Terrore rosso

Sono rare le interviste rilasciate da Pol Pot;
questa fu concessa nel dicembre 1997, quattro mesi prima di morire. Il «fratello numero uno», come si faceva chiamare l’uomo forte di Phnom Penh, si assume le proprie responsabilità, spiega il suo operato e afferma che lo rifarebbe.

E ro stato varie volte nelle zone occupate dai khmer rossi e ad Anlong Veng, loro quartier generale. Avevo avuto modo di conoscere Khieu Samphan e altri dirigenti del movimento, ma Pol Pot continuava a rimanere inavvicinabile.
Alla metà del 1997 successe qualcosa di decisivo. Nel maggio 1998 erano previste nuove elezioni generali in Cambogia e i khmer rossi, oramai isolati politicamente e finanziariamente, sentivano la necessità di rientrare nella politica nazionale, ma la parte ideologicamente più pura e dura, quella impersonificata da Pol Pot, era assolutamente contraria. L’unica soluzione, per il leader comunista, era la continuazione della lotta armata per raggiungere il potere senza compromessi.
Dalla parte opposta stava la fazione più pragmatica, guidata da Son Sen e Ta Mok, che avevano già avuto contatti con esponenti del Funcinpec (Fronte nazionale unito per una Cambogia indipendente, neutrale, pacifica e cornoperativa), il partito del figlio di Sihanouk, Ranariddh, che dal 1993 divideva il posto di primo ministro con il rivale Hun Sen, presidente del Partito del popolo cambogiano.
Il 4 luglio 1997 Funcinpec e khmer rossi firmarono un documento di alleanza in funzione anti Hun Sen; ma questi, il giorno dopo destituì il co-primo ministro Ranariddh, dando inizio a una cruenta faida tra raggruppamenti rivali.
Infine, il 25 luglio, Pol Pot fu processato dagli stessi compagni e condannato all’ergastolo; il suo posto fu preso da Ta Mok.
In due soli mesi la situazione politica dell’intera regione venne sconvolta, ma Hun Sen aveva calcolato tutto: sapeva bene che non si sarebbe ripetuta la ridda di critiche inteazionali che avevano accompagnato la presa di potere nel gennaio 1979, con l’invasione vietnamita. Né l’Onu, né Washington gli rimproverarono il colpo di stato. Gli Usa si limitavano a controllare che la situazione della regione non degenerasse; non se la sentivano di appoggiare un Ranariddh alleato dei khmer rossi.
L’Asean (Associazione delle nazioni del Sud-Est Asiatico), che, più per forma che per reale condanna, aveva rifiutato l’ammissione cambogiana nell’organizzazione, prevista per la fine di luglio, poteva permettersi di prolungare più di tanto l’estromissione della Cambogia. Il suo peso politico e strategico all’interno dello scacchiere internazionale sarebbe stato mutilato pesantemente proprio nel momento in cui l’economia dei suoi paesi fondatori traballava pericolosamente.
Chi poteva trarre maggior profitto dalla nuova instabilità cambogiana era la Cina, che stava tentando faticosamente di riacquistare peso politico nel continente e di colmare il vuoto lasciato da Washington. Ma aveva altri problemi interni e con i paesi vicini a cui badare.
Da parte sua, tagliando i legami con Taiwan, Phnom Penh cercò di disinnescare ogni tensione con Pechino e, soprattutto, di intercedere presso re Sihanouk, da anni rifugiatosi in Cina: dal monarca, infatti, dipendeva la legittimazione del nuovo regime cambogiano.
L’operazione riuscì: alla fine di agosto Hun Sen poté incontrare Sihanouk, che si disse disponibile a rientrare nel suo regno appena la salute glielo avrebbe permesso.

Q uesta, in breve, è la situazione che mi ha permesso di intervistare Pol Pot: i khmer rossi erano preoccupati per la piega che la situazione aveva assunto dopo il colpo di mano di luglio 1997 e cercavano appoggi inteazionali. Volevano mostrare al mondo intero che l’era di Pol Pot era definitivamente tramontata e che la democratizzazione del movimento era una realtà.
Il Pol Pot che trovai era assai differente dalla figura che mi ero immaginato leggendo i resoconti di coloro che lo avevano conosciuto: era un vecchio, il respiro affannoso, gli occhi spenti, i gesti lenti e attentamente studiati. Una bombola provvedeva ad aiutare a rigenerare l’ossigeno che i polmoni affaticati non riuscivano oramai più a rimpiazzare.
Era difficile immaginare che quest’uomo, dall’aspetto più simile a un contadino cambogiano che a un politico, per 3 anni e 8 mesi sia stata la persona più potente della Cambogia.
Per 18 anni le grandi agenzie giornalistiche in cerca di scornop erano arrivate ad offrire sino a 400 mila dollari per una sua intervista. Ma solo nell’agosto del 1997, il corrispondente della Far Easte Economic Review, Nate Thayer, sfruttando il rimpasto di potere avvenuto all’interno dei khmer rossi, riuscì ad avvicinare Pol Pot e a intervistarlo per la prima volta dal 1979.

Come preferisce essere chiamato, col nome di nascita, Saloth Sar, o con quello di battaglia, Pol Pot?
Dato che ho speso gli ultimi 45 anni della mia vita a combattere per il mio paese e per il popolo, preferisco essere chiamato con il nome di battaglia, Pol Pot.
Questo significa che ha dimenticato la sua famiglia?
Affatto! Durante tutti questi anni ho sempre pensato alla mia famiglia.
Però da quando si è dato alla lotta armata, non ha mai voluto incontrare alcuno dei suoi parenti. Anzi, alcuni di loro, tra cui anche suoi fratelli e sorelle, sono morti proprio per le dure condizioni di lavoro a cui erano stati sottoposti.
Ci sono due condizioni storiche e politiche da tener conto: la prima è che subito dopo la liberazione del paese, si era nel caos più completo. Dovevamo procurare il cibo per 5 milioni di cambogiani e 2 di questi erano ammassati a Phnom Penh. L’immediato trasferimento nelle campagne, perché anche loro lavorassero nelle risaie, era una condizione necessaria per la sopravvivenza di tutti. Inoltre c’era sempre il pericolo di bombardamenti da parte americana.
In secondo luogo, cosa avrebbe detto il popolo, se avessi ordinato che i miei parenti ricevessero un trattamento di riguardo? Avrebbe pensato che erano cambiati gli uomini al potere, ma il modo di gestirlo era rimasto identico.
A 22 anni di distanza, analizzando il periodo di potere khmer rosso, ammette di aver commesso degli errori macroscopici?
Sono d’accordo sul fatto che abbiamo commesso degli errori, dovuti soprattutto all’inesperienza. Del resto, chi non ne ha compiuti? Abbiamo basato e costruito la nostra politica continuando a pensare e operare secondo l’esperienza della lotta rivoluzionaria, senza passare alla fase post-rivoluzionaria, che ci avrebbe permesso di accelerare lo sviluppo della Cambogia. Ma considerando tutto, penso che il nostro governo sia stato positivo per il popolo. Penso che rispetto alla Cambogia di oggi, Kampuchea Democratica era molto più libera, democratica, indipendente e progredita.
Quindi non rigetta nulla di ciò che ha fatto.
E perché dovrei?
La maggior parte dei suoi ex compagni, da Ieng Sary a Khieu Samphan, l’ha fatto.
Sono scelte loro. Posso solo dire che la storia non può essere cancellata negando le scelte e le azioni compiute.
Lei però continua a negare la responsabilità della morte di centinaia di migliaia di cambogiani e la stessa esistenza della S-21, dei cosiddetti killing fields…
Come ho detto prima, non nego nulla di quanto mi ritengo responsabile. Non nego che durante il periodo in cui siamo stati al governo abbia personalmente commesso degli errori; ma le cifre che ha appena citato sono decisamente esagerate. Della S-21 non ne ho mai avuto notizia: è stata una messa in scena della propaganda vietnamita per giustificare la loro invasione di Kampuchea Democratica, così come i fantomatici killing fields, invenzione cinematografica di grande effetto.
Mi permetta, però, di ricordarle che gli stessi suoi ex compagni di governo oggi ammettono che tra il 17 aprile 1975 e il 7 gennaio 1979 in Cambogia si era instaurato un clima di terrore di cui lei, come primo ministro e segretario di partito, è stato il solo responsabile.
Posso solo dire che anche loro occupavano, assieme a me, posti di alta responsabilità. È logico che dopo il cambiamento di rotta politica all’interno del movimento tentino di riproporsi in una nuova prospettiva. Ma vorrei evitare di continuare a parlare di questi argomenti.
Quindi, se lei potesse tornare al potere, attuerebbe la stessa politica intrapresa durante il periodo tra il 1975 e il 1978?
Lo ripeto: non ho nulla di cui rimproverarmi. Penso che la nostra linea era giusta allora e lo sarebbe anche oggi. Naturalmente i tempi sono cambiati, ma anche nel 1978 stavamo gradualmente introducendo delle importanti riforme in Kampuchea Democratica.
Quali?
Reintroduzione del denaro, possibilità di gestire mercati privati, apertura delle frontiere, ritorno dei monaci nelle loro pagode. Ma il Vietnam non voleva tutto questo e ha deciso di invadere il nostro paese.
Come giustifica la sua avversione per il Vietnam?
Non è una mia avversione, ma quella di tutto il popolo khmer verso la minaccia youn.
A quanto ho potuto capire, è un contrasto che ha radici più storiche che razziali.
Esattamente. Il Vietnam si è annesso, nei secoli precedenti, la regione del Delta del Mekong, che apparteneva culturalmente, storicamente e etnicamente ai khmer. Nel 1975 si preparava ad annettere il resto della Cambogia. Abbiamo le prove di questo. Ma non avevano previsto la nostra vittoria, e si sono così trovati nell’impossibilità di compiere i loro piani di conquista.
Dice di avere le prove del piano di annessione della Cambogia al Vietnam. Quali sarebbero?
Discorsi all’interno del Partito dei lavoratori del Vietnam, lettere, preparativi militari, attacchi e provocazioni alle frontiere, spostamenti massicci di popolazioni verso il confine cambogiano, per occupare le terre che appartengono ai khmer e, soprattutto, infiltrazioni di elementi vietnamiti nel nostro partito.
Le purghe effettuate durante il suo governo sono quindi da addebitarsi alla politica di purificazione dall’elemento vietnamita all’interno dell’amministrazione di Kampuchea Democratica, per assicurare l’integrità della nazione?
Certamente. E la conferma è che oggi a Phnom Penh c’è una marionetta infiltrata dai vietnamiti nel nostro partito.
C’è oggi un paese che indicherebbe come esempio di modello sociale?
Ogni paese ha una storia e una situazione politica, sociale, culturale propria. Ultimamente non ho viaggiato molto, (ride, nda) quindi non ho diretta esperienza di sistemi sociali in atto…
Si sente ancora marxista?
Non nel senso che voi occidentali date a questo termine. Ho trovato nell’idea marxista degli spunti per condurre la lotta politica in Cambogia. Ma li ho trovati anche leggendo Rousseau, Gandhi, Voltaire.
Leninista?
Lenin ha avuto un ruolo storico d’avanguardia nel dimostrare che le idee di Marx potevano divenire realtà. È stato un grande maestro e grande personaggio storico per tutti, a prescindere dalle idee politiche.
Maoista?
Mao è stato un grande politico e un grande amico. La lotta condotta dal popolo khmer è per molti versi simile a quella condotta dal popolo cinese. Inoltre, la situazione culturale e politica della Cambogia è più assimilabile a quella cinese che a quella europea e sovietica: cinesi e khmer vivono e sono prosperati nelle risaie.
Lei è una sorta di dr. Jeckill e mr. Hyde: estremamente affettuoso e premuroso con la sua famiglia e con i suoi ospiti, ma duro e spietato in politica.
(Pol Pot compie un gesto di stizza e rimane muto nda).
Come si spiega che è più odiato all’estero che in Cambogia?
Perché i cambogiani mi conoscono meglio che all’estero.
Sa che in Occidente viene spesso paragonato a Hitler?
Non vedo alcun nesso tra me e Hitler. Hitler era un pazzo che ha sterminato milioni di ebrei e ha portato il mondo alla ii guerra mondiale.
Ma secondo gli studiosi, anche lei ha sterminato milioni di cambogiani: per l’opinione pubblica occidentale anche lei è un pazzo…
(Pol Pot si altera a tal punto che gli viene meno il respiro. Si porta la maschera d’ossigeno alla bocca. Il medico, allarmato, mi chiede di non continuare a porre altre domande del genere).
Cosa ritiene che sia essenziale in un uomo?
La volontà sincera e profonda di lottare per il bene del proprio popolo, mettendo in secondo piano gli interessi personali.
E lei pensa di aver rappresentato queste qualità?
Non sta a me giudicare. Sono comunque sereno.
Come vorrebbe essere ricordato dai suoi connazionali?
Come un uomo giusto e onesto; come un uomo che ha lottato sino all’ultimo per difendere la Cambogia dalla distruzione a opera dei vietnamiti.

Piergiorgio Pescali




Il sorriso di Angkor

Popolazioni e culture indiane e aborigene si sono fuse pacificamente,
dando origine a una civiltà propria, testimoniata dai monumenti del passato e vivente nelle tradizioni religiose e culturali del presente.

Il piccolo aereo della Air Cambodge vira, cercando di allinearsi alla striscia d’asfalto dell’aeroporto di Siem Reap. All’improvviso, quasi sulla linea dell’orizzonte, tra la folta vegetazione della giungla cambogiana, vedo ergersi le inconfondibili torri di Angkor Wat. Negli anni ’20, il pittore Paul Claudel le aveva paragonate ad ananas. L’artista francese non amò Angkor Wat: lo descrisse come «uno dei luoghi più maledetti e malefici che abbia mai visitato in vita mia».
Io, al contrario, ne sono rimasto affascinato, tanto da volerlo visitare per la quarta volta. E lo debbo confessare: ogni visita inietta in me nuove emozioni e nuovi sentimenti, che si mischiano a reminiscenze storiche che permeano ogni pietra di questo luogo, cuore politico e religioso della Cambogia per oltre 500 anni.
ORIGINI LEGGENDARIE
C’era una volta… il regno di Funan, antico nome dell’attuale Cambogia. Primo re della dinastia, secondo fonti cinesi e cham, fu Kaundinya, un bramino di origine indiana, proveniente dagli arcipelaghi indonesiani o dalla penisola malese. A seguito di un sogno, egli trovò un arco appeso all’albero sacro dedicato al suo dio personale; lo prese e si imbarcò, lasciando che la nave venisse trasportata dai venti mandati dallo spirito divino. Raggiunse la terra Funan, governata da Soma, figlia del re dei Naga, ostile a Kaundinya.
Per nulla intimorito, Kaundinya scoccò una freccia, che si conficcò nel vascello reale: impressionata da tale potenza, la sovrana si arrese e accettò di sposare il nuovo venuto. La stirpe generata da questa unione, oltre a dare inizio alla dinastia funanese, fu considerata come l’origine del popolo cambogiano.
La leggenda ha un fondamento storico, che risale al 357 d.C., quando, come re del Funan, venne incoronato un membro della famiglia Kushan, del clan indiano dei Kanishka. Sembra che si debba a questo nuovo sovrano il rapporto tra il regno di Funan e la cultura indiana, in particolare iranica. L’abbigliamento e le acconciature delle statue del tempo, richiamano evidenti influssi sassanidi e zoroastrici, come, ad esempio, le immagini di Vishnu.
Proseguendo nella leggenda, il regno di Funan, nel vi secolo d.C. fu invaso da popolazioni calate dal medio Mekong, che diedero vita al regno di Chenla. Pur avendo legami con la dinastia indiana funanese, i sovrani del nuovo regno conservarono i propri miti sull’origine del loro popolo, generato dall’unione dell’asceta indiano Kambu, con la ninfa celestiale Mera, legata al culto di Shiva.
I due, oltre a costituire il nucleo del regno di Chenla, furono i capostipiti del nuovo popolo da essi generato: i kambuja, figli di Kambu, da cui vengono fatti risalire sia i khmer, che il nome Kampuchea, Cambogia.
L’IMPERO DEL SERPENTE
Nella penisola indocinese, secondo fonti sanscrite e khmer, nei secoli vi-ix esistevano numerosi regni vassalli di Giava. Alla fine del secolo viii, un principe cambogiano, educato alla corte giavanese, si autoproclamò discendente dei principi Funan e dichiarò l’indipendenza del popolo khmer, diventando re col nome di Jayavarman ii.
In una decina d’anni egli estese il suo dominio verso il nord e, per dare consistenza alla sua dinastia e ottenere il riconoscimento popolare, nell’802 si fece incoronare devaraja (dio-re), secondo la filosofia proveniente dall’India, che voleva i re incarnazioni di dei.
E tali si ritennero i suoi discendenti. Per alimentare tale credenza, il monarca si ritirava ogni notte in una stanza del palazzo reale, per unirsi con un naga, serpente a nove teste, che per l’occasione assumeva le sembianze di leggiadra fanciulla.
Il serpente, che in Oriente simboleggia il ritorno alla natura, è il motivo più ricorrente ad Angkor, sin dalle sue origini, quando Yasovarman i, secondo successore di Jayavarman ii, fondò nell’877 Yashodharapura (città splendente, la nuova capitale del regno. Di questo stanziamento rimangono pochi ruderi del Bakheng, il mausoleo del re, dalla cui sommità lo sguardo può abbracciare l’intera piana sino al Tonlè Sap (Grande Lago).
Sempre da qui ci si rende conto dell’imponenza delle opere agricole, i cosiddetti baray, bacini idrici da cui si diramava la fitta rete di canali d’irrigazione delle risaie, che alimentavano la società angkoriana.
Sulla convenienza o meno di tali sistemi, vi sono due scuole di pensiero: una è propensa a valutare positivamente l’impatto sociale delle monumentali opere; l’altra demitizza l’opulenza della comunità cambogiana dell’epoca, affermando che i costi umani, sacrificati per realizzare e mantenere in attività tali progetti, sarebbero stati spropositati e a beneficio di una ristretta cerchia di privilegiati.
Ma la magnificenza del complesso e il fascino che traspare dalle fredde pietre riescono, almeno per un attimo, a far scordare le immani fatiche e i drammi sopportati da migliaia di persone durante la costruzione.
Abbandonata Yashodharapura, iniziò la vera edificazione di Angkor, sotto la guida di Rajendravarman (944-968), il quale progettò il Phimeanakas (Palazzo delle dee celesti), come residenza reale per la dinastia.
Camminando lungo il corridoio che un tempo attraversava le piscine, dove le ancelle reali si bagnavano, immagino lo splendore del palazzo, al cui centro si ergeva una piramide ricoperta d’oro, sede del naga.
Il cerimoniale all’interno delle sale reali era estremamente sofisticato e ritualizzato nei minimi particolari, secondo quanto è raccontato dal diplomatico cinese Chou Ta-kuan, che visitò Angkor nel 1296. Il monarca, oltre a doversi unire ogni notte con la creatura celeste, possedeva cinque mogli: la principale e altre quattro, a cui erano associati altrettanti punti cardinali. I sacerdoti, a seconda della posizione degli astri, indicavano con quale delle concubine il re si sarebbe dovuto assopire.
Il primo drastico mutamento della società angkoriana, avvenne dopo il 1000, durante il regno di Suryavarman i, quando il buddismo iniziò a espandersi, accettato senza problemi dalla corte, che ne assimilò anche le influenze artistiche.
Sotto la guida di Suryavarman i, il regno fu esteso al Laos e Thailandia, ma alla sua morte, nel 1050, l’impero si disgregò e la capitale fu occupata dai cham provenienti dall’attuale Vietnam.
Passarono 80 anni prima che un nuovo re khmer si installasse ancora ad Angkor, nel 1131: e la Cambogia iniziò a conoscere l’era più gloriosa della sua storia.
IL MISTERO DI ANGKOR WAT

Nei suoi diciannove anni di regno, Suryavarman ii costruì il più famoso monumento del Sud Est Asiatico: l’Angkor Wat (tempio della capitale, da angkor=capitale e wat=tempio).
Sebbene non tutti i misteri di questo complesso siano stati svelati (ad esempio, l’orientamento verso ovest farebbe supporre che sia stato concepito come edificio funerario), gli archeologi ne hanno in gran parte decifrato il significato simbolico.
Coprire il tragitto dall’esterno verso l’interno significa ripercorrere la cosmologia hindu, sulle cui dottrine l’edificio è stato progettato e costruito. I naga mi accompagnano lungo il ponte che permette di avvicinarsi al tempio propriamente detto, ricostruzione allegorica dell’arcobaleno che congiunge i cieli e la terra. Attraverso l’oceano cosmico, rappresentato dal fossato che circonda il complesso religioso, si approda sui lidi terrestri, le gallerie che immettono nel recinto interno.
Gli altorilievi che abbelliscono l’intero perimetro dell’arcata, descrivono scene del Mahabharata, l’epopea indiana. Tra di essi famosissima è la parte che illustra il Mescolamento dell’Oceano, con gli dei da una parte e i demoni dall’altra, nel tentativo di rimestare le acque lattiginose, usando il Monte Meru come mestolo e Sesha, il serpente, come corda. Vishnu, il dio creatore a cui il costruttore di Angkor Wat ha originariamente dedicato il tempio, dirige tutta l’operazione al centro del rilievo.
La planimetria stessa di Angkor Wat riproduce il risultato di questa immane fatica. Addentrandomi ancora lungo il ponte celeste, giungo finalmente al tempio propriamente detto: qui alcuni gradini ricordano che il raggiungimento della liberazione e della pace eterna non è né lineare né semplice. Inoltre la stanchezza, sia fisica che mentale, aumenta più ci si avvicina alla meta: i gradini si fanno più fitti e le salite irte, tanto da doversi aiutare con le mani, nel tentativo di raggiungere la vetta del Monte Meru, dimora del pantheon hindu.
Questa, rappresentata dalla torre centrale del complesso (l’ananas di Paul Claudel), ospita il sancta sanctorum di tutto l’edificio e, attorno, altre quattro torri emulano i picchi del monte, abitati da dei minori.
Nato come tempio hinduista, in fase di cambiamento religioso, Angkor Wat si è in seguito trasformato in monastero buddista, abitato ininterrottamente sino a oggi. Ciò ha permesso di mantenere l’intera struttura in ottimo stato, a differenza degli altri monumenti dell’area, anche più recenti, abbandonati dopo la caduta del regno nel xv secolo.
SPLENDORE DI UN IMPERO
Alla morte del grande Suryavarman ii (1177), una seconda invasione di cham saccheggiò la capitale, presto ricacciati dal nuovo re khmer, Jayavarman vii, ex monaco buddista. In 37 anni (1181-1218) egli estese il suo regno sul Vietnam centrale e le regioni del Laos, Thailandia, Birmania; con la costruzione di Angkor Thom, la Grande Capitale, l’opera più imponente dell’intera storia cambogiana, impresse al suo impero il massimo splendore.
Edificata secondo i canoni classici della mitologia hindu, già visti ad Angkor Wat, la città è inclusa in un quadrato di tre chilometri di lato e protetta da poderose mura con quattro porte d’accesso. Il fossato attorno ai bastioni, largo fino a cento metri e popolato da coccodrilli, la rendeva pressoché imprendibile.
Sebbene in parte diroccate, la vista di queste mura è ancor oggi impressionante: passeggiando per i viali, non posso fare a meno di immaginare quale splendida città potesse essere Angkor Thom, con i suoi giardini, palazzi, canali, piscine all’aperto, ma soprattutto i templi, anzi il tempio per eccellenza: il Bayon.
Posto al centro geografico della capitale – e quindi dell’impero – il Bayon racchiude la nuova concezione religiosa, introdotta da Jayavarman vii: egli rimpiazza il culto di Shiva e Vishnu col buddismo Mahayana, forse per sfiducia nei confronti delle prime due divinità, che non erano riuscite a proteggere i khmer dall’invasione vietnamita.
Ogni volta che visito il Bayon, mi assale un senso di inquietudine, di agitazione mentale. Girovagando tra i ruderi, sorvegliato attentamente da decine di sguardi di un volto sempre uguale, non posso non ricordare le angoscianti frasi di Pierre Loti, il pittore che nel 1912, dopo aver visto il luogo, scrisse: «Tutto a un tratto il mio sangue raggelò appena vidi un enorme sorriso guardarmi verso il basso. E poi un altro sorriso su un altro muro, poi tre, poi cinque, poi dieci… apparivano in ogni direzione».
«Sorriso di Angkor», così è stato chiamato questo enigmatico atteggiamento divenuto simbolo, assieme alle torri di Angkor Wat, dell’intero sito archeologico. Secondo l’interpretazione più accettata, sarebbe raffigurato il volto di Jayavarman stesso, rappresentato in veste di bodhisattva, il fedele buddista che, raggiunta l’illuminazione, decide di reincarnarsi per salvare l’umanità.
RIVINCITA DELLA NATURA
Stretta fra il regno thai a ovest e quello cham a est, l’impero khmer cercò di barcamenarsi tra le due potenze; ma nel 1431 l’avanzata dei thai costrinse il re Ponhea Yat e la sua corte a rifugiarsi verso oriente e stabilirsi a Phnom Penh, in attesa di un’ennesima rivincita.
Ma la dinastia khmer non ebbe più alcun Jayavarman vii e il regno, ridotto all’osso, rimase alternativamente sotto la tutela thailandese e vietnamita per 400 anni, finché re Norodom firmò un trattato di protettorato con la Francia (1864) e la Cambogia fu inglobata nella regione indocinese insieme a Laos e Vietnam.
Saccheggi e abbandono sprofondarono Angkor nell’oblio della memoria, aiutata dalla voracità della giungla tropicale, che in pochi anni ricoprì i favolosi monumenti, compresi i monasteri (eccetto quello di Angkor Wat), che ospitavano migliaia di monaci buddisti.
Il più famoso è il Ta Phrom, costruito nel 1186 in piena giungla, a tre chilometri dalla capitale: la fitta vegetazione si è ripresa la rivincita sulle aride pietre, avviluppando con le forti radici ogni anfratto e spiraglio della costruzione, sino a divenire un tuttuno con la laterite. La simbiosi è giunta a un punto tale che la morte della pianta determinerebbe la disgregazione del monumento.
Molti descrivono l’atmosfera che si respira al Ta Phrom ricordando Indiana Jones; io preferisco ricordare la frase che mi ha rivolto un giovane monaco, seduto su una radice che si diramava incuneandosi tra le crepe di una parete: «L’uomo distrugge la natura, pensando di costruire cose etee; ma se venisse qui, al Ta Phrom, imparerebbe che agendo in questo modo distrugge ciò che lui stesso ha costruito». •

Piergiorgio Pescali




Giù il mitra, signore!

Gesù subisce violenza, e non solo
perché viene crocifisso. Per esempio: riceve uno schiaffo dal servo del sommo sacerdote. Però non ritorce il gesto
e neppure presenta l’altra guancia,
ma chiede ragione dell’ingiusta
offesa subita (cfr. Gv 18,22-23).
Un comportamento emblematico
di nonviolenza del figlio di Dio.

C’é dio e… dio

La bibbia è parola di Dio, ma con espressioni umane. Il messaggio di salvezza ci giunge attraverso immagini prodotte da uomini e donne, secondo vari contesti storico-culturali. Pertanto, anche nella bibbia, è necessario distinguere «Dio» dalle «immagini su Dio», perché il Signore è sempre altro e non può essere ritratto da alcuna raffigurazione.
Noi conosciamo Dio attraverso le esperienze che altri ci hanno trasmesso: Mosè, Davide, i profeti, gli apostoli… Si pone, allora, il problema dell’autenticità e della verità delle immagini: in quale misura esse esprimano la vera identità di Dio. Il problema si fa cruciale quando la bibbia (specie l’Antico Testamento) presenta un «dio violento».
L’Eteo appare come il Giano bifronte, avvolto in un mysterium tremendum: dona la vita ad alcuni (popolo d’Israele) causando la morte ad altri (egiziani); offre la terra a Israele strappandola ai cananei; salva il popolo d’Israele a spese di altre genti… Però queste violenze non sono opera di Dio, ma gli sono attribuite da uomini violenti in situazioni violente.
L’immagine di un «dio guerriero» risponde, in fondo, all’intimo bisogno dell’uomo che sulla terra si faccia finalmente giustizia. Quindi, per una causa giusta, non si esita a giustificare la violenza anche da parte di Dio e del suo popolo eletto.
Questa visione è superata da Gesù Cristo. Le pagine dell’Antico Testamento, che presentano Dio come amore e misericordia, trovano pieno compimento nella rivelazione di Gesù, immagine del Dio vivente (cfr. Col 1,15): un Dio che preferisce gli ultimi, i poveri, gli oppressi, i peccatori; un Dio che ricostruisce le persone dal di dentro e le reintegra nella società; un Dio che non usa violenza, mai e con nessuno. Anzi, egli stesso ne è vittima.
Alla luce della morte di Gesù (l’innocente) e della sua risurrezione, si intende meglio il senso della passione del giusto: egli accetta su di sé le sofferenze degli altri; non annienta i suoi carnefici, ma li perdona; abbatte con il suo martirio il muro che divide i popoli, per fare di tutti una sola nuova famiglia (cfr. Ef 2,14). Pertanto si inaugura un nuovo stile di vita; si rifiuta la violenza come mezzo per risolvere i conflitti.
Il giudizio finale e universale, impostato su «avevo fame e mi avete dato da mangiare» ecc. (cfr. Mt 25, 35-40), è molto più di un’esortazione morale. L’identificazione di Gesù con i poveri impone alla chiesa una scelta preferenziale per essi (cfr. Giovanni Paolo ii, Novo millennio ineunte, 49).
Da qui scaturiscono alcune direttrici per il comportamento del cristiano:
– essere persone mosse dal Creator Spiritus, che costruiscono e portano ovunque immagini positive di Dio, amore-grazia-pace-misericordia, che rifiuta la violenza;
– essere chiesa-comunità più povera e libera, senza troppi appoggi ufficiali, senza cedere agli integralismi;
– resistere alle attrazioni distruttive, all’inganno delle soluzioni sbrigative, inservibili per la pace.
La vera immagine
Gesù Cristo rivela l’immagine vera e definitiva di Dio. Dio è proprio come Gesù ce lo mostra. Gesù è la guida che conduce a Dio. Fidarsi di Gesù è garanzia di verità, autenticità e identità su Dio, prima ancora di essere impegno morale di sequela.
In Gesù, con il quale i cristiani si identificano, l’ideale e la prassi della nonviolenza assumono una solida consistenza. In tal modo si supera il rischio di fermarsi solo ad un programma, sia pur generoso, per seguire una persona.
Gesù è un facitore nonviolento di pace, oltre che un ispiratore di nonviolenza. Il regno di Dio in bocca a Gesù è nonviolento. Il «siate perfetti» di Matteo (5,48), comprensibile all’ambiente giudaico, viene espresso da Luca con «siate misericordiosi» (6,36), in termini più universali di benevolenza e gratuità.
La shalom di Gesù è radicata nella bibbia, soprattutto nell’identificazione tra giustizia e pace, sorelle gemelle. La prassi di Gesù rivela l’agire di Dio: un agire misericordioso verso i peccatori e gli infelici, che tende continuamente a ristabilire il diritto di giustizia e che è forza liberante (non spiritualista) degli oppressi e diseredati.
Gesù è lontano dal messianismo degli esseni di Qumran, suoi contemporanei. Questi, insieme all’assoluta purezza interiore, propugnavano la condanna del peccatore e teorizzavano sulla guerra santa. Invece Gesù, oltre alla beatitudine della pace, offre la sua «pace», diversa da altre: il suo programma coniuga la gloria di Dio e la pace in terra.
Ecco alcune prospettive per un’azione globale di pace e nonviolenza:
– più consistente deve essere la riflessione nella teologia, spiritualità e pastorale, nelle pubblicazioni, nei circoli di studio e nelle assemblee;
– la nonviolenza diventi spiritualità incarnata, aderente alla storia, senza evadere dai problemi veri;
– pace e nonviolenza sono frutti che maturano nel tempo; la loro acquisizione è un lento cammino verso le sorti dell’umanità (cfr. Giovanni Paolo ii, Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2004);
– bisogna riscoprire la Pacem in terris di Giovanni xxiii (1963), che definì la guerra «alienum a ratione». «La guerra è roba da matti» disse il compianto vescovo Tonino Bello.
Oltre a predicare la nonviolenza, come ha chiesto Giovanni Paolo ii nell’Angelus del 30-11-03, vi sono scelte operative quotidiane, quali: il consumo critico, la banca etica, l’adesione alle campagne e dichiarazioni a favore di pace e nonviolenza.
Fondamenti storici e culturali
«La verità e nonviolenza sono antiche come le montagne» (Gandhi), ma è altrettanto vero che la violenza è la regina della storia. Tuttavia la gente continua a lavorare e soffrire per la pace. La speranza della nonviolenza risiede nel popolo.
I modelli di nonviolenza sono tanti e ricchi. Accanto a personaggi e avvenimenti celebri (Martin Luther King, Nelson Mandela, la resistenza nelle Filippine nel 1986, il crollo del muro di Berlino nel 1989, ecc.), vi sono altri casi significativi, anche se meno noti: casi di non collaborazione, disubbidienza civile, obiezione di coscienza, disarmo.
La nonviolenza è una galassia, un ecosistema. È interessante esplorae i fondamenti culturali e antropologici:
– trovare in se stessi qualcosa che ci fa sentire vicini all’altro;
– applicare la regola d’oro (di tutte le religioni): «Fai agli altri ciò che vuoi sia fatto a te» e «non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te»;
– uccidere è la ragione della guerra e «non uccidere» (presente in tutti i codici dei popoli) è il motivo della non guerra;
– prendere e far prendere coscienza che «uccidere» va contro il Creatore, che è l’atto più irreligioso; per la guerra vale «mors tua vita mea», per la pace conta «vita tua vita mea»;
– «non uccidere e non lasciare uccidere» era già un insegnamento di Budda; se è il sistema che porta alla distruzione, è necessario fermarlo;
– capire il senso e il limite del potere, di qualunque potere, per evitare che, «scambiando il mondo per un chiodo da battere» (F. W. Nietzsche), si compiano violenze fisiche, economiche, culturali, religiose;
– il potere legittimo, nato dal voto, non è matematicamente sinonimo di democrazia; questa è tale solo se favorisce la circolazione di idee e valori per la ricerca del bene comune (Amartya Sen, premio Nobel per l’economia);
– essere testimoni di un monoteismo garante di convivialità fra tutti i popoli; il mistero di Dio è così sfaccettato che nessuna religione può esaurirlo; tutte le religioni si completano a vicenda (possono scambiarsi doni) nella comprensione dell’unico Dio; allora nasce una visione tollerante verso le religioni quali vie a Dio, senza però cadere nel relativismo secondo il quale una religione vale l’altra;
– vincere l’intransigenza religiosa, per cui si vorrebbe far scendere il fuoco dal cielo o strappare subito la zizzania (cfr. Lc 9,54; Mt 13,28);
– opporsi alla rassegnazione di chi considera la guerra come un male inevitabile, essendo parte del sistema.
«Tra mezzi e fine esiste lo stesso rapporto che c’è fra seme e albero: non ci si può aspettare frutti buoni se si semina violenza» (Gandhi). La pace si costruisce con mezzi pacifici.
trasformare i conflitti
Alla base dei comportamenti violenti c’è un «nemico» in ciascuno di noi: pregiudizio, rifiuto degli altri, odio. In ognuno c’è aggressività dovuta pure a stress, corse, orari. Basta poco per «saltare» in famiglia, sul lavoro, nel traffico.
Emerge il nocciolo fondamentale: non c’è pace estea senza quella intea, se il cuore non è in pace. E non ci sarà pace senza il coinvolgimento personale nei valori dell’accoglienza verso tutti, del perdono e della riconciliazione.
Tuttavia l’amore ai nemici è alieno da sentimentalismi; può convivere con l’indignazione, il dispiacere, la preghiera. È pure necessario distinguere fra «ricordare» e «odiare»: non si ha un potere assoluto sulla memoria, mentre si può controllare gli atti di volontà. È possibile ricordare senza odio.
I conflitti si possono trasformare in opportunità di vita. Il conflitto non è sinonimo di guerra, né di violenza. I conflitti vanno guidati, tenendo presente che le vittime della violenza strutturale sono più numerose di quelle della violenza fisica (il rapporto è di 24 a 1).
È possibile intervenire sul conflitto, prima che degeneri in violenza, grazie a metodi di prevenzione e progetti socioculturali; durante il conflitto, operare con forze nonviolente, per ridurre i mali; dopo il conflitto, favorire la riconciliazione e costruzione (vedi i casi di Sudafrica, Mozambico, Perú, Rwanda, Guatemala, Argentina, ecc.).
La nonviolenza è un processo di liberazione interiore da complessi e paure sia negli oppressi sia negli oppressori. In tale processo è fondamentale la comunicazione tra gli uni e gli altri, come pure tra questi due gruppi e le «parti estee» al conflitto, dentro o fuori del paese. Però occorre che non intervengano strumentalizzazioni.
La riconciliazione è un processo a tappe, quali: accertamento della verità dei fatti, pentimento, confessione, perdono, pena, pietà. Molto opportunamente Giovanni Paolo ii, nella Giornata missionaria mondiale del 2002, ha rilanciato il perdono.
Il processo di pace, nonviolenza e riconciliazione ottiene i migliori risultati quando si comincia dal basso, dagli enti locali, che sono più disponibili, meno condizionati. «Ogni popolo guardi il dolore dell’altro – disse nel 2003 il cardinale Carlo M. Martini – e sarà pace».
Per i missionari e le loro comunità emergono compiti esigenti:
– essere attivi nelle scuole di nonviolenza per formare le coscienze;
– operare coraggiosamente la riconversione economica degli stili di vita, assumendo stili alternativi;
– vivere la missione come scambio di doni alla pari, grazie all’interculturalità, della quale i missionari hanno una particolare esperienza.
spiritualità della nonviolenza
È significativa la testimonianza di Gandhi, un laico che ha saputo coniugare spiritualità e politica in modo sistematico e durevole, dando un notevole contributo alla riforma della spiritualità in genere.
Anche Gesù (un altro laico!) opera un rinnovamento della vita religiosa: la sua legge consiste nell’amare i nemici (cfr. Mt 5), fino al perdono dalla croce. Gesù conferisce pure un valore comunitario ai precetti della legge, che di norma erano vissuti a livello individuale, quasi spiritualista, senza incidenza pubblica. Invece Gesù «sobilla il popolo» (cfr. Lc 23,2) e per questo viene ucciso.
La nonviolenza, di cui Gesù è un modello e maestro, non è una nuova religione, ma è previa a tutti i credo religiosi, perché si riferisce ad un patrimonio comune: la fratellanza universale, spesso però minacciata e distrutta da violenze e guerre. Se le religioni non si ritrovano su questa «spiritualità», non hanno alcun servizio da rendere all’umanità.
La spiritualità della pace nonviolenta deve fronteggiare alcune sfide:
– affrontare la vita politica ed economica valutando con cura le mediazioni, ma senza transigere sui valori morali;
– dare la preminenza alle relazioni interpersonali, basate su solidarietà, fratellanza ed empatia, preferendole alle tattiche furbesche dei politici;
– non fermarsi alla conversione individuale, ma puntare alla conversione delle strutture di peccato (cfr. Giovanni Paolo ii, Sollicitudo rei socialis, 1987);
– la critica all’attuale modello di società è legittima e doverosa.
Un altro mondo è possibile. Anzi, solo un altro mondo è possibile, di fronte (per esempio) al pericolo dell’inquinamento globale.
E che dire delle armi di distruzione di massa? Giovanni Paolo ii, per contrastare guerre e armi, convoca tutte le religioni a scegliere sempre e solo la pace: non ci deve più essere guerra. Se ogni religione (ciascuna con i suoi seguaci), attingendo al pozzo comune della frateità, è per la pace, la guerra è sconfitta.
Il no alla corsa armamentistica per il cristiano non ammette alternative o concessioni; deve essere totale e risoluto. È immorale (perché contro la vita) che si spendano ogni anno 1.000 miliardi di euro (400 miliardi negli Stati Uniti) per armamenti, destinati ad uccidere, mentre i diritti di 5 miliardi di poveri passano in secondo ordine. Il no alla produzione di armi è una scelta per la vita, in nome del vangelo.
E non basta sapere. È indispensabile l’invocazione dello Spirito di sapienza. Gandhi parlava di «forza attiva della verità».
Per un cristiano la spiritualità della nonviolenza è per fede trinitaria. Padre-Figlio-Spirito Santo sono in comunione perfetta. Sono sorgente e modello di vita, donata a tutti e in abbondanza (cfr. Gv 10, 10).

L’articolo rielabora la sintesi conclusiva di padre Romeo Ballan, comboniano, del Convegno «Spiritualità e prassi della nonviolenza: linee e sfide per l’animazione missionaria in Italia».
Il Convegno, organizzato dal Suam (Segretariato unitario di animazione missionaria in Italia), si svolse a Pacognano (NA) il 3-7 febbraio 2004.
Segretario nazionale del Suam è padre Gottardo Pasqualetti, missionario della Consolata.

Francesco Beardi




KENYA – Abbondanza di mucche e di… parole

Alcuni fortunati europei hanno potuto assistere
a una cerimonia che da secoli
si ripete uguale tra i masai di Kenya e Tanzania,
per ottenere benedizione e salute.

L’ orologio che scandisce la vita pastorale dell’etnia masai (Kenya e Tanzania) ha un ritmo lento, ma perseverante. In questa nostra era, è davvero inimmaginabile imbattersi in cerimonie tribali, celebrate così raramente che, a volte, la memoria umana non riesce più a registrarle.
Il fotoreportage illustra una di queste cerimonie solenni: erano ormai più di trent’anni che non veniva celebrata!

Siamo nel profondo cuore della riserva masai del Kenya, verso i confini del Tanzania, dove vivono gruppi di masai che, salvo l’orologio al braccio o la radiolina a pile, potrebbero benissimo essere scambiati per pastori di secoli fa, guidati dal sole e dalla luna, dalle piogge e dalle immigrazioni degli animali della savana.
Alcune suore cattoliche e una dottoressa italiana, per gentile invito, hanno potuto partecipare a questa solenne cerimonia e immortalare, per la prima volta nella storia, alcuni momenti del rito della fertilità.
Nell’immenso spiazzo (boma) lasciato libero temporaneamente dai numerosi greggi di capre e mandrie di mucche, si è radunata tutta la comunità femminile della regione. È il più solenne e sacro raduno delle mamme masai dei dintorni. Siamo a El Kisongo, uno sperduto puntino nell’area geografica del Kenya, territorio non ancora intaccato dai furori della civiltà.
I soli uomini presenti sono i grandi dignitari, rappresentanti i vari clan che ruotano intorno alle zone di pascolo di El Kisongo. Spicca tra tutti ’loiboni o grande sacerdote. Ostenta una parrucca di peli di coda di mucca, una sgargiante coperta azzurra, orecchini nuovi e collane dal significato a noi sconosciuto. Regge una zucchetta contenente latte, che sarà usato durante la cerimonia.
Gli altri assistenti, avvolti nelle coperte rosse, i fianchi cinti da un perizoma, sono rasati di fresco (segno di purificazione). Tutti si sono portati appresso il famoso scranno treppiede (a volte anche quadripiede): grande segno di autorità.
Le donne – tutte mamme – in lunghe vesti coloratissime, fanno girotondo nell’ampio recinto. Quelle ancora giovanissime si sono portate dietro i pargoletti appesi alla schiena, ben protetti sia dal sole, come dal vento che spira (a volte pungente) dal vicino Kilimangiaro. Anche se la giornata è serena e il sole abbacina, il manto di cotone che tutti e tutte portano allacciato alla spalla, ripara e, nello stesso tempo, dona un colore di festa.

Il primo atto della cerimonia è il sacrificio di un bue, alla presenza del gran sacerdote e dignitari. Il luogo del sacrificio viene così considerato «santificato»: sarà il centro di tutte le cerimonie che via via verranno effettuate.
Davanti a un grande drappo nero appeso a due paletti, viene scavata una buca, che viene poi ricoperta di pelli e in cui si verserà del latte di vacca. Ogni donna e anche la sua bambina (non i maschietti) passeranno a lavarsi i piedi in quel latte, sotto il controllo di un anziano.
Accanto al drappo nero, garrisce al vento una fronda di palma. Questa ha un particolare significato e sarà uno dei temi della grande preghiera del ’loiboni durante la benedizione finale: la foglia di palma che si lacera al vento, formando così altrettante foglie, vuole indicare l’uomo e la donna che si ripetono in tanti figli, trasmettendo in essi la loro stessa vita.
La fila di donne passa davanti al gran sacerdote, che impone su ognuna una speciale collana e, come segno di benedizione di Enkai (Dio), colora la fronte di caolino bianco e latte. Anche gli anziani ripetono la cerimonia del gran sacerdote. Bere latte fresco di mucca e latte cagliato significa partecipazione comunitaria delle donne alla «preghiera della fertilità». Le bevute si susseguono… mentre passano le ore. Non sembra vi sia fretta alcuna, se gli strilli dei pargoli ogni tanto richiamano alla realtà di allattamenti soccorritori. Pluff!… con curiosa manovra la mamma fa saltare con destrezza il piccolo, che se ne sta dietro la schiena, e lo riceve delicatamente sul davanti… pronto alla pappa!
La preghiera comunitaria guidata dal ’loiboni invoca, ora, su tutta la gente ogni bene:
«Enkai, tu resterai fermo
al di sopra di tutte le cime dei monti
del monte splendente (Kilimangiaro).
Sii lacerato come le orecchie
della palma
lacerata dal vento…» (allusione alla frasca di palma, che sta davanti al panno nero, simbolo della divinità).
Le richieste a Dio di «beni» comprendono l’abbondanza di mucche (sempre prime nella scala dei valori), di piogge, di pascoli, di mamme e di prole. Si chiede a Dio protezione contro gli animali feroci e le malattie del bestiame e degli uomini. E siccome, invitati speciali di onore ci sono le suore e una dottoressa, si chiede anche per loro «che possano essere mamme di tanti figli e curare tutti i loro malanni».
La cerimonia finale, come segno di partecipazione alla grande festa, sarà l’imposizione di una strisciolina di panno nero, messo al braccio destro di ogni mamma (simbolo dell’accompagnamento di Dio). Infine, tra canti e danze a Enkai, la distribuzione di vari amuleti protettori.
Il sipario si chiude quando il sole traccia ombre lunghe sul boma. Già intorno ci sono le mucche e le capre, tornate dal pascolo, in attesa di entrare nel recinto per essere munte del poco latte (un bicchiere appena). E poi i guerrieri, con le loro lance, si metteranno in guardia tutt’intorno, per proteggere il loro tesoro contro le bestie feroci della notte.

Non lontano, le nevi splendenti del Kilimangiaro continueranno a riflettere la luce della luna, testimoni, da secoli, di vita e cerimonie di un popolo che non ama calendari e tanto meno il ruggire di motori e fermate di autobus; o arrembaggi di uffici alla ricerca di un segretario che abbia la pazienza di scrivere una carta d’identità dove, insieme a un nome, ci sia anche la compiacente definizione «over 18», con la quale si fa livello di tutte le età, dai diciotto anni ai cento.
Con buona pace di tutti quanti.

Giuseppe Quattrocchio e Francesca Lipeti




Cara Anna maria

CARLO
URBANI
lettere
a una
claustrale

Solo dopo la sua morte è venuto alla ribalta l’impegno umanitario, professionale e scientifico di Carlo Urbani.
Una prima biografia ne delinea anche il suo mondo interiore, con molti scritti inediti e privati, tra i quali le lettere a suor Anna Maria Vissini, sua «assistente spirituale», del monastero di Castelplanio.
Ne pubblichiamo alcuni stralci,da cui traspaiono fede, ideali e valori di un uomo che si è donato senza posa.

«Le lettere, alcune delle più significative, che dono alla lettura di chi desidera entrare nell’interiorità di Carlo, manifestano anche la particolare relazione spirituale che ha avuto con me, in quanto religiosa e sorella nel Signore. Esse sono come una piccola finestra sul balcone del mondo, da cui esce un fascio di luce così intensa da stupirci: un faro che, illuminando la realtà e le vicende dell’oggi, permette di individuare i lati più luminosi della generosità e della forza d’animo». (Suor Anna Maria)
VOGLIO TORNARE A VOLARE
C ara suor Anna Maria,
non è facile scriverti. Ho pochi argomenti per brillanti conversazioni, ne avevo. Ho poca possibilità di farti sorridere, ne avevo. Ho pochi progetti da esporti, per farti brillare gli occhi, ma ne avevo. E se già stai pensando «ma guarda questo come si è depresso, che momentaccio che ha scelto per scrivermi», credimi se ti dico che ti sbagli. Ho scelto un momento in cui mi sento più sereno…
Da adolescente, verso il 2°-3° anno di liceo, seguivo un personaggio carismatico: l’insegnante di filosofia. In freddi pomeriggi invernali, io e un gruppetto di compagni andavamo a farle visita. Davanti a una tazza di tè, parlavamo dei personaggi nei quali più credevamo: noi. A tuo ci faceva sedere al centro del salotto e autorizzava gli altri a martellare di domande il protagonista dell’incontro.
A volte le domande graffiavano, colpivano nell’intimo, con la cattiveria che in quegli anni era utilizzata come arma: qualcuno scoppiava a piangere. Poi lei mediava, aiutava, suggeriva e concludeva, disegnando sempre, con nostro grande stupore, i tratti della personalità dell’intervistato. Quando venne il mio tuo non piansi; anzi, riuscivo a divertire i compagni e la professoressa, rispondendo in modo brillante e ironico a tutte le domande…
Quella sera uscimmo tutti con allegria e insieme con la professoressa andammo a prendere una pizza. Per il freddo camminavamo a braccetto; la mia insegnante si strinse al mio fianco: «Carlo, ammiro la tua forza; so che non ti mancherà mai e che ti permetterà grossi traguardi».
Ricordo bene quelle parole, perché da allora ogni tanto me le ripeto. Allora, a 17 anni, sentirmele dire da chi ritenevo una grande autorità, fine conoscitrice della psiche, è stata una incredibile vittoria. Divenni così anche più forte…
Crebbi con questo motto: so difendermi. Con gli anni conobbi sempre prove più impegnative, dure, dolorose. Conobbi il dolore di altri e passai pomeriggi per cercare di trasmettere questo mio pensare positivo all’amico in difficoltà.
Maturavo col tempo nella fede: riuscivo tanto bene a trasmettere speranza che mi trovai invitato a predicare in una settimana missionaria in un paese del Saleitano…
E la vita continuava, conobbi anche l’esperienza dei primi pianti da adulto, ma duravano poco e ne uscivo con un sorriso… E prego Dio perché un giorno, dopo questo tempo di prova, le vele riprendano tono.
Quando volo mi piace osservare, ai miei fianchi, la tela delle ali del deltaplano che, tesa dal vento, mi fa galleggiare sul mondo che amo. E quando ogni volta mi separo dalla mia ombra, che resta sotto di me dopo il decollo, sento l’alito dell’universo circondarmi e sorreggermi, provo infinita pace.
Ho provato più volte che una manovra errata ti può mettere in una cattiva posizione rispetto a quell’alito; allora la tela delle ali non vibra più, si affloscia; per un attimo non senti il vento sul viso, tutto si ferma, non sai bene cosa sta succedendo; e mentre pensi a questo, già inizi a precipitare, lo stomaco ti arriva in bocca, a stento elabori le azioni per interrompere la caduta: una piccola pressione sulla barra, un po’ di potenza al motore ed esci da quella caduta, che si chiama stallo. E riprendi a volare.
Suor Anna Maria: da questo stallo io non so uscire. Ho provato tante manovre, che per un attimo mi hanno fatto riprendere quota, ma volo sempre più in basso. Che Dio abbia pietà di me… Voglio tornare a volare al più presto, ma non ci riesco. Nelle preghiere ho già detto a Dio quanto tu sia brava. Se ne ricorderà!
Con grande affetto e stima,
Carlo
Castelplanio, 7 gennaio 1995
PICCOLI LUMI
IN UN MAGMA DI DOLORE
Carissimi don Mariano (parroco di Castelplanio ndr) e suor Anna Maria,
scusate se mi indirizzo a voi nella stessa lettera; vi assicuro, non lo faccio per risparmiare sui francobolli! In realtà le giornate scivolano via strapiene… Allora ho pensato di parlarvi insieme, perché tutto sommato siamo abituati a parlare insieme: in entrambi ho sempre trovato la calda attenzione dell’amico e la dolce acutezza dell’assistente spirituale…
Cosa sto facendo della mia fede? Beh, qualche volta, magari incollati a un ventilatore per il caldo torrido che c’è anche di notte, diciamo insieme qualche preghiera; ogni 15 giorni partecipiamo alla messa per la comunità francofona nella missione.
La messa è molto piacevole, semplice, sentita. È bello scoprire come quella famiglia di figli di Dio, alla quale diciamo di appartenere, ma che in realtà immaginiamo come un concetto astratto, in realtà esiste in carne e ossa ed è pronta ad accoglierti tra le sue braccia anche in posti lontani come questo.
Ma poi nella fede cerco, soprattutto in questo tempo, la luce per rispondere ad angoscianti interrogativi che mi tengono sveglio. Il primo è la fatidica questione sulla vera natura dell’uomo. Quanto vedo qui, quanto sento nei racconti dei colleghi provenienti dalle mille ferite di questa terra, campi di battaglia, campi profughi, profonda povertà delle bidonvilles, assurde lotte fratricide, carceri grondanti sangue di tutti i regimi dittatoriali del mondo… tutto questo scoraggia un po’; a volte vedere qualche cosa di buono nell’altro, in chi ti è «prossimo», diventa veramente difficile e invita a chiudersi in se stessi.
Ma i piccoli lumi, che brillano nei cuori di quanti si prodigano in questo magma di dolore, lasciano sperare; e il ricordo di chi ha deciso di scendere in questo scenario di continui soprusi e guerre, per poi morire su una croce, mi fa credere che una luce di pace sarà pure nascosta dietro qualche orizzonte.
Vi so vicini e a volte vorrei che vedeste con i miei occhi, per fissarvi su quegli sguardi di chi ha perso tutto, la famiglia nella guerra, il raccolto nell’alluvione, il figlio per la diarrea, i risparmi per un ladro, o per scaldarvi il cuore alla vista di una donna che partorisce sola, in una palafitta, lontano da tutto e da tutti, con il marito inginocchiato al fianco, un legno che arde in un braciere per scaldarla… non credo che in altre scene potreste vedere meglio rappresentato il mistero della natività, di questa che ho visto due settimane fa, a Sdau, piccolo villaggio nel nord.
Spero risentirvi presto. Ricordiamoci nella preghiera. Con affetto,
Carlo
Phnom Penh, 11 febbraio 1997
DOVE SCOPRO LA SUA BELTÀ
Carissima suor Anna Maria,
… poche sere fa, sfogliavo per addormentarmi un libro di preghiere di varie religioni e ho trovato questa di tradizione indiana: «Signore, fai che il mio lavoro nel mondo e per il mondo diminuisca giorno dopo giorno. Vedo che il mio lavoro, moltiplicandosi, minaccia di impedirmi sempre la Tua beltà! A volte immagino di compiere i miei doveri quotidiani senza essere attaccato alle cose del mondo, ma non so in quale misura mi illuda e veramente lavori senza attaccamento. Faccio la carità ed ecco che cerco di brillare agli occhi degli uomini. Proprio non so come fare».
Questa è la sensazione con la quale qualche volta la sera mi addormento. Mai come in questo periodo sono stato tanto preso dal lavoro. Sono come entrato in un vortice, dove l’amore per la professione e la scoperta che il lavoro che faccio incarna gli ideali che sempre hanno aleggiato sul mio cammino, sono come sirene alle quali non riesco a sottrarmi. Non credo che sia solo per brillare agli occhi degli uomini, ma è che mi sento un grande privilegiato, al quale il Padre Buono ha offerto una vita ricca, dove alcuni campi fertili non aspettano altro che vi semini responsabilmente i miei talenti.
A volte riscopro la Sua beltà nell’oggetto del mio lavoro, nei misteriosi fiumi che risalgo, fiumi d’acqua e fiumi di conoscenze, nei volti dei magri bambini nati come Lui in una capanna, o nei sorrisi coraggiosi di chi condivide il mio lavoro.
Credimi, è bello muovere passi in questo grande villaggio e scoprie le ferite e le glorie. Credo che la Sua beltà ci si manifesti in mille modi; benché convinto che nel silenzio di un monastero o nelle limitazioni della clausura sia visibile, amo troppo scoprirla in nuovi orizzonti o dietro nuovi occhi… Con affetto ti auguro un sereno natale.
Carlo
Macerata, 24 dicembre 1997
PRIORITÀ DEL PADRE BUONO
Carissima sorella,
… qui la vita scorre, la mia abbastanza comodamente, quella della gente un po’ meno, a causa della povertà e malattie che ne derivano. Ammiro comunque l’orgoglio e forza di volontà di questo popolo; invidio un po’ il loro senso di appartenenza a una nazione…
Sono occupato con meeting a livello centrale qui ad Hanoi, per discutere con le autorità sanitarie la situazione del Vietnam, riguardo i parassiti intestinali, che rappresentano una priorità, soprattutto nei bambini. Ma poi mi sposto spesso nei villaggi più remoti, per verificare se la situazione sul terreno è come mi viene presentata ad Hanoi…
Ovviamente il tempo che trascorro sul terreno è il più piacevole e interessante. Ammiro la dignità che accompagna la povertà e la profonda gratitudine che manifestano verso chi si interessa ai loro problemi. E sì che il solo interesse non li risolve…
Quello che colpisce nelle campagne è la presenza di chiese. Sapevo che il cattolicesimo sta rimontando in Vietnam: il 14% circa sono cristiani; ma è uno strano spettacolo vedere enormi costruzioni con bizantini campanili dominare villaggi di povere casupole. Sembrano astronavi atterrate da chissà quale pianeta. Molte di queste chiese risalgono agli anni della colonia. Ed ora i vietnamiti, convertendosi, se devono fare una chiesa, la costruiscono nello stesso modo: appariscente e costoso.
È facile porsi degli interrogativi. Ne discutevo durante un viaggio con il mio interprete. Mi chiese se credevo in Dio. Gli risposi di sì. Lui replicò: «Allora credi nel papa e nei vescovi?». «Non esattamente – dissi -. Credo in Dio e apprezzo quello che il papa e vescovi a volte dicono per aiutarci a essere bravi cristiani; ma, ad esempio, non sarei d’accordo con il vescovo che decida di costruire una chiesa in un villaggio dove i bambini si ammalano e muoiono di malattie parassitarie perché non ci sono latrine».
Scoppiò a ridere, dicendomi: «Secondo te, il vostro Dio preferisce che ci siano latrine per i poveri, piuttosto che chiese per onorarlo?». Gli risposi che la mia opinione non rappresenta forse quella della chiesa, ma la risposta è decisamente sì.
Abbiamo continuato su questo tono, dicendo lui (ridendo) che, se così fosse, la mia religione è vicina al popolo forse come il comunismo!
So cosa stai per replicarmi: che la fede è molto più che promuovere il sociale; che tante altre cose sono importanti nella fede, oltre a curare i malati e costruire ripari per i poveri. Ma cosa è prioritario? Cosa farebbe un Padre Buono per i suoi figli, se non curarli e coccolarli sotto un confortevole tetto?
Sono certo che nel determinare conversioni qui gioca molto questo aspetto di potenza che le grosse chiese suscitano, quasi di qualcosa che va temuto e che potrebbe proteggerli materialmente dalle difficoltà della vita. Non credi sia scorretto presentarsi così?
E tu, come va? Ricordati che sono sempre il tuo medico (almeno spero)! Come io non esiterei a dirti che mi fa male un ginocchio, anche se tu ti occupi dello spirito, apprezzerei sapere che, se avrai un problema dell’anima, magari me lo accennerai!
Fatti sentire e sii forte.
Con affetto,
Carlo
Vietnam, 10 ottobre 1998
BIANCO E NERO
Carissima suor Anna Maria,
… avrei voglia di rivederti, anche per sapere di te e della tua vita divenuta preghiera. Non che non lo fosse prima, ma ora ti immagino più tesa verso l’Altissimo che prossima agli uomini. E questa dimensione la conosco meno, a volte ho anche difficoltà a immaginarla e mi piacerà sentire da te cosa sia.
La mia dimensione «verticale» invece credo sia sempre meno evidente, o meglio, si vede meno, ma credo di sentirla con lo stesso calore. A volte sussurrare una Ave Maria in silenziosi tramonti mi causa leggeri brividi di emozione; non smetto di raccomandarmi al Signore ogni volta che vedo una prova sul mio cammino. Non so se questo basti; anzi, immagino che ci si aspetti di più da un «bravo cristiano», per cui sto quasi pensando di rimuovere il «bravo» dal cristiano che sono! Ma non ho dubbi che il Padre Buono saprà sempre alzare una mano per appoggiarmi carezze sul capo, almeno spero!
Nella vita sono sempre più esigente. La superficialità mi è divenuta intollerabile, l’indifferenza mi fa diventare quasi violento. Si dice in genere che non esiste mai una situazione con il bianco e il nero ben distinti, ma che si può trovare della ragione e del torto ovunque. Io invece, per una dolorosa passione e romanticismo, continuo a credere che si possa dire senza titubare «questo è sbagliato» o «questo fa schifo».
Occorre saper distinguere dove il Bene sta, e dove il Male si annida. Le altre letture più equilibrate e moderate mi sembrano sempre più gravi ipocrisie. A tutto si tenta di trovare giustificazioni. Sia nei fatti gravi che nel quotidiano.
Io sto con quelli che dicono che l’Afghanistan non si bombarda, che il morto americano vale esattamente quanto l’ignoto pastorello afghano o irakeno; lo stesso vale per Israele e gli abusi commessi in Palestina. Così continuo a dire che il mercato è malato e va cambiato, e così via…
Nella più semplice vita privata purtroppo ho lo stesso rigido schema mentale. Questo mi rende difficile avere amicizie con persone di cui non condivido la visione, almeno nelle cose più importanti.
Ma credimi, serpeggia un sentimento così fastidioso di razzismo, paura/rifiuto del diverso, superiorità sociale, tra gli stranieri della parte «importante» della comunità internazionale di Hanoi (qui come altre capitali) che a volte mi prende la nausea a sentire certi discorsi durante feste e ricevimenti. Sono tutti pronti a chiamarsi tra i «buoni» e condannare razzismo e violenza, ma poi dovresti vedere come trattano le baby sitters dei loro figli, o come pagano i loro dipendenti!
Per me vivere all’estero deve essere una testimonianza di barriere abbattute. Se sto in Vietnam, pur se continuo a sognare i miei dolci colli e saporiti salumi delle Marche, mi piace mangiare vietnamita, essere loro ospite quando capita, scoprire i loro costumi e cultura, ed a questo abituare i miei figli. Con loro devo dire che sono proprio contento.
Come sto? In generale sento che ho raggiunto la mia leggenda personale. Nella vita credo di aver saputo distinguere gli indizi che mi hanno guidato fino a qua; per arrivarci ho accettato di affrontare burrasche e scogli, ma ora non chiederei di meglio dalla vita.
Ringrazio Dio per tanta generosità nei miei confronti e mi sforzo di sdebitarmi, lasciando che i miei «talenti» producano germogli e piante. Vorrei fare di meglio, non tanto nel lavoro, dove do tanto, ma con gli affetti più prossimi. So quanto Giuliana, Tommaso, Luca e Maddalena (moglie e figli ndr) abbiano un dannato bisogno di me. D’altra parte ognuno di loro è per me parte essenziale della vita; a volte, soprattutto al rientro dai numerosi viaggi, avrei voglia di guardarli e toccarli per ore, per sentirli miei e far sentire loro il mio affetto.
Viaggio molto, in Cina, Thailandia, Laos, Cambogia, Filippine, altrove… Mi capita anche di fare viaggi «sul terreno», come diciamo in gergo. Lì trovo l’essenza del mio lavoro, sento l’odore della povertà e della privazione che alimenta come benzina il fuoco che anima la mia passione.
La settimana scorsa ho portato Giuliana, Luca e Maddalena in una zona montagnosa, tra minoranze etniche. Godevo al vedere i miei figli dentro capanne affumicate, a curiosare tra il nulla che costituisce la vita dei poveri.
Vorrei continuare a parlare con te… ma ti sto rubando troppo tempo. Ti abbraccio, risentendo il sapore della fratellanza in Cristo.
Con grande affetto,
Carlo
Hanoi, 5 maggio 2002

Benedetto Bellesi




Caro genitore, caro soldato

L’ articolo di Paola Bizzarri sui bambini-soldato (Missioni Consolata, ottobre/novembre 2003) mi ha suscitato la seguente riflessione.
Anche nei paesi supersviluppati esistono meccanismi molto subdoli. Pertanto succede che, invece di lavorare e guadagnare in conformità alle istanze evangeliche della pace e nonviolenza, alcuni ragazzi (ma anche ragazze), col pieno consenso dei genitori, cedono all’idea che la carriera militare sia il migliore antidoto e la migliore prevenzione contro le malattie chiamate «stress da disoccupazione, precarietà permanente, flessibilità acuta, decontribuzione cronica, postumi da Co.Co.Co., Legge Biagi», ecc.
Ebbene: credo che sia arrivato il momento di dire a questi poco più che bambini (e soprattutto ai loro familiari) che, dicendo sì al servizio militare, si dice sì ad un sistema di ingiustizie, sperequazioni e prevaricazioni. Lungi dal contribuire a creare un’Italia più credibile, un’Europa più forte e un mondo più democratico, si collabora con forze maligne (umane e sovrumane), che vogliono la rovina dell’Italia, la disgregazione dell’Europa, lo sfacelo del pianeta.
Molti genitori si sono amaramente pentiti di essersi lasciati abbindolare dalla propaganda militarista e dalla vergognosa retorica sull’«amore di patria», sul soldato italiano, inglese o americano «costruttore di pace» e sulle guerre giuste.
Non mi riferisco solo ai genitori di giovanissimi militi, morti negli scontri a fuoco con i nemici o vittime di attentati-kamikaze, ma anche ai genitori di ragazzi deceduti dopo avere subito atti di nonnismo nelle caserme, a quelli caduti sotto il cosiddetto «fuoco amico», a quelli di reclute che hanno pagato a carissimo prezzo le disattenzioni e il pressapochismo dei superiori. Mi riferisco ai genitori che i figli li hanno persi per colpa di leucemie e patologie, contratte per esposizione all’uranio contenuto nelle cluster-bombs, nei missili e in altri ordigni usati nelle tanto osannate «missioni di pace».
C aro giovane e caro genitore, la «patria» che ti chiede di legare la storia della tua famiglia a quella delle forze armate è la stessa patria che, poi, ti abbandona quando rimani ferito, menomato, irradiato… oppure quando perdi il figlio, la figlia, il marito, il fidanzato. È la patria «welfare dei nababbi», che tratta i poveri come se fossero ricchi e i ricchi come se fossero poveri (vedi le ultime leggi finanziarie, il progetto di riforma delle pensioni, la legge sul falso in bilancio che crea il terreno ideale per nuovi mostruosi crack, come quello della Parmalat).
È la patria che indennizza con 11 milioni di lire il giovane poliziotto, rimasto paralizzato dopo essere stato colpito a tradimento da malviventi, e con 6,13 miliardi il suo coetaneo dentista, che riporta lesioni a una mano dopo un incidente stradale.
È la patria che applaude e appoggia Bush nella guerra contro l’Iraq, perché Saddam Hussein rifiuta di consegnare il suo arsenale di armi chimiche, ma poi, coi suoi ministri Martino, Marzano, Pisanu, Tremonti e Frattini decide di dotare il suo esercito di materiali d’armamento «atti a determinare danni alle popolazioni o agli animali, a degradare materiali o a danneggiare le colture e l’ambiente…» (Decreto del 13 giugno 2003, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 25 luglio 2003).
Caro genitore e caro aspirante soldato, per riportare una patria così sulla retta via, è indispensabile una serena ma ferma obiezione di coscienza: obiezione all’uniforme, alle spese militari, all’operato dei piani piramidali ecclesiali (piani alti, indubbiamente; ma non sempre stare in alto tra gli uomini significa essere più vicini a Dio!), che partecipano all’attuazione delle politiche imperialiste e guerrafondaie.
Si pensi alle diocesi militari e ai loro «vescovi-generali», che inviano cappellani militari al seguito dei marines e dei loro alleati…

È un intervento provocatorio, che sottoponiamo al giudizio dei lettori.
Sul tema complesso della nonviolenza, si veda anche l’articolo «Giù il mitra, signore!» in questo stesso numero della rivista.

Lettera firmata




A tutto gas

Caro direttore,
Missioni Consolata di gennaio è più che mai ricca di intuizioni, di punti interrogativi, di frecce puntate in alto! Ho intravvisto fortissimi richiami «a vederci meglio, per non travisare contenuti che, per essere cristiani, non possono con furbizia essere cambiati per oro, che oro non è…». Ho ricompreso come la missione sia a 360°: universale.
Lo dici forte anche tu, direttore, nel «Ritoo al futuro», nella «Sfida infinita» e altrove… Per cui, sempre più, sento la riconoscenza verso di te, verso di voi, per la vostra pacata arditezza; questa non chiede una verità tra compromessi, ma chiede di fare la verità nella carità, a costo anche del martirio. Non è poco.
Auguri, caro direttore, e avanti a tutto gas… Nella gioia di sentirmi, nella nostra Consolata, con voi uno di voi, assicuro preghiere.

Chi scrive è il «senatore» dei missionari della Consolata: lucido, fedele, sereno… a 93 anni!

p. Giuseppe Mina




Scuola di pace

Cari amici,
permettete che mi rivolga a voi in questo modo. Ho già avuto modo di complimentarvi per Missioni Consolata: è una delle poche voci fuori dal coro; riesce a informare con coraggio e coinvolgere nell’umano che ci circonda.
Leggo la vostra rivista da anni (non troverete il mio nome, perché il nome dell’abbonato «storico» è Maria Cometto, che non è più tra noi, ma che mi ha lasciato tra le altre anche questa buona eredità).
Sono tra i cornordinatori della Scuola di Pace della diocesi di Albano Laziale, frequentata da una cinquantina di persone. Ho sempre ricavato dalla vostra rivista notizie e riflessioni per stimolare le mie e altrui ricerche. La monografia su La guerra. Le guerre. Viaggio in un mondo di conflitti. E di menzogne è straordinaria (cfr. Missioni Consolata, ottobre-novembre 2003).
Mi permetto di inviarvi il programma della Scuola di Pace per il 2004. Se potete darci una mano (anche con suggerimenti), saremo felici di accogliere le vostre idee. Grazie per quello che state facendo.

Tenete duro con la Scuola di Pace. Suggeriamo di collegarvi al sito de «La Scuola per l’alternativa» www.
scuolaperalternativa.it
Si veda anche l’articolo sulla nonviolenza nel presente numero.

Gianmarco Machiorlatti




Nessun ponte di cadaveri

Signor direttore,
ha ragione Giulietto Chiesa (Missioni Consolata, gennaio 2004) quando scrive che «servono ponti non muri»; ma si è dimenticato di dire ciò che dicono Sharon e la maggioranza dei cittadini di Israele: che i ponti non devono essere fatti con i cadaveri degli ebrei.
Nello stesso giorno in cui avveniva lo scambio di 400 prigionieri palestinesi con tre bare di ebrei, una giovane mamma (si fa fotografare con un figlio in braccio che ha in mano una bomba) si è fatta esplodere procurando nuovi «mattoni» per il ponte.
Almeno l’attuale papa condanna anche i terroristi e ritiene gli ebrei «nostri fratelli», anche se è meglio sorvolare sull’atteggiamento assunto nel passato dalla chiesa verso gli ebrei. La parola «deicidio» non l’ha inventata Hitler.
Ha ancora ragione Chiesa quando dice che il terrorismo in Iraq prima non c’era, perché prima i curdi e gli sciiti morivano gasati (le famose armi, che ora non si trovano, sono volate in cielo?). Anche gli iracheni morivano a migliaia, dopo la tortura patita nelle prigioni sotterranee di Saddam Hussein.
Prima, Saddam ha potuto fare la guerra per otto anni all’Iran, occupare il Kuwait, farsi decine di palazzi favolosi e, per ultimo, dopo la cattura, dichiarare di aver 40 miliardi in Svizzera (cfr. Corriere della Sera, 30 dicembre 2003) e così permettere agli ipocriti di dire che, se il popolo era in miseria, la colpa era degli Usa (vedi embargo). Era meglio prima per gli orfani di Saddam!
Tutti questi fatti quando li ha descritti Giulietto Chiesa?

I «ponti» non si fanno con cadaveri, né israeliani, né palestinesi, né…
I «ponti», come le chiese, si costruiscono con «pietre vive» (cfr. 1 Pt 2, 5).

Rinaldo Banti




Perché siamo così

Egregio direttore,
le sarò grato se tenterà di rispondere a questa domanda: perché il Creatore dell’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza e il cui corpo è tempio dello Spirito Santo, lo ha costretto a non assimilare completamente i liquidi e i solidi di cui deve nutrirsi, e, peggio, lo ha costretto alla fastidiosa umiliazione di subire l’ultima fase della digestione e di espellere sostanze repellenti?
Anche Gesù Cristo, risorto col suo corpo (benché trasfigurato), e la Madonna, trasferita col corpo in una condizione esistenziale superiore, hanno avuto bisogno di nutrirsi: quindi hanno subìto la conseguenza dell’ultima fase della digestione?
Gesù, per dimostrare ai discepoli che era veramente risorto col corpo e non era un fantasma, chiese loro qualcosa da mangiare e mangiò realisticamente uno o più pesci. Pertanto si sottopose, pur avendo un corpo trasfigurato, alla dura legge del metabolismo chimico, fisiologico e alle fasi finali della digestione.
O è tutto un mistero? Così come la forma e l’essenza della risurrezione del nostro corpo?

Lettera anomala, sotto alcuni aspetti… La risurrezione dai morti è «soprattutto» un mistero, un mistero da credere, ma anche da «aspettare», secondo il nostro credo.
Perché Dio ci abbia creati «così» è pure un mistero, anche oscuro. Forse, per renderlo più «chiaro», il filosofo-teologo Karl Barth ha suggerito di mutare il famoso cogito ergo sum di René Descartes in «cogitor» ergo sum. Cioè: esisto, perché sono pensato, sono amato (da Dio).

Aaldo Simonetta