralal è finito.
Ci ha detto che è triste, che i «suoi bimbi» le mancheranno parecchio, che ha paura di soffrire il cosiddetto «mal d’Africa»… ma anche che «le strade del Signore sono infinite» e che, dunque, è pronta ad affrontare il nuovo incarico con la stessa vitalità e lo stesso entusiasmo. Perché lei ha stretto un patto con il Signore: ha scelto di essere missionaria della carità nel mondo!
Cara suor Magdalena, sai che dovunque andrai, noi ti sosterremo sempre e ti saremo vicini, con il pensiero e la preghiera…
Buona fortuna!

Rosa e Rosetta

«H o conosciuto la famiglia di Madre Teresa, sua mamma Drane e la sorella Aga, quando sono venute a vivere nell’appartamento sopra al mio. Come d’abitudine, mi sono presentata, dando il benvenuto. Sono stata accolta con grande calore e subito tra di noi si è sciolto il ghiaccio». Sono le prime parole della signora Myzejen Mero, vicina di casa della famiglia di Madre Teresa, negli anni trascorsi a Tirana.
«La signora Drane aveva già 82 anni ed io la chiamavo Loke (che significa mamma), come voleva essere chiamata da tutti. Era una donna piccola, molto magra, con grandi occhi e uno sguardo solare. Parlava la lingua kosovara; chiamava Teresa “Gonxhe Jul” (che in turco significa rosetta) e da lei veniva chiamata “Drano File”, rosa. Tutte le lettere che riceveva dalla figlia suora iniziavano con “Cara Drano File”.
È stato quando Teresa aveva terminato il ginnasio che Loke, vedendo la figlia silenziosa e pensierosa, scoprì che stava maturando il desiderio di consacrarsi al Signore, ma glielo impedì. Forse per paura di una nuova perdita, dopo quella del marito (avvelenato) e di vari cugini (morti di tubercolosi). Ma il Signore opera per vie a noi sconosciute e, successivamente, Teresa si ammalò di tifo e cadde in coma per tre giorni. Ormai le avevano già preparato l’abito bianco quando, piano piano, si riprese.
Di fronte ad un tale avvenimento e all’insistenza della figlia, Loke le rispose: “Va bene, mi hai convinta. Se fossi morta, non ti avrei più vista con gli occhi e non avrei più udito la tua voce; ma adesso che sei ancora in vita, anche se sarai lontana, non potrò vederti, ma almeno potrò ancora sentire la tua voce”. E fu così che ebbe inizio la grande avventura di colei che oggi, con affetto, noi chiamiamo Madre Teresa.
Lo stile di Madre Teresa si vedeva nella corrispondenza che teneva con la sorella Aga. Le lettere erano sempre brevi, ma non mancavano mai le foto dei bambini lebbrosi, a cui la Madre stava dedicando la vita. Così, anche quando Loke fu colpita da sclerosi multipla ed Aga le raccontò tutte le cure che le prestava, Madre Teresa le rispose brevemente: “Beata te, che stai curando la mamma e stai diventando per lei come un angelo custode”. Quando morì, scrisse semplicemente: “Beata la mamma, che si è riunita agli angeli del cielo”.
Ancora in vita, Loke ed Aga erano sempre serene e vivevano aiutando i bambini del vicinato. Aga veniva chiamata zia e ogni anno, a settembre, preparava a tutti la divisa per la scuola. Era una ragazza molto onesta, di forte esempio, che entrava nelle case e custodiva i segreti di ognuno. Erano entrambe benvolute da tutti; quando Loke morì, ognuno diede il suo contributo, seppellendola secondo il rito cristiano, in un paese dominato dalla dittatura e dal rancore verso ogni forma di fede.
Abbiamo continuato a stare vicino ad Aga, ma dopo un anno anche lei è stata poco bene; ha avuto un infarto ed è stata ricoverata. Spontaneamente, tutti ci siamo organizzati per darle l’assistenza che meritava! Personalmente, sono riuscita a salutarla proprio il giorno prima della sua morte: era molto triste, ma serena. Hanno vissuto bene ed hanno lasciato un importante messaggio di speranza attorno a loro».
Chiara Minutella
e Ermal Rexhepi

Alessia Magnetto




IRAQ – Quelle pesantissime stellette

È giusto, opportuno e coerente il ruolo della chiesa nel mondo militare?
È compatibile con gli insegnamenti di Gesù Cristo la presenza di cappellani (con tanto di gradi) sui fronti di guerra?
Con l’accurata analisi di un sacerdote di Pax Christi e un’intervista a don Mariano, cappellano militare italiano a Nassiriya, continuiamo il nostro viaggio critico all’interno della guerra irachena.

UN RUOLO DA DISCUTERE
«“Senza far uso strumentale della storia, senza intenti di polemica fine a se stessa, Pax Christi chiede, nuovamente, che si ritorni a discutere sul ruolo dei cappellani militari, non per togliere valore alla presenza e all’annuncio cristiano tra quanti, soprattutto giovani, stanno vivendo la vita militare, ma per essere più liberi, senza privilegi e senza stellette”.
Sono parole che si leggevano nel comunicato di Pax Christi distribuito a Barbiana il 26 giugno ’97 in occasione del 30° anniversario della morte di don Milani. Parole che non hanno smarrito lo smalto dell’attualità nell’anno del giubileo».
Iniziava così l’editoriale dell’ottobre 2000 di Mosaico di pace, la rivista promossa da Pax Christi e voluta da don Tonino Bello, presidente del movimento fino al 20 aprile 1993, giorno della sua morte. Queste riflessioni mi sono ritornate alla mente nel mio ultimo viaggio in Iraq lo scorso novembre 2003.
Con una piccola delegazione di Pax Christi siamo stati più volte in quella terra segnata da troppe guerre, passate e presenti, che hanno sempre visto un ruolo attivo anche dell’Italia: vendita a Saddam Hussein di armi, mine, gas e, ora, coinvolti – di fatto – in una presenza militare che si può anche chiamare operazione di pace, ma è, a tutti gli effetti, una presenza in zona di guerra.
E se in Iraq la guerra non è finita, come sostengono anche alcuni autorevoli generali italiani, allora anche l’Italia è in guerra e i nostri militari sono andati… in guerra. Certo, con tutti i buoni propositi del caso, con scopi di pace, si dice. Ma, come afferma il papa nel messaggio per la Giornata mondiale della pace: «… i governi democratici ben sanno che l’uso della forza contro i terroristi non può giustificare la rinuncia ai prìncipi di uno stato di diritto. Sarebbero scelte politiche inaccettabili quelle che ricercassero il successo senza tener conto dei fondamentali diritti dell’uomo: il fine non giustifica mai i mezzi!».

A IMMAGINE DI… BUSH
In questo ultimo viaggio, e anche nello scorso maggio 2003, a Mosul, nel Nord Iraq, dopo aver partecipato alla consacrazione episcopale di padre Louis Sako, vescovo di Kirkuk, ho avuto modo di incontrare alcuni cappellani militari Usa. Il loro ragionamento è lineare, semplice: sembra di sentire parlare Bush in persona. E dire che un cappellano dovrebbe fare riferimento quantomeno al vangelo e al magistero della chiesa. Non c’è dubbio che le posizioni del papa siano abbastanza lontane da quelle di Bush: la guerra è avvertita come avventura senza ritorno, sconfitta dell’umanità. Anche il papa è un pacifista, disfattista e amico di Saddam o degli integralisti islamici?
«Siamo venuti in Iraq perché Saddam doveva essere fermato in quanto troppo pericoloso – mi dice Chester Egert, cappellano militare dell’esercito Usa – perché l’Iraq era collegato ad Al Qaeda e preparava attentati terroristici in tutto il mondo. Siamo qui non per fare la guerra ma per portare pace. In alcuni casi, la pace va imposta».
Sono senza parole. Cerco di dire qualcosa, ma don Chester è determinato: «Sì, la pace si impone, come stiamo facendo noi».
E lo scorso mese di maggio, chiedevo ad un altro cappellano Usa, come conciliasse il vangelo o il testo di Isaia «forgeranno le loro spade in vomeri», con la guerra, con i bombardamenti e l’uccisione di tanti innocenti. Lui mi rispondeva di aver avuto una visione (e anche qui siamo sulla linea religiosa-illuminata di Bush) in cui il Signore lo chiamava a questo ruolo di difensore e portatore di pace.
Ci si rende conto di come il ruolo di militari, arruoli anche il vangelo e Gesù Cristo. Sembra fuori da ogni logica la vita e l’insegnamento di Gesù, le sue parole «rimetti la spada nel fodero…».

«EMBEDDED»: CAPPELLANI
COME GIORNALISTI
Si è usata molto la parola embedded (arruolati) per i giornalisti. Credo che a maggiore ragione si possa e si debba usare per i cappellani militari, anche perché hanno pure le stellette! Per questo può essere interessante ripercorrere la riflessione che, in questi anni, Pax Christi ha cercato di fare sul ruolo della chiesa e dei cappellani militari all’interno dell’esercito.
«Il 19 novembre prossimo – continuava l’editoriale di Mosaico di pace – piazza S. Pietro ospiterà il giubileo dei militari e francamente, consideriamo quest’appuntamento un “segno dei tempi” che rattrista e inquieta. Un altro dei segnali che ci preoccupano perché vediamo crescere una cultura di guerra e di morte nella politica, nell’economia, nella società, e nella chiesa. Non dimentichiamo che soltanto il 6 maggio 1999 si è concluso il «Primo sinodo della chiesa ordinariato militare in Italia» evento assolutamente inedito, destinato a rafforzare l’attuale modalità di presenza di sacerdoti e vescovi nel mondo militare. Mentre cresce il numero delle guerre, aumenta vertiginosamente l’export di armi (in Italia +40%), si studiano e si sperimentano nuovi sistemi d’arma per realizzare guerre umanitarie con bombe intelligenti, ci sembra davvero anacronistico e incomprensibile alla luce del vangelo, parlare di chiesa militare e di giubileo dei militari.
Ai nn .572-573 del documento finale del Sinodo citato, nel capitolo intitolato La via militare alle Beatitudini si legge: «Consapevole che Dio ha affidato la costruzione di un mondo nuovo ai poveri di spirito, ai miti, ai misericordiosi, ai puri di cuore, agli assetati di giustizia, il militare cristiano che porta le armi e sa di poter essere costretto ad usarle, sappia che la sua vita è inserita nello spirito delle Beatitudini che gli conferisce il ruolo di “operatore di pace”».
Risulta davvero interessante leggere queste affermazioni alla luce di quanto è scritto nei «Lineamenti di sviluppo delle forze armate negli anni ’90», documento presentato in Parlamento nell’ottobre ’91. Lì si parla di «concetti strategici di difesa degli interessi vitali ovunque minacciati o compromessi»; e questi interessi vitali da difendere riguardano «le materie prime necessarie alle economie dei paesi industrializzati». Onestamente non ci sembra che questa prospettiva possa portare a definire i militari cristiani «operatori di pace».
«In occasione del giubileo dei militari – continua Mosaico di pace – diventa auspicabile all’interno della chiesa italiana una riflessione aperta, serena ma ferma sul ruolo dei cappellani militari e sulla loro completa integrazione all’interno dell’apparato militare. Ma l’appuntamento giubilare è anche l’occasione per alcune domande.
Non potrebbe essere questo il momento significativo, in cui i cappellani scelgano di rinunciare alle stellette e ai privilegi che esse comportano? Perché, infine, non cogliere questo momento propizio per chiedere perdono a don Milani e a tutti coloro che hanno scelto l’obiezione di coscienza? Ci spiace ricordare che la sentenza di condanna non è stata mai cancellata e pesa ancora nei registri penali ai danni del priore di Barbiana».
Mi sembra che questo editoriale, riportato quasi integralmente, ponga bene la questione. Oggi più che mai urgente perché la guerra è una tragica realtà che ci vede coinvolti.
Pax Christi aveva già posto il problema con un appello ai vertici ecclesiali e ai politici, senza molto successo, in occasione del Convegno della chiesa italiana a Palermo, nel 1995. E ancora in occasione del 30° anniversario della morte di don Lorenzo Milani, come si ricordava nell’editoriale di Mosaico già citato.
Anche per il Congresso eucaristico a Bologna, dove è prevista una celebrazione eucaristica presieduta dall’ordinario militare, Pax Christi interviene chiedendo di «aprire un dialogo sul ruolo dei cappellani militari: la loro smilitarizzazione potrebbe essere un gesto significativo e concreto di conversione, proprio in occasione del Congresso eucaristico, anche alla luce del giubileo del 2000, per iniziare il terzo millennio più fedeli al vangelo di Cristo nostra pace» (20 settembre ’97).
L’appuntamento più importante su questo tema dei cappellani militari è stato senza dubbio il seminario di studio che si è tenuto alla Casa per la pace di Firenze nel novembre ’97, promosso in collaborazione con il Centro studi economici e sociali per la pace: «Cappellani militari oggi e… domani», con relazioni di giuristi, di un rappresentante autorevole dell’Ordinariato militare e di Pax Christi.
«Si è ribadita pertanto la necessità – si legge nel comunicato finale – di un sempre maggiore impegno non solo della chiesa presente tra le forze armate, di cui s’è riscontrata la disponibilità al dialogo, ma di tutta la chiesa italiana per un cammino sempre più determinato sulla via della nonviolenza e della pace».
È stata la prima e per ora l’unica occasione di confronto ufficiale tra un rappresentante dell’ordinariato militare e Pax Christi. C’è da augurarsi che il dialogo possa continuare, alla luce delle nuove situazioni di guerra in atto.
Per concludere, vanno rilanciate alcune domande.

PARLIAMO DI GRADI
E DI… SOLDI
Perché non scegliere anche per i cappellani nell’esercito un ruolo di presenza sul modello della polizia di stato o degli istituti penitenziali, dove ci sono dei cappellani, con accordi ma senza essere inquadrati nella struttura? Insomma, senza stellette e senza (so di toccare un tasto delicato…) stipendio. Lo stipendio di un cappellano militare è quasi il triplo di quanto percepisce un normale prete dall’Istituto di sostentamento del clero. E, oltre alla tredicesima, sono coperte anche tutte le spese per ufficio, telefono, macchina e autista. Questo mi diceva tempo fa un amico cappellano-capitano. Stipendi, quindi, in rapporto ai gradi militari. E l’ordinario militare è equiparato ad un generale. Perché allora non tornare ad essere, preti come gli altri, inseriti in una diocesi come gli altri e non in una diocesi castrense come avviene oggi?
Questo sicuramente aiuterebbe ad essere più liberi. A non rispondere come mons. Marra, già ordinario militare negli anni passati, che parlando della situazione balcanica (non c’era stato ancora l’intervento militare della Nato) ebbe a dire al settimanale diocesano di Udine, La vita cattolica: «Monsignor Bettazzi e il compianto monsignor Bello scrivevano che era urgente operare per risolvere il problema della Bosnia- Erzegovina, ma imploravano che non si usasse la forza: una posizione troppo idealistica e, a mio avviso, inoperosa e inconcludente».

IL RIPENSAMENTO
DI MONS. SUDAR
Due citazioni, autorevoli, possono essere la conclusione di quanto fin qui esposto, con la speranza che il tema della guerra e della pace, della violenza e nonviolenza possa essere di nuovo affrontato anche con chi crede che l’unica strada sia quella delle armi.
La prima citazione è di mons. Luigi Bettazzi, già presidente di Pax Christi che, subito dopo la tragedia di Nassiriya del novembre 2003, scrive: «È tardi, ma non troppo tardi, per ridare all’Onu non una funzione di servile copertura, ma un’autentica autorità per aiutare il popolo iracheno a realizzare la democrazia e lo sviluppo, con un governo non sospetto e una ricostruzione non interessata. Lo chiede la volontà di pace della maggioranza dell’umanità, lo esige il sangue di questi nostri giovani morti nell’illusione di poter diventare operatori di pace».
La seconda, che ci riporta in Bosnia, è del vescovo ausiliare di Sarajevo, mons. Pero Sudar, che sulla rivista dell’Azione cattolica italiana Segno nel mondo, n. 4 del 16 marzo 2003, scrive:
«La guerra nella mia patria e le sue tragiche conseguenze mi hanno costretto ad immaginare il corso della storia senza le guerre, con cui si intendeva combattere le ingiustizie ed abbattere i sistemi ingiusti. Riconosco di essere stato convinto anch’io che l’uso della violenza sia utile e necessario quando si tratta della libertà dei popoli. Dopo aver visto e vissuto da vicino che cosa vuol dire la guerra di oggi, non la penso più così. Sono profondamente convinto, e lo potrei provare, che l’uso della violenza ha portato sempre un peggioramento».
«(…) tutto questo obbliga la chiesa – continua Sudar – a farsi segno di contraddizione e ad unire la sua voce a tutte quelle che gridano la pace anche nelle condizioni che, a prima vista, postulerebbero la guerra… Occorre applicare letteralmente il monito di Cristo rivolto a Pietro che con la spada voleva proteggere la vita del giusto e dell’innocente: … basta così! (Lc.22,5). Oggi l’unica scelta della chiesa è la nonviolenza, perché questa è l’unica strada, magari lunga e sofferente, alla pace che viene garantita dalla giustizia».

COMANDI, DON MARIANO!

Nassiriya, natale 2003. Nella base italiana di Nassiriya (An Nassiryiah, nella dizione locale) l’inverno picchia duro ed al freddo si sommano la paura e la nostalgia per una casa lontana. Molti soldati cercano conforto in Cristo, in quella chiesa che non abbandona nessuno e che, in questo sperduto angolo di deserto iracheno, è rappresentata da don Mariano.
Don Mariano è un bell’uomo dallo sguardo fiero ed il fisico scattante. Appuntata sul petto ha una croce al posto del grado da capitano che potrebbe mettere. Forse fra tutti quelli che ho conosciuto è l’ufficiale più ruvido e netto.
È il cappellano militare della Brigata Sassari ovvero il fulcro del contingente militare italiano che da diversi mesi opera a Nassiriya, nel sud dell’Iraq.

«Noi siamo qui per difendere e non per offendere», mi dice un giorno durante un’intervista.
«E la pace va difesa anche con le armi in pugno come stanno facendo questi soldati. Perché dovremmo andare via? Ci sono stati dei morti che hanno versato il sangue per la patria e noi cosa dovremmo fare per onorarli? Scappare? Andare via?».
Domando: cosa risponde a quei settori della chiesa cattolica che si oppongono a questa guerra e alla conseguente occupazione militare? Non l’avessi mai chiesto, don Mariano mi fulmina con le parole e con lo sguardo: «Noi italiani non siamo in guerra con nessuno e soprattutto non siamo una forza di occupazione, questo deve essere ben chiaro. Noi siamo operatori di pace. A quei settori della chiesa che vogliono la pace a tutti i costi non so cosa dire, forse che sono lontani dal mondo reale quello che c’è qui a Nassiriya…».
Cosa pensa dei pacifisti?, insisto. «Ho un senso di nausea quando vedo certe manifestazioni… Ognuno poi è libero di pensare un po’ quello che vuole, anche mio fratello è un pacifista ed io non posso certo impedirglielo. Ma quando vedo certi personaggi… Ho sentito che ultimamente alcune Ong che avevano tanto criticato l’intervento armato hanno chiesto una scorta armata per entrare nel paese. E io non gli avrei dato un bel nulla! Vi siete opposti alle armi? Siete pacifisti? Allora dovete rifiutare le armi sempre non solo quando vi fa comodo, quando siete a casa vostra comodi comodi. E poi come si chiama quel medico…. milanese?».
Gino Strada?, domando incuriosito. «Ecco quello non lo posso proprio sopportare, da lui non prenderei nemmeno una medicina perché è un assassino!».
Come un assassino? Gino Strada? E perché?, chiedo allibito. «Perché lui con il suo pacifismo voleva tenere in piedi Saddam che era un killer, un dittatore spietato e quindi ne era complice!».
Meglio cambiare discorso… E per natale, don Mariano, cosa farete a mezzanotte? «Faremo la messa nella piazza della base, i carri armati verranno disposti per sembrare una piccola grotta e lì celebreremo il rito della nascita di Gesù».
Vorrei tanto dirgli: «Ma come Gesù, l’uomo della fratellanza e del perdono, lo fate nascere in mezzo a dei carri armati?», ma fedele al mio ruolo non dico nulla, anzi faccio il solito sorrisetto di circostanza e gli auguri di buon natale.
La tenda che funge da chiesa per tutto il campo è accogliente e ben riscaldata anche se piccolina (può contenere al massimo un centinaio di persone).
Conclude don Mariano: «Molti ragazzi stanno riscoprendo la fede proprio in questo frangente, in questa situazione di pericolo e lontananza dagli affetti di casa. Io sono qui per questo, per aiutare le anime di questi uomini che sono disposti a sacrificarsi per il bene comune».

Fuori dalla tenda è buio assoluto. La base, oscurata nella notte per motivi di sicurezza, è situata in mezzo al deserto iracheno.
Alcuni soldati, finita la messa di mezzanotte, imbracciano il fucile ed escono di pattuglia. Don Mariano li ha appena benedetti. Don Mariano ha appena detto loro che quel fucile è uno strumento di pace.

Renato Sacco




GUATEMALA – L’ingiustizia non è un mondo divino

… ma dipende dall’uomo. Nel paese centroamericano poche famiglie detengono l’intero potere economico; poche famiglie posseggono quasi tutte le terre fertili; la corruzione e il crimine organizzato imperversano. Il ruolo delle sètte
evangeliche statunitensi è rilevante. Riuscirà il neo-presidente Oscar Berger
a portare un minimo di giustizia a sette anni dalla firma della pace?
Ne abbiamo parlato con padre Rigoberto Pérez Garrido, un prete di frontiera,
che per contribuire a portare pace e giustizia nel suo paese da anni rischia la vita.

Stringe il registratore tra le mani, quasi per «inchiodarvi» i pensieri. Parla a voce bassa, ma le sue parole sono pesanti e lasciano poco spazio all’immaginazione. Folti capelli neri e baffetti, Rigoberto Pérez Garrido è un sacerdote guatemalteco di 37 anni.
Ordinato sacerdote nel 1994, da cinque anni Rigoberto è parroco a Santa Maria de Nebaj, nel Quiché, una provincia ad altissima presenza maya. «Sono parroco in una parrocchia di gente maya – ci spiega -, ma io non sono un indigeno. Questo però non è mai stato un problema: con la gente ho un rapporto straordinario».

TRA FOSSE COMUNI
E CIMITERI CLANDESTINI
Rigoberto è una figura conosciuta, perché ha collaborato moltissimo con monsignor Gerardi. È stato il responsabile per la diocesi del Quiché del progetto Remhi per il recupero della memoria storica ed ha cornordinato l’azione degli agenti della pastorale, religiosi e laici, che dovevano raccogliere le testimonianze delle persone. Quando, nel gennaio del 2000, arrivò a Nebaj, padre Rigoberto iniziò ad aiutare le persone che volevano recuperare i resti dei desaparecidos, che i militari avevano buttato in fosse comuni o in cimiteri clandestini. La gente del luogo sapeva, ma non aveva mai osato fare qualcosa. Fu aiutata da padre Rigoberto, che per questo suo attivismo si attirò addosso attenzioni molto pericolose.
Una notte del febbraio 2002 gli incendiarono la casa parrocchiale, sperando di eliminarlo. Per sua fortuna, si trovava a Santa Cruz del Quiché. «Mi fu offerta una protezione – racconta il sacerdote -, ma io la rifiutai dicendo che la cosa migliore era continuare a fare quello che stavo facendo. Ho potuto contare sull’affetto di tutti, sulle loro preghiere, sul loro esempio, sulle loro testimonianze. Questo mi ha molto rallegrato».
Le minacce di morte continuarono e continuano tuttora tanto che il suo caso è stato preso in carico anche da Amnesty Inteational.
«Con l’assassinio di monsignor Gerardi – continua il sacerdote -, il paese è ripiombato in quelle tenebre che si credevano superate a partire dalla firma degli accordi di pace. Si sono riattivate tutte le strutture che, per 36 anni, avevano generato morte e sofferenze indicibili, strutture collegate agli ambienti politici ed economici. Con il governo del Fronte repubblicano guatemalteco (Frg) si è intensificato l’accanimento contro i difensori dei diritti umani e le persone impegnate nel processo di trasformazione. Per sostenere il potere, sono riapparsi anche i gruppi paramilitari che, in Guatemala, si chiamano Pattuglie di autodifesa civile (Pac). La scorsa estate, poco prima delle elezioni, migliaia di ex patrulleros sono calati in capitale per intimidire gli avversari di Rios Montt».

IL PERDONO,
MA ANCHE LA GIUSTIZIA
Il Guatemala ha una percentuale di popolazione indigena del 60% o più. E gli indigeni furono la popolazione più colpita durante il conflitto armato.
Perché? Che successe in quei 36 anni di conflitto? Chi furono i responsabili? Chi le vittime?
Presto ci si accorse che, per costruire un paese diverso, occorreva dar vita ad un processo di chiarimento storico. Era un’operazione ad alto rischio. Monsignor Gerardi sosteneva che era doloroso affrontare la realtà, ma che, d’altra parte, era un’azione necessaria e liberatrice: per poter superare il passato, era necessario conoscere e da questa conoscenza si poteva partire per costruire il futuro.
I collaboratori del progetto Remhi hanno potuto documentare 422 massacri, di questi 263 (ben 234 ad opera dell’esercito e dei paramilitari) vennero commessi nel Quiché e di questi decine a Nebaj, la zona dove opera anche padre Rigoberto.
«Nella regione del Quiché – spiega il sacerdote – il piano diocesano ha avuto come prioritaria la riconciliazione, che però può scaturire soltanto dalla verità, dal perdono e dalla giustizia. Posso testimoniare che il perdono c’è stato. Io stesso ho celebrato messe di commemorazione di massacri e i familiari (gente che perse i propri cari o che venne torturata) sono riusciti a perdonare: è una grande qualità della popolazione guatemalteca, incredibile ed impressionante».
«Purtroppo, sulle responsabilità e quindi sulla giustizia, il problema rimane aperto: ci sono casi di pentimento ai livelli più bassi, ma non a quelli più alti. Qui la porta è rimasta chiusa; mi riferisco ai livelli intellettuali e di comando, da dove cioè partirono gli ordini per distruggere la popolazione del Guatemala».
«Ciò che la società guatemalteca ad alta voce ha chiesto e chiede non è vendetta (ché altrimenti il paese sarebbe precipitato nuovamente in una spirale di violenza incontrollabile). Le vittime chiedono però che i responsabili riconoscano le loro colpe e diano segni concreti di pentimento, contribuendo anche a risarcire i danni causati. Su questa linea si muovono alcune associazioni per la difesa dei diritti umani, che stanno promuovendo processi contro i responsabili dei crimini. La società guatemalteca valuta positivamente queste iniziative, sebbene sia molto scettica a causa dell’alto grado di impunità che c’è nel paese».
La conclusione di padre Rigoberto è in perfetta coerenza con il suo ragionamento: «Noi speriamo che, alla fine di tutto questo, possa sorgere una nuova società, un nuovo Guatemala con più vita per tutti, compresi coloro che hanno commesso i crimini: anche loro hanno diritto a vivere la grazia di Dio».
Milioni di esistenze sono state segnate dalle vicende della guerra: per loro ricominciare una vita normale è un’impresa.
Padre Rigoberto lo sa: «Il dopoguerra presenta nuove sfide considerando tutte le indelebili sofferenze patite dalla popolazione. Perché, dopo un conflitto, restano gli scomparsi, gli orfani, le vedove, le comunità distrutte e disarticolate; restano i cimiteri clandestini e i genitori che cercano i propri figli; restano il dolore, la paura, i traumi. Nel dopoguerra bisogna occuparsi di tutte queste realtà, delle loro cause e delle loro possibili soluzioni».

IL MIRAGGIO
DELLA RIDISTRIBUZIONE
Da gennaio di quest’anno in Guatemala c’è un nuovo presidente e un nuovo partito di maggioranza. Cambierà qualcosa? «L’importante – spiega il padre – è stata la sconfitta di Rios Montt e del Frg, responsabili dei maggiori crimini nei 36 anni della guerra civile e di un governo fondato sulla corruzione».
Il partito del neo-presidente (Gran alianza nacional, Gana) è nato dalla nomenclatura economica del paese, cioè dagli industriali, nonché da politici e da militari che sono riusciti a darsi una patina di rispettabilità. Ma anche tra le sue fila si celano responsabili di crimini, come ammette amaramente padre Rigoberto: «I partiti credono che senza gli espertos en matar nessun governo potrà stare a lungo al potere».
Dicevamo che Gana ha avuto l’appoggio degli imprenditori. Questo potrebbe essere un piccolo vantaggio, se si considera che il problema economico è un’assoluta priorità. La povertà raggiunge livelli elevatissimi, in particolare nelle aree rurali e nelle periferie delle città.
La disoccupazione è molto alta e lo stato non svolge i propri compiti, soprattutto nei servizi primari. «È vergognoso – sbotta il sacerdote – che si spendano più soldi per il bilancio militare che per quello della salute e dell’educazione».
In quanto a capo di una coalizione di destra, difficilmente il presidente Berger intraprenderà una politica di ridistribuzione del reddito. L’analisi del padre guatemalteco è lucida e rigorosa.
«Il problema economico – spiega – ha radice in un sistema che concentra la ricchezza in poche, anzi in pochissime mani (en muy, pero muy pocos manos), creando diseguaglianze abissali. Il potere è detenuto da un ristretto gruppo di famiglie guatemalteche e alcune straniere residenti nel paese. Un’altra fetta dell’economia è appannaggio delle multinazionali. A queste si debbono, ad esempio, gli altissimi prezzi dei combustibili e dei medicinali».
Insomma, anche a guerra finita, la maggioranza dei guatemaltechi continua a vivere in condizioni disumane. E, come sempre accade, questa povertà colpisce soprattutto la parte più debole (ancorché maggioritaria) della società, gli indigeni.
La discriminazione risalta in tutta la sua evidenza nell’agricoltura, che è il settore economico a cui fa riferimento la maggioranza della popolazione guatemalteca.

LA TERRA,
UN PROBLEMA TABÙ
A partire dal 1800 si diffusero in Guatemala le monocolture da esportazione: prima il caffè, poi il banano. Con le banane arrivò in Guatemala la multinazionale «United Fruit Company», oggi nota come Chiquita. La compagnia nordamericana divenne talmente potente da condizionare la vita del paese. L’esempio più clamoroso si verificò nel periodo 1951-’54. All’epoca, il governo del presidente Jacobo Arbenz varò la prima riforma agraria nella storia del Guatemala. La United, sentendosi colpita nei propri interessi, informò del problema la Cia e l’amministrazione di Washington. Venne così organizzato un esercito, che entrò nel paese e rovesciò il legittimo governo di Arbenz.
Oggi le multinazionali nordamericane continuano a monopolizzare (come in tutti i paesi dell’area) il mercato delle banane, con comportamenti e politiche certamente poco rispettosi dei lavoratori, dell’ambiente e dell’etica.
L’altro pilastro dell’agricoltura del Guatemala è il caffè. Negli ultimi anni, il settore ha sofferto enormemente, a causa del crollo del prezzo sul mercato internazionale. Molti latifondisti hanno scaricato la riduzione degli introiti sugli stagionali, già ampiamente sfruttati. Alcuni proprietari hanno addirittura deciso di non fare la raccolta.
Tuttavia, per i contadini guatemaltechi, come per gran parte dei contadini dell’America Latina (e del mondo), il problema fondamentale è un altro: la proprietà della terra.
Secondo dati attendibili, in Guatemala l’85% della terra è in mano al 10% della popolazione. «È tremendo, lo so», ammette con sconforto padre Rigoberto.
Dopo gli accordi di pace, si è tentato qualcosa, ma i latifondisti hanno attaccato chi lottava per avere un pezzo di terra e coloro che appoggiavano queste rivendicazioni. Ci sono state molte minacce di morte, anche al vescovo Ramazzini, che si occupa di queste problematiche.
Si è tentata anche la strada dell’acquisto della terra per i contadini. Ma il risultato è stato l’incremento dei prezzi fino a 10 volte.
«Purtroppo, nel mio paese – conclude amaro Rigoberto – la questione della terra continua ad essere un tabù».
Difficile che la soluzione del problema sia nell’agenda di Oscar Berger, l’uomo che dallo scorso gennaio ha in mano le sorti del Guatemala. A sette anni dalla «pace».

(Fine – la prima parte
è stata pubblicata su MC di febbraio)

La chiesa cattolica e le sette evangeliche
Durante gli anni della guerra civile, la chiesa cattolica fu duramente perseguitata: migliaia di catechisti, dirigenti delle comunità cristiane, agenti pastorali, sacerdoti furono assassinati. Nonostante l’altissimo prezzo pagato, le diocesi continuarono ad emanare documenti che denunciavano le vessazioni contro la popolazione. Così come faceva la Conferenza episcopale.
Chiediamo a padre Rigoberto se l’attuale gerarchia della chiesa cattolica guatemalteca abbia proseguito sulla strada segnata da monsignor Gerardi, anche dopo il suo assassinio.
«Io vivo tra la gente e non nei palazzi – si scheisce -. Certo, la chiesa si è fatta dei nemici, soprattutto nel potere economico e in quello militare. Tuttavia, mi sembra che in questo ultimo periodo sia diventata un po’ silenziosa rispetto a prima, quando era guidata da Prospero Penados del Barrio, che fu praticamente annientato. Oggi è in pensione, perché molto malato; io lo definirei un martire vivente, che continua ad essere molto amato dalla gente».
Attualmente, la carica di arcivescovo primate e quella di presidente della Conferenza episcopale sono concentrate in una sola persona, l’arcivescovo Rodolfo Quezada Toruño. «Forse – chiosa il sacerdote – c’è troppo potere concentrato in una persona sola».
Abbiamo già spiegato (si veda MC di febbraio) in che modo il generale Rios Montt abbia utilizzato le sètte evangeliche. «Le sètte – racconta Rigoberto – entrarono nel paese nel 1891, quando governava il generale Justo Rufino Barrios. Venivano dagli Stati Uniti su impulso delle famiglie più potenti, interessate a trasformare i paesi dell’America Latina in luoghi ideali per lo sfruttamento. Il loro imperativo era: dividi e vincerai. Si moltiplicarono enormemente durante gli anni di maggiore violenza politica, cioè a partire dal 1980. È inutile fare nomi, dato che esistono più di 4.000 denominazioni differenti».
È durissimo il giudizio di padre Rigoberto. «Le sètte – dice – utilizzano la religione per contrastare la forza profetica della chiesa cattolica e per giustificare i crimini commessi durante il conflitto armato; oggi, invece, vorrebbero perpetuare quel sistema che tanti danni ha prodotto nel passato. Io credo che il compito fondamentale delle sètte sia di produrre inganno e confusione tra la gente e, soprattutto, anestetizzarla davanti alla realtà. Purtroppo, la religione mal utilizzata può diventare uno strumento molto utile per il dominio delle coscienze e quindi delle persone».
Pa.Mo.

Rigoberta Menchú Tum: aiutare Berger?

Il Guatemala è conosciuto in Italia soprattutto per merito di Rigoberta Menchú Tum (*). L’india maya riuscì a rompere il muro di silenzio che gravava sul suo paese grazie al libro Mi chiamo Rigoberta Menchú e poi alla campagna per assegnarle il Nobel per la pace. Il conferimento del prestigioso premio certamente diede la possibilità al suo paese di essere conosciuto in tutto il mondo. Tuttavia, come spesso capita, nemo propheta in patria: Rigoberta, in Guatemala, non è amata.
Spiega Maria Rosa Padovani del «Comitato di solidarietà» di Torino: «Periodicamente, si lanciano contro Rigoberta campagne denigratorie, accusandola di vivere nel lusso, di essere sempre in giro per il mondo, campagne orchestrate dai poteri che continuano ad essere presenti e operanti in Guatemala. Tra il popolo c’è chi la ama, c’è chi non la conosce e c’è chi si lascia influenzare dalle campagne».
Rigoberta da alcuni anni vive in Messico per le minacce che continuamente riceve». Ma nel suo paese ha messo in piedi la «Fondazione Rigoberta Menchú», che lavora soprattutto nel campo dei diritti umani e nella promozione dei diritti degli indigeni. C’è una sede della fondazione anche in Messico ed una più piccola a New York per via della sua collaborazione con l’Onu. Rigoberta lavora molto a livello di istituzioni inteazionali, soprattutto per le popolazioni indigene ed è tuttora ambasciatrice di buona volontà dell’Unesco. Va sempre in giro per il mondo, partecipando a moltissime iniziative. «Noi – spiega convinta Maria Rosa – la conosciamo bene. Abbiamo visto la semplicità con cui vive in Messico in una piccolissima casa dietro la Fondazione, con suo marito e con il figlio adottivo. Sappiamo che Rigoberta è sempre Rigoberta. Certo, il suo ruolo è cambiato: non può più venire quando un gruppo di solidarietà la chiama, perché ha un’agenda pienissima e ha anche bisogno di ricercare finanziamenti per i progetti della sua Fondazione. Quindi, il suo ruolo è cambiato. Forse in Guatemala c’erano più aspettative nel senso che si pensava che lei avrebbe lavorato solo a favore del suo paese, ma Rigoberta, come premio Nobel, si considera un po’ al servizio delle cause di tutte le popolazioni indigene del mondo, non soltanto di quelle del Guatemala».
Nel paese centroamericano la percentuale dei votanti è molto bassa, attorno al 30-35%. Questo avviene anche perché bisogna iscriversi alle liste elettorali e l’iscrizione si fa nel luogo dove si è nati. «Tutto ciò – spiega padre Rigoberto – costa: troppo, per gente già poverissima. Senza dimenticare che bisogna avere i documenti di identità che moltissimi, anzi la maggior parte, non hanno, soprattutto nelle zone rurali. E allora una delle campagne promosse dalla Fondazione Menchú è proprio questa: aiutare la gente a partecipare alla vita pubblica e civile del paese».

A fine dicembre, appena eletto presidente, Oscar Berger ha offerto un posto nel suo governo a Rigoberta Menchú. Tra conferme e smentite, la premio Nobel ha tentennato a lungo, accettando alla fine il ruolo di «ambasciatrice di buona volontà degli accordi di pace».
Un ruolo aleatorio per una scommessa comunque rischiosa: potrà Rigoberta aiutare il suo popolo attraverso il governo del conservatore Berger senza rimanee «bruciata»?
Pa.Mo.

(*) Si veda: «Incontro con Rigoberta Menchú Tum», di Marco Bello e Paolo Moiola, su Missioni Consolata n.5 del maggio 1996.

Paolo Moiola




L’energia e un modello senza futuro

Che accadrebbe se domani le nazioni del Sud volessero consumare come quelle del Nord? Come mai le guerre «giuste» riguardano sempre paesi importanti dal punto di vista delle risorse energetiche? L’attuale modello di sviluppo non ha futuro: le risorse sono in via di esaurimento, i danni ambientali sono sempre più consistenti (inquinamento, effetto serra, ecc.). Ma non basta passare alle energie rinnovabili. Occorre cambiare i nostri stili di vita. Quotidianamente. (Seconda parte)

«La Danimarca esporta migliaia di tonnellate di biscotti per gli Stati Uniti, gli Stati Uniti esportano migliaia di tonnellate di biscotti in Danimarca. E uno dice: “ma saranno diversi”. Sì, e allora? Perché non si scambiano la ricetta?! E allora, un po’ di buonsenso, questo, questo vorrei vedere…».
Sono le esilaranti parole di Beppe Grillo durante uno dei suoi spettacoli (1), quando con ironia, anche feroce, riesce a comunicare dure verità. Una di queste è che la richiesta mondiale di energia (per usi industriali, domestici e per i trasporti) è in costante aumento e, di conseguenza, è sempre maggiore l’utilizzo di risorse per la sua produzione. Se le nazioni industrializzate continueranno a prelevare e consumare i combustibili fossili al ritmo attuale e se le nazioni in via di sviluppo le imiteranno, nel breve e medio periodo il pericolo maggiore non sarà tanto quello dell’esaurimento delle risorse (che rimane comunque un fattore importante), quanto quello dei danni irreversibili all’ambiente e, di conseguenza, alla salute umana.
Secondo i dati dell’Inteational energy agency (Iea), in 27 anni, dal 1971 al 1997, l’aumento di produzione è stato del 40% per il petrolio, del 60% per il carbone, del 140% per il gas naturale ed è quasi triplicato per l’energia elettrica in generale. In Italia i consumi finali di energia sono in crescita significativa (2).

GLI IMPATTI AMBIENTALI
DEI COMBUSTIBILI FOSSILI
L’analisi degli impatti ambientali della produzione e del consumo dell’energia va affrontata considerando tutto il ciclo della fonte energetica: dalla sua estrazione, all’energia prodotta negli utilizzi intermedi e finali, fino allo smaltimento dell’energia degradata e delle scorie.
Per quanto riguarda i combustibili fossili per la produzione di energia (carbone, petrolio, gas naturale) si possono individuare 2 grandi categorie di impatto: impatti a livello locale (nell’acqua, nell’aria, nel suolo) e impatti su scala planetaria. L’estrazione di combustibile (fossile, ma anche nucleare) causa infatti varie forme di inquinamento idrico, dovute ad esempio a perdite di petrolio, al raffreddamento degli impianti termoelettrici, alla fuoriuscita di inquinanti radioattivi del ciclo nucleare; in generale, qualsiasi processo energetico richiede quantità d’acqua anche notevoli, che vengono prelevate a scapito di altri usi (es. uso potabile o agricolo).
In atmosfera, invece, vengono immessi i prodotti gassosi della combustione (anidride carbonica, ossidi di azoto, ossidi di zolfo), idrocarburi aromatici, metalli pesanti, polveri, elementi radioattivi. Infine, oltre ai rifiuti prodotti, per i quali va cercata una qualche destinazione, qualsiasi fase del ciclo del combustibile implica un’occupazione di territorio sottratto ad altri utilizzi (es. all’uso agricolo, forestale, ecc.). Nel caso di miniere a cielo aperto (carbone e uranio), le scorie prodotte possono rendere inutilizzabile il suolo anche per decenni. Spesso, inoltre, i giacimenti si trovano all’interno di foreste o aree selvagge: l’esigenza di costruire strade di accesso e impianti può quindi trasformarsi in causa di deforestazione.
L’impatto ambientale non è mai slegato da quello sociale: spesso i siti di estrazione sono all’interno di foreste abitate da popoli indigeni e diventano causa di inquinamento e distruzione del territorio su cui essi vivono, se non di vero e proprio sfollamento di intere popolazioni.
A livello planetario, invece, desta preoccupazione l’immissione nell’atmosfera di anidride solforosa, derivante essenzialmente dalla combustione di prodotti petroliferi e di carbone, da cui deriva il fenomeno delle piogge acide: esse hanno effetti negativi sulla salute umana, corrodono la vegetazione, edifici e monumenti, ed inquinano le acque di laghi e fiumi.
Il problema più urgente e preoccupante è però rappresentato dal potenziale cambiamento del clima a livello mondiale, fenomeno dovuto all’effetto serra e la cui causa principale risiede nell’aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera.

L’EFFETTO SERRA
E IL CAMBIAMENTO CLIMATICO
La Commissione scientifica intergovernativa sui cambiamenti climatici (Ipcc), costituita da alcune centinaia di scienziati, è stata istituita nel 1988 proprio per valutare le informazioni scientifiche disponibili sui mutamenti del clima. L’aumento di anidride carbonica nell’atmosfera, causato soprattutto dagli impianti di produzione di energia, concorre al graduale aumento dell’effetto serra.
Come è noto, questo fenomeno comporta il riscaldamento del pianeta e possibili cambiamenti del clima, con effetti differenti: riduzione delle risorse idriche e desertificazione in alcune regioni; crescita delle piogge, degli uragani e delle inondazioni in altre; scioglimento dei ghiacciai, aumento del livello del mare, rischio di diffusione di malattie infettive tipiche delle zone tropicali anche nelle regioni temperate, ecc.; tutti rischi dai quali l’Italia non è certo esente.
Secondo Lester Brown, presidente del Worldwatch Institute di Washington, la stabilità climatica va ripristinata tramite il passaggio da un sistema economico basato sull’energia derivata dallo sfruttamento dei combustibili fossili ad una basata sulle fonti energetiche rinnovabili e sull’idrogeno.
Tuttavia, anche le fonti rinnovabili presentano un impatto ambientale, variabile in modo significativo a seconda della fonte e della tecnologia, anche se nettamente inferiore agli impatti dei combustibili fossili.
ESISTONO FONTI «PULITE»?
Qualche esempio: occupazione del territorio (ad esempio da parte di pannelli solari) a scapito di altri usi (es. agricoli); impatto visivo e inquinamento acustico della produzione di energia eolica, che tra l’altro può essere prodotta soltanto in zone dove soffiano venti con una determinata velocità; deforestazione, desertificazione e possibile produzione di emissioni inquinanti legate alla produzione di biomassa a scopi energetici; modifiche del territorio, dell’assetto idrogeologico, della stabilità dei territori montani e del clima locale, nel caso di sfruttamento dell’energia idrica, specie dove ciò comporti la costruzione di grandi laghi artificiali. Senza contare che scarseggiano i luoghi dove costruire nuove dighe, mentre cresce l’opposizione delle popolazioni che vivono nei pressi.
Per quanto riguarda il nucleare, i rischi sono legati all’impatto radiologico, alla sicurezza di alcune fasi del processo (in particolare la sicurezza del reattore nucleare), al trattamento e messa in sicurezza delle scorie radioattive.
Ogni tecnologia va quindi analizzata non solo dal punto di vista delle emissioni, ma in base agli impatti che possono derivare da qualsiasi fase, dalla progettazione allo smaltimento. Ad esempio, le cosiddette «celle a combustibile» non producono praticamente emissioni, ma la produzione dell’idrogeno necessario al loro funzionamento avviene tramite metano, che dà origine a sottoprodotti da reimpiegare in qualche modo.
A conti fatti, non esiste un sistema di produzione di energia privo di conseguenze sull’ambiente e sulla popolazione. Il termine energie «rinnovabili» non coincide con «pulite», come invece spesso viene fatto credere. L’imperativo dovrebbe consistere nel ridurre innanzitutto lo sfruttamento e l’utilizzo delle fonti energetiche, rinnovabili e non: l’energia più pulita è quella non prodotta. Pertanto, «il futuro è nelle energie pulite», frase tanto amata da media, politici e cittadini, va intesa diversamente dall’usuale.

LA SOLUZIONE È DAVVERO
NELLE FONTI RINNOVABILI?
Dopo aver ridotto gli sprechi ed i consumi energetici, lo sforzo maggiore dovrebbe essere rivolto alla produzione di energia tramite le fonti rinnovabili: il sole, il vento, la biomassa, ecc. (vedi MC, febbraio 2004). Oltre ad avere un impatto ambientale inferiore, tali fonti sono distribuite, anche se con densità diverse, su tutto il globo.
Tuttavia, in Italia, nel 2002 l’offerta complessiva di fonti rinnovabili si è ridotta di oltre il 10%, a causa della diminuzione della produzione idroelettrica, che rappresenta la principale fonte rinnovabile del paese. Questa minore produzione è conseguente alle scarse precipitazioni registrate da gennaio a ottobre 2002, fatto che conferma tra l’altro come tutti gli aspetti ambientali siano tra loro strettamente connessi.
Le fonti rinnovabili possono quindi fornire un importante contributo allo sviluppo di un sistema energetico più sostenibile e alla tutela dell’ambiente, ma anche ad incrementare il livello di consapevolezza e partecipazione dei cittadini, nonché a fornire opportunità economiche. Tuttavia, è fondamentale considerare che la nostra civiltà è oggi basata sul petrolio, perché esso rappresenta una fonte energetica versatile, applicabile agli usi più diversi. I combustibili fossili, ad esempio, permettono il funzionamento di tutta una serie di oggetti che non potrebbero lavorare ad elettricità, basti pensare al settore dei trasporti. Inoltre, consentono potenze (la potenza è l’energia nell’unità di tempo) relativamente alte e concentrate in uno spazio sufficientemente piccolo. Tutto il sistema energetico si basa sulle grandi potenze, adatte ad alimentare grandissimi insediamenti urbani ed enormi impianti di produzione industriale concentrati in determinati luoghi.
Le energie rinnovabili, invece, basti pensare al solare e all’eolico, foiscono potenze basse e diffuse sul territorio, permettendo di produrre energia su piccola scala, con impianti di produzione e di utilizzo di piccola taglia, a bassa potenza. Quindi, in realtà, l’energia rinnovabile non può sostituire immediatamente i combustibili fossili, ma solo quando cambierà il nostro modello di sviluppo e quindi il nostro stile di vita (3).
Come sarebbe il nostro stile di vita se potessimo disporre di una quantità di energia pari alla decima parte di quella attuale? Il 70% della popolazione mondiale, che vive nei paesi in via di sviluppo, usa solo il 30% dei consumi globali di energia. Esistono tuttavia forti differenze anche tra i paesi ricchi: ad esempio, per produrre un’unità di prodotto interno lordo, Usa e Canada utilizzano il doppio dell’energia consumata da Francia, Giappone, Italia.

GUERRE «GIUSTE»?
SÌ, SE C’È L’ENERGIA…
La caratteristica delle fonti rinnovabili di essere distribuite su tutto il pianeta e di essere quindi disponibili direttamente dalla popolazione che deve utilizzare l’energia, scongiurerebbe i rischi derivanti dai combustibili fossili, localizzati in particolari zone geografiche del pianeta: secondo molti addetti ai lavori, tale rischio si manifesta con l’attuale concetto di «guerra giusta».
La distribuzione mondiale delle riserve accertate di petrolio indica infatti una forte concentrazione nel Medio Oriente (oltre il 66,5% delle riserve), in Asia, Africa, Comunità di stati indipendenti (Csi, comprende parte dell’ex Unione Sovietica, ndr) mentre quelle europee ed americane sono più modeste. Le riserve accertate di gas naturale sono localizzate per il 30,4% nei paesi mediorientali, per il 38,3% nella Csi e per il 7% nel Nord America. Il fatto che i 2/3 delle riserve conosciute di petrolio siano concentrate nel sottosuolo di Arabia Saudita, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Iran, fa sì che la regione rappresenti una zona strategica prioritaria per l’Occidente, e in particolare per gli Stati Uniti. Come riporta Ritt Goldstein, la paura di non poter effettivamente disporre di tanta energia quanta ne serve per mantenere inalterato il proprio stile di vita sembra innescare la necessità di accedere al petrolio, prospettando anche «la necessità di interventi militari», esigenza evidenziata in un rapporto americano dell’inizio del 2001 (5).
Secondo Luigi Sertorio, poiché l’energia fossile non è perenne, né equamente distribuita, si crea un nuovo concetto di «guerra giusta»: «La guerra non è per il sopruso locale territoriale, ma per il diritto al benessere di chi ha la capacità tecnologica di accedere alla sorgente del denaro, cioè l’energia» (6).
È impressionante notare quante guerre siano state combattute nel Novecento in aree ricche di fonti energetiche: dalle grandi battaglie dell’Africa settentrionale a quelle rumene, all’infinità dei conflitti in Medio Oriente, passando per i Balcani e culminando con il terrorismo in Cecenia e le guerre contro l’Iraq (7). Anche se le ragioni ufficiali sono differenti, è evidente che le aree interessate a questi conflitti coincidono perfettamente con le zone ricche di petrolio. Come ricorda anche Michele Paolini nel suo ultimo libro (8), il petrolio non è infatti solo estrazione: strategico è anche il controllo degli oleodotti e dei corridoi petroliferi.
Poiché il nostro stile di vita è assolutamente dipendente dalla disponibilità di energia, si potrebbe pensare che qualsiasi forma di energia potrebbe rappresentare motivo di scontro. Tuttavia, il fatto che il petrolio si trovi concentrato in particolari aree geografiche e che sia destinato all’esaurimento accresce enormemente questi rischi (9).
DALLA THAILANDIA
A SCANZANO IONICO
Per 8 anni la popolazione della provincia di Prachuap Khiri Kan, in Thailandia, si è battuta contro il progetto di costruire nella regione due grandi centrali elettriche a carbone, per timore dei loro possibili impatti sull’ambiente e sulla salute dell’uomo. Quando il premier thailandese visitò uno dei possibili siti nel gennaio 2002, fu accolto da 20.000 dimostranti. Con l’aiuto dell’organizzazione ambientalista Greenpeace, gli abitanti della provincia hanno cominciato a installare ciò che realmente desiderano: impianti per la produzione di energia solare ed eolica (10).
Possono essere molti gli esempi di situazioni nelle quali la popolazione locale si oppone a scelte di governo ritenute non sostenibili. Come dimenticare la folla umana che a Scanzano Ionico, nel novembre 2003, ha dimostrato contro la costruzione dell’impianto di stoccaggio delle scorie radioattive?
Tuttavia, se esprimere il proprio dissenso, tramite un referendum o azioni dimostrative nonviolente, è lecito ed opportuno, altrettanto importante è anche agire coerentemente nella propria quotidianità.

LA RESPONSABILITÀ
DELLE SINGOLE FAMIGLIE
Le famiglie italiane sono responsabili annualmente di più del 30% dei consumi energetici totali. Le famiglie producono il 27% (e precisamente: il 18% per usi negli edifici e il 9% per usi di trasporto) delle emissioni nazionali di gas serra. Nel settore domestico il consumo riguarda il riscaldamento delle abitazioni e degli ambienti di lavoro, l’illuminazione, l’uso degli elettrodomestici. Secondo recenti studi, una famiglia media italiana potrebbe risparmiare, senza fare rinunce, ma semplicemente usando meno l’energia, il 40% delle spese per il riscaldamento e il 10% per gli elettrodomestici (vedi box).
Nel settore trasporti il risparmio energetico si basa, ad esempio, sulla riduzione dei consumi dei singoli mezzi su strada e sul potenziamento del trasporto collettivo, senza dimenticare che una riduzione della velocità, sia per il trasporto terrestre sia aereo, comporta risparmi consistenti. Il settore agricolo può vantare consumi energetici inferiori a causa del modesto sviluppo tecnologico del settore.
Per il settore industriale, invece, ridurre i consumi energetici potrebbe anche voler dire ridurre i costi; tuttavia, ancora oggi i costi di produzione sono tagliati sostituendo il lavoro umano con nuove tecnologie, che spesso richiedono più energia delle precedenti.
Da non dimenticare che i consumi energetici nel settore industriale comprendono anche gli utilizzi per l’attività bellica (costruzione degli armamenti, funzionamento e logistica della «macchina» bellica). In un interessante articolo Luca Mercalli (11) riprende i calcoli di Luigi Sertorio sui consumi energetici del conflitto iracheno: in ogni giorno di guerra si consuma tanto carburante da fare il pieno a 1.125.000 autovetture, quantità che provoca un’emissione annua di anidride carbonica equivalente a quella di circa 11.500 persone, quantità che «vanifica in pochi giorni gli sforzi di intere nazioni per ridurre i consumi e risparmiare energia, alla faccia del Protocollo di Kyoto».

SE IL «FRESCO» PRIVATO
È PAGATO DAL PUBBLICO
Andrea Fasullo, responsabile del settore clima ed energia del Wwf Italia, ha dichiarato che «un’economia matura è quella che a parità di benefici usa la minor quantità possibile di energia; al contrario, l’ossessione di soddisfare sempre e comunque la crescita dei consumi crea inevitabilmente circoli viziosi del tipo “fa caldo, aumentano i condizionatori, serve più elettricità”, producendo esattamente le condizioni perché i blackout avvengano».
A proposito dei condizionatori, causa di grandi consumi elettrici e conseguenti emissioni di gas serra, Adriano Paolella (12) offre un’importante riflessione, estendibile anche ad innumerevoli altre situazioni: «Il condizionatore è un sistema individuale per avere fresco, ma è anche la soluzione più asociale e di maggior impatto ambientale che si possa mettere in atto. Esso permette di ottenere un fresco privato determinando condizioni di caldo pubblico».
Non servono quindi nuovi impianti, ma la razionalizzazione della rete attuale e un serio programma per le fonti alternative. E, soprattutto, un nuovo modello di sviluppo con minori consumi e un diverso stile di vita da parte di noi tutti.
(seconda parte – fine)
Note:
(1) Le parole sono riprese da quelle dell’economista statunitense Herman Daly, che ribadisce come «Più di metà del commercio mondiale scambia beni identici, che ognuno avrebbe a disposizione anche sul posto».
(2) Fino al livello raggiunto nel 2000 di circa 185,2 Mtep rispetto al 1990 (+14,1%).
(3) Nanni Salio, Politiche globali dell’energia, in corso di stampa
(4) Fonte: Grtn (Gestore Rete Trasmissione Nazionale), www.grtn.it/ita/statistiche/datistatistici.asp.
(5) Si tratta del “Strategic Energy Policy Challanges for the 21st Century”; fonte: Ritt Goldstein, in Azione nonviolenta, aprile 2003.
(6) Luigi Sertorio, Il Potere del Fossile, Edizioni SEB 27, Torino, 2000; Luigi Sertorio è professore associato di Ecofisica alla Facoltà di scienze dell’Università di Torino.
(7) Carlo Bertani, Energia, Natura e Civiltà. Un futuro possibile?, Giunti, 2003.
(8) Michele Paolini, La guerra del petrolio, Editrice Berti, 2003.
(9) Per approfondire, tra gli altri: Michele Paolini, Carlo Bertani, Giulietto Chiesa, Michel Chossudovsky, MC monografico sulle guerre ottobre-novembre 2003.
(10) Worldwatch Institute, State of the World’03, Edizioni Ambiente, Milano 2003.
(11) Luca Mercalli, Clima di guerra: quali sono i costi energetici e ambientali del conflitto iracheno?, Società Meternorologica Italiana, 25 marzo 2003; Luigi Sertorio, Storia dell’abbondanza, Bollati Boringhieri 2002.
(12) Adriano Paolella, Banca del Clima: un progetto per quantificare il risparmio energetico, in Attenzione, rivista del Wwf per l’ambiente e il territorio, n. 20, lug. 2003.

Bibliografia essenziale:
APAT, Annuario dei dati ambientali. Sintesi, Roma 2002
Domenico Filippone, Da onnivori a energivori! L’energia nuovo alimento della specie umana, Itinerari. Sviluppo Sostenibile?, n.5, novembre/dicembre 2001
ENEA, Clima e Cambiamenti Climatici, Roma, dicembre 2002
ENEA, L’energia e i suoi numeri, Italia 2000, Roma, ottobre 2001
ENEA, Noi per lo sviluppo sostenibile, Roma, novembre 1999
Gianfranco Bologna (a cura di), Italia capace di futuro, EMI 2000.
Worldwatch Institute, State of the World’03. Stato del pianeta e sostenibilità-Rapporto annuale, Edizioni Ambiente, Milano 2003

Alcuni siti internet:
www.unfccc.int
www.grtn.it
www.enea.it
www.bancadelclima.it
www.nimbus.it.
www.greenpeace.it
www.wwf.it

Silvia Battaglia