ROMANIA – Via del silenzio n° 13

1989: a Berlino crolla il muro della vergogna.
Scoppia… «la terza guerra mondiale»,
che libera l’Est europeo dal comunismo:
una guerra unica nella storia, perché incruenta.
Fa eccezione la Romania, che trucida lo stesso presidente Nicolae Ceausescu.
A 15 anni di distanza, come si vive a Bucarest?
La fatica è palpabile.
La testimonianza anche di un nunzio e un arcivescovo.

Tutti affermano che sia sempre spettinato e noi lo confermiamo. Così, almeno, ci è apparso durante il nostro soggiorno in Romania, ospiti in casa sua con padre Antonio Rovelli, direttore dell’animazione vocazionale dei missionari della Consolata in Italia.
Eccolo, con i capelli arruffati, ad accoglierci all’aeroporto della capitale Bucarest. «Benvenuti in Romania! Avete fatto buon viaggio?». Si esprime in italiano, oltre che in francese, tedesco e romeno naturalmente. La sua stretta di mano è calorosa, vigorosa. Gli occhi sorridenti. Si chiama Martin Cabalas (*), sacerdote cattolico di rito latino. Supera di poco la cinquantina, ma dalla sua chioma bianca e strapazzata sembra più attempato.
Saliamo sull’auto del prete romeno. È rumorosa e abbastanza sgangherata. «Dovrei cambiarla – mormora nell’accorgersi che fatichiamo un po’ a chiudere la porta -. Però una nuova macchina è cara in Romania». Lungo la strada adocchiamo file di vetture come quella (se non peggiori) del nostro conducente.
A una curva, ci balza incontro un palazzone mastodontico, curioso e pacchiano, con numerosi piani, tutto a guglie dentate. È un centro amministrativo del governo, «dono» a suo tempo del popolo sovietico a quello romeno, allorché l’Urss era una superpotenza politica e militare. Ne ricordiamo altri, tutti identici, fotografati in Cina e, ovviamente, in Russia.
L’automobile rallenta, gira a sinistra e imbocca Strada Linistei (Via del Silenzio), tutta buche e sassi, che accentua la precarietà del mezzo di trasporto. Ma il tratto è breve, perché al numero 13 di Via del Silenzio siamo a destinazione, nell’abitazione di padre Martin.
Appena entrati, udiamo di nuovo parlare italiano. È una voce del nostro tg1: annuncia che a Roma due romeni sono stati rinvenuti carbonizzati in una baracca, anch’essa bruciata.
Erano immigrati clandestini.

SENZA SPERANZA

L’emigrazione di romeni, esplosa dopo la scomparsa di Nicolae Ceausescu (1989), è un tema di conversazione con l’arcivescovo Jean Claude Perisset, svizzero di lingua francese, nunzio apostolico del Vaticano in Romania. Secondo il presule, circa un milione e mezzo di romeni vivono all’estero: non pochi su una popolazione di 23 milioni. Il piccolo Israele, da solo, ne accoglie 50 mila. L’emorragia non si è ancora arrestata, considerando che il 20% dei giovani intende abbandonare il paese.
«Con le rimesse di denaro – osserva Perisset – gli emigrati costituiscono senza dubbio un reddito per le loro famiglie. Ma il prezzo umano pagato è salato. Si veda, per esempio, la tragica fine di quei due poveretti carbonizzati a Roma». Scartato l’incidente domestico, non è inverosimile la vendetta di qualche gruppo straniero, clandestino e malavitoso.
«Per non parlare delle ragazze – incalza l’arcivescovo -. Spesso, ingannate, finiscono sui marciapiedi delle vostre città italiane. In ogni caso si emigra dal paese per mancanza di speranza».
La Romania è candidata a entrare nell’Unione Europea. Questo fatto non potrebbe costituire un’iniezione di fiducia?
«Potrebbe – è la risposta di mons. Perisset -. Ma il processo sarà lento e faticoso. Prima, bisogna arginare la corruzione dilagante, ridimensionare la burocrazia, privatizzare con intelligenza, ridurre l’indebitamento dello stato (che al contrario aumenta). Nel frattempo il divario sociale fra ricchi e poveri si sta accentuando: il 36% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. C’è persino chi afferma che i disagiati raggiungano il 45%».
Alcuni imprenditori italiani, veneti in particolare, operano in Romania. A Timisoara e dintorni sarebbero circa 3 mila le piccole aziende nostrane. Garantiscono un po’ di benessere anche agli operai locali?
«Certo – risponde Perisset -. Ma non si dimentichi lo sfruttamento di manodopera a basso costo. Inoltre sembra che il boom dei vostri piccoli imprenditori stia sgonfiandosi. Alcuni stanno già smobilitando, per andare in Cina».
I segni materiali del degrado sociale a Bucarest sono evidenti: strade dissestate, autobus obsoleti, caseggiati malandati, fogne scoperte. Grava la tristissima eredità di Ceausescu. Il paese non ha saputo o potuto capovolgere la situazione, perché condizionato ancora dalla Russia. Così, economicamente, ha perso l’ultimo decennio.
Impressiona la penuria degli anziani, che sognano il ritorno del comunismo, o quella dei «barboni»; questi ultimi sarebbero circa 5 mila nella sola Bucarest.
Un’altra piaga è costituita dal numero di aborti: un milione all’anno. A prescindere dalla gravità morale, il fenomeno denuncia il problema di molte bocche da sfamare senza mezzi. Oppure si abbandonano i neonati non desiderati.

RAGAZZE DI STRADA

L’abbandono di bambini era praticato durante il comunismo: un fenomeno che lo stato arginava con gli orfanotrofi. Ma, raggiunti i 18 anni, gli orfani erano messi in libertà, dovendo badare a se stessi, ma senza alcun sostegno economico. Ossia erano buttati sulla strada.
Abbiamo incontrato quattro ragazze, sopra i 20 anni, provenienti dagli orfanotrofi statali e dalla strada. Si sono salvate dalla prostituzione coalizzandosi fra loro, fuggendo da «protettori» senza scrupoli, trascorrendo lunghe notti rannicchiate sotto i ponti. Oggi, con altre compagne dello stesso ambiente (una ventina), si avvalgono dell’aiuto morale e organizzativo di suor Anna, romena, della congregazione di santa Giovanna Antida. Vivono insieme in appartamenti. Lavorano part time come colf o in piccole aziende, accontentandosi di qualsiasi stipendio, con il quale pagano l’affitto dell’alloggio, le spese di condominio e si mantengono. Come altri romeni (complice la televisione), si esprimono un po’ in italiano.
– Perché non mi porti in Italia – si fa avanti una.
– Anch’io, anch’io! – fanno coro tutte le altre.
– E che cosa farete in Italia?
– Lavoreremo tutto il giorno. Poi ci compreremo un alloggio qui a Bucarest.
Possedere una casa è il sogno di tutti i cittadini in affitto, perché il costo di un alloggio è pazzesco nei centri urbani: a Bucarest, per due stanze, un cucinino e il solo water, si pagano 130-150 euro al mese, a fronte di stipendi che si aggirano su 90 euro. Insomma: la casa in proprio, più che un sogno, è un miraggio.
Le quattro ragazze parlano e ridono con eccitazione. Una però è tacitua, assente: e quasi subito si abbandona a succhiare il dito come una bimba. «Psicologicamente sono tutte infantili, anche se hanno 20-25 anni – commenta suor Anna -. Bambine tarate dalle umiliazioni e percosse subite durante i tanti anni di orfanotrofio. Vorrebbero sposarsi e formare una famiglia. Ma temono gli uomini. Non si fidano neppure dei loro padri, perché le hanno abbandonate».
Una sera inoltrata, mentre rincasavamo camminando verso Via del Silenzio, abbiamo notato alcune ombre aggirarsi attorno ai tombini dell’acqua. Erano «ragazzi di strada», anch’essi rifiutati dai genitori e provenienti da orfanotrofi statali. In città vivono di espedienti.
E che facevano quella sera? Stavano organizzandosi per passare la notte in un meandro della rete idrica di Bucarest: sempre meglio dell’addiaccio, specie se piove o spira la gelida tramontana. Qualcuno li ha battezzati «i ragazzi delle fogne».
Alcuni coetanei sono ritornati dai genitori; ma, trovandosi a disagio tra passato e presente, trascorrono molte ore dai missionari maristi, per esempio, che mettono a disposizione sale con libri, computer e giochi.
I maristi (due spagnoli e un greco) non sono sacerdoti, ma fratelli religiosi, con voto di povertà, castità e obbedienza. «Non siamo molto apprezzati – si lamentano -. Secondo l’opinione pubblica ortodossa (ma anche cattolica), non siamo né carne né pesce. Qui, a Bucarest, sembra che non vi sia spazio e lavoro per i fratelli. Per questo pensiamo di trasferirci altrove».

LA CALATA DEI BARBARI

Caduto il regime ateo di Ceausescu, numerose congregazioni religiose dell’Europa occidentale hanno messo piede in Romania. Secondo il nunzio J. C. Perisset, sarebbero troppi gli istituti religiosi stranieri approdati nel paese: addirittura un centinaio, di cui 80 femminili. Tutti per… reclutare vocazioni. «Nei primi anni ’90 – spiega mons. Perisset – i giovani che entravano in seminario o convento erano tanti. Ma ora non più: a tal punto che alcuni centri, costruiti in fretta per accogliere tutti i candidati al sacerdozio e alla vita religiosa, oggi stanno tramutandosi in collegi per studenti».
Al comunismo si è quasi subito sostituito il materialismo dell’«usa e getta» del capitalismo. Di qui la brusca frenata delle vocazioni sacerdotali. Inoltre non si scordi che la stragrande maggioranza dei preti e delle suore romeni proviene dalla regione della Moldavia (da non confondere con l’omonima repubblica indipendente), dove i cattolici raggiungono il 20%.
Indubbiamente nel 1989 la caduta del muro di Berlino ha offerto alla chiesa cattolica nuove possibilità. Per convertire la popolazione al cristianesimo? Ma la Romania non è «pagana», anzi è cristiana. Quindi è fuori luogo parlare di conversione.
In realtà le istituzioni cattoliche occidentali hanno guardato all’Est europeo, in genere, con lo spirito di una «nuova evangelizzazione», alla stregua del papa polacco Karol Wojtila. Tuttavia i gruppi religiosi stranieri, soprattutto cattolici, sono accusati di proselitismo dal clero ortodosso: attirerebbero i fedeli nelle proprie comunità con gesti accattivanti di beneficenza. Di più: la loro discesa in campo è stata talora paragonata alla «calata dei barbari».
In Romania lo stesso clero cattolico, sia di rito latino sia di rito orientale, non è interamente soddisfatto dei confratelli stranieri, anche perché troppo innovativi nella pastorale e nella liturgia. Ce l’ha ricordato Ioan Robu, arcivescovo cattolico di Bucarest. Secondo il prelato, la comunione in mano ai fedeli, per esempio, è prematura e i canti liturgici, accompagnati da chitarre, suscitano perplessità.
Il 7-9 maggio 1999 Giovanni Paolo ii visitò la Romania. Fu una visita altamente ecumenica, che smussò alquanto le spigolosità anticattoliche dei gerarchi ortodossi e avallò il desiderio profondo di unità di tutti i cristiani. Il grido «unitate, unitate!», al termine della visita del papa, fu inatteso quanto gradito. Inoltre il viaggio calamitò l’attenzione mondiale grazie alla «Dichiarazione comune» delle chiese (cattolica, ortodossa e protestante) sulla guerra in Kosovo, proprio mentre infuriava il fuoco bellico. «Dove sono le nostre chiese, quando il dialogo tace e le armi fanno sentire il loro linguaggio di morte?» si domandò il pontefice.
Al di là delle discussioni teologiche, il cammino verso l’unità delle chiese cristiane passa attraverso comuni impegni sociali, non esenti da scelte politiche controcorrente. Ciò sarebbe rivoluzionario per le chiese ortodosse, autocefale, spesso vincolate alla nazione di appartenenza anche politicamente.

Oscurità e foschia ovattano Via del Silenzio, rendendola più muta. Sennonché, di tanto in tanto, si odono uggiolii di cani o grida festanti di bambini, zingari rom, che giocano intorno a un falò all’interno di una staccionata…
Domani ritoeremo a Torino.
Alle ore 19 padre Martin Cabalas invita cortesemente il collega Antonio Rovelli a presiedere l’eucaristia in italiano.
– In italiano, no – replica istintivamente il missionario.
– Non temere! Qui sono abituati…
È vero. Da anni, durante l’estate, vari gruppi giovanili (specialmente della diocesi di Treviso), accompagnati da un «don», sono ospiti del sacerdote romeno per campi di conoscenza e lavoro. Tra l’altro padre Antonio è a Bucarest per organizzae uno speciale, che prevede giovani italiani, spagnoli e portoghesi, legati ai missionari della Consolata nei rispettivi paesi.
Alla messa partecipano anche le suore di santa Antida, i fratelli maristi, nonché tre missionarie di madre Teresa di Calcutta: tre volti differenti, cioè uno indiano, uno tanzaniano e uno polacco. La liturgia è animata da un concerto di sei chitarre, che secondo padre Martin non «stonano», anzi! Qualche fedele riceve la comunione in mano.
Dopo l’«andate in pace» del sacerdote, si celebra un’altra eucaristia, ma in rito orientale, perché padre Martin condivide la chiesa con altri credenti, giacché… esiste «una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio, Padre di tutti».
«Questo è un merito ecumenico, esclusivo del nostro parroco – dichiara una certa Maria -. Sì, perché il prete greco-ortodosso, se disponesse di una sua chiesa, probabilmente non ricambierebbe il favore ai cattolici».
Maria, a pochi passi dal sorridente e costantemente spettinato padre Martin, è avvolta in uno scialle nero, che le incoicia con grazia il volto. Per contrasto, i suoi occhi azzurri brillano di un fulgore abbagliante.
Si congeda con una piccola genuflessione, scandendo: «Laudetur Iesus Christus!». Nientemeno.

Nel baratroda lui stesso scavato

«Conducator» in romeno significa conduttore: di un autobus, per esempio. Un termine comune per un’attività normale. Ma in Romania, allorché il conducator si chiamava Nicolae Ceausescu, la vita si inasprì maledettamente.
«Securitate» (sicurezza) è un’altra parola di uso corrente. Però la Securitate, al soldo del despota Ceausescu, si tramutò in famigerate repressioni da parte della polizia segreta. E il tonfo del dittatore marxista fu tragico. Si tenne un processo-farsa: il conducator e la corrotta consorte Elena furono giustiziati in segreto nel natale del 1989. Fu pure una vergogna in un paese che si dichiara cristiano quasi al 100 per cento.
Eppure, solo un mese prima, gli oltre 3.300 delegati al Congresso del Partito comunista avevano osannato il conducator e l’intera sua famiglia. Ma dal 24 novembre 1989 (fine del Congresso) al 15 dicembre (inizio delle rivolte contro il regime a Timisoara) la Romania imboccò un’altra via. Il vento della perestrojka sovietica, che aveva già abbattuto il muro di Berlino, investì furioso anche Nicolae Ceausescu e lo travolse.

Tutto fu quasi fulmineo, perché la voragine di miseria, scavata in 25 anni di dittatura, era enorme e profonda: code interminabili davanti ai negozi di alimentari e razionamento di cibo (ad esempio: un chilo di carne per famiglia, ossa comprese); sottoproduzione agricola in un paese che, in antecedenza, esportava cereali; coabitazione di vari nuclei familiari in uno stesso e squallido appartamento; spopolamento di migliaia di villaggi per una politica agricola diversa, dove i contadini erano sottoposti a controlli capillari; arretratezza di impianti industriali per mancanza di investimenti; culto dei «papaveri» del partito ed esportazione in Svizzera di ricchezze sottratte al paese; nepotismo e privilegi concessi ai 20 mila adepti della Securitate (con offesa dell’esercito); fuga di intellettuali, quali Eugène Jonesco, Paul Goma, ecc.
E, soprattutto, la scomparsa di 60 mila persone. Ma le vittime sono state più numerose: 60 mila sarebbero solo i morti in seguito alle repressioni dei tumulti popolari di dicembre 1989 (cfr. La Civiltà Cattolica, 7 aprile 1990).
Tuttavia, all’estero Ceausescu aveva brillato come una stella di prima grandezza: Richard Nixon e Charles de Gaulle lo avevano applaudito, perché oppositore dell’Unione Sovietica; la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e la Comunità economica europea gli avevano spalancato le porte.

Al conducator successe un ex comunista, Ion Iliescu. Però la pace sociale era lontana.
Nel 1999, a un decennio dalla fine del regime di Ceausescu, Nicolae Coeanu, arcivescovo ortodosso di Timisoara, dichiarò: «La democrazia ha creato non poche difficoltà: la più grande riguarda il campo economico-finanziario. A livello politico, la democrazia ha prodotto una sorta di caos. Vi sono persone, formate durante la dittatura comunista… e queste non possono più cambiare radicalmente. Spero che le difficoltà siano superate nel corso dei prossimi anni» (cfr. Il regno, 8/1999).
Nel dicembre dello stesso 1999, uno sciopero di minatori (migliaia e migliaia di litri di cianuro furono versati nei fiumi) e aspri dissidi politici costrinsero il governo di Radu Vasile alle dimissioni. Al potere ritoò Iliescu, in carica tutt’oggi.
Fra gli obiettivi del leader spicca il progetto di entrare nell’Unione Europea. È un obiettivo non facile, perché suppone un risanamento economico con «lacrime e sangue».

Francesco Beardi




“Un personaggio da conoscere”

La FAND, Associazione Italiana Diabetici, è una associazione di volontariato fondata nel 1982 dal dottor Roberto Lombardi, che riunì in una Federazione le numerose associazioni già esistenti, ricche di ideali e di buona volontà, ma divise e senza alcun peso «politico». R. Lombardi introdusse nel mondo del volontariato una strategia dinamica, obiettivi e programmi volti a concretizzare le attese dei diabetici in campo sanitario e sociale.
Una malattia cronica, comune a più del 3% della popolazione e in continua crescita, è divenuta per tanti cittadini ragione di aggregazione, allo scopo di migliorare le proprie conoscenze sulla malattia, curarla meglio e richiedere allo stato (Legge 115/1987) una rete di servizi diabetologici efficiente e diffusa su tutto il territorio.
In Piemonte, la FAND è rappresentata da 15 associazioni, ciascuna con un Consiglio direttivo, un Presidente ed un Coordinatore regionale (il sottoscritto), che fa parte della Commissione diabetologica regionale e del Consiglio nazionale della FAND.
Una volta all’anno il Coordinatore riunisce i Presidenti delle associazioni piemontesi e i loro collaboratori per un aggioamento sui problemi scientifici ed organizzativi dell’assistenza diabetologica. A conclusione di questo annuale appuntamento, viene presentato un «Personaggio da conoscere» per i suoi meriti etici e sociali.

Q uest’anno sono stato particolarmente orgoglioso di presentare un amico, missionario della Consolata: padre Giordano Rigamonti.
La nostra amicizia risale alla fine degli anni Sessanta, quando, lui giovane missionario, ed io, giovane medico, collaborammo con Mani Tese al progetto (realizzato) dall’ospedale di Tosamaganga, diocesi di Iringa, Tanzania. Fummo ancora insieme nel ‘71 per una visita agli ospedali missionari nel nord del Kenya.
Negli anni successivi le nostre strade si divisero, e la sua lo riportò in Kenya, in Tanzania e a tante iniziative missionarie che lo videro protagonista.
Ma un altro evento fece sì che le nostre strade si ritrovassero. A gennaio 2002 terminava l’avventura terrena del dottor Lombardi, e la FAND mise a disposizione 50.000 euro per una iniziativa che lo ricordasse. Tra le proposte avanzate trovò unanime consenso la mia: COSTRUIAMO UNA SCUOLA IN AFRICA.
I padri Mario Valli e Giordano Rigamonti si prodigarono per la definizione del progetto-scuola, che sorgerà a Porò, missione di Morijo, diocesi di Maralal.
Alla nostra riunione annuale padre Giordano è stato accolto con curiosità ed interesse e, man mano che parlava, l’interesse si è trasformato in commozione specialmente quando padre Giordano ha concentrato il suo intervento sull’epidemia di Aids, che sta travolgendo l’Africa sub-sahariana. Trenta milioni di sieropositivi, 3,5 milioni di nuovi casi e 2,5 milioni di morti nel solo 2003!
Saremo capaci, noi occidentali, con la nostra ricchezza e le nostre tecnologie di porre un argine a questo genocidio?
Dice un canto africano: «Quante orecchie occorrono, dunque, ad un uomo per sentire gli altri piangere?».
Grazie, padre Giordano, di averci comunicato così intensamente il tuo personale tormento e di averci aperto orecchie e cuore alla ricerca di un contributo alla soluzione di una difficile sfida.

Gian Maria Ferraris
Coordinatore di FAND in Piemonte

Gian Maria Ferraris




Nel clamore di sabato notte

Egregio direttore,
le ricordo due piccoli avvenimenti a Torino. Sono pure nascosti. Infatti avvengono di notte, quando il clamore invade la città con le discoteche, i locali di piacere e la tivù assorbe tutti.
In tale contesto un manipolo di persone, «un piccolo resto», si raccoglie in preghiera per sé e per tutti. Questo è iniziato 12 anni fa a S. Maria di Piazza. Poi le veglie sono diventate quattro. È una grazia che Torino abbia una chiesa aperta al sabato notte, per vegliare con buona volontà e sacrificio.
Le chiese sono: 1° sabato, Corpus Domini, via Palazzo di Città 20; 2° sabato, chiesa dell’Immacolata, via Nizza 47; 3° sabato, chiesa N.S. di Lourdes, corso Francia 27; 4° sabato, chiesa S. Maria di Piazza, via Santa Maria 4.
Il secondo piccolo avvenimento (che da 11 anni ha luogo a Torino) è il pellegrinaggio alla basilica di Superga la ii domenica di maggio; si prega la Madonna di Fatima per la pace nel mondo. Partenza alle ore 8,00 dal santuario della Consolata, arrivo a Superga alle 12,00 e conclusione con la messa.
Antonio Strina
(per il gruppo) Torino

Segnaliamo volentieri i due piccoli avvenimenti. Gutta cavat lapidem (la goccia scava la roccia). Cell: 3384736982.

Antonio Strina




Il compito in classe di Federico

Egregio direttore,
chi le scrive fa parte di una numerosa famiglia di abbonati a Missioni Consolata da lungo tempo. Le considerazioni che seguono vengono dal cuore e dalla mente di una persona affezionata alla rivista, dopo sofferta riflessione.
Leggendo il compito in classe di Federico, a pagina 7 del numero di marzo 2004, rimango veramente sorpresa e profondamente colpita da tre cose.
Primo: un ragazzo di terza media che si esprime secondo quanto ascolta in classe e in famiglia, sicuramente da persone adulte, che ben poco sanno educare all’equilibrio di giudizio con cui un ragazzo deve crescere.
Secondo: il giudizio dell’insegnante, che brilla per genericità e incompetenza, poiché, trattandosi di fatti attuali, non si può parlare di giudizi non sempre sostenibili storicamente e di periodo storico; inoltre l’insegnante dà un giudizio sintetico («forma: quasi buona»), che in italiano non si capisce che cosa significhi.
Terzo: la giustificazione da parte della rivista missionaria che, in ragione della famiglia, pubblica un esempio di assoluta irresponsabilità da parte di adulti, che, invece di biasimare un simile compito e di smorzare i toni di polemiche fin troppo accese, dà spazio esemplare a quanto ogni lettore della rivista mai si aspetterebbe: ovvero che l’argomento per voi centrale sia la guerra, anziché la pace.
Gentile direttore, la saluto cordialmente nella speranza che da parte della redazione prevalga la cortesia di pubblicare anche opinioni diverse da quelle di Federico, della sua mamma, dell’insegnante ed eventualmente della rivista.
Anna Riccetti Billi
Roma

La guerra ci interessa più della pace? Ma scherziamo!?! Crediamo di aver dimostrato il nostro no alla guerra anche con il numero di ottobre 2003, titolato dal lettore precedente «contro le guerre» e da noi «viaggio in un mondo di… menzogne».
Il non aver pubblicato il compito di Federico avrebbe significato l’abbandono al loro destino di due mondi (famiglia e scuola) che, invece, devono incontrarsi, anche scontrandosi… Siamo d’accordo con l’appello all’educazione. Se, talora, non prendiamo subito posizione, è perché lo sanno fare bene i lettori. Lei, signora Anna, ce l’ha confermato.

Anna Riccetti Billi




Annalena Tonelli martire

Caro direttore,
grazie per lo stupendo articolo-testimonianza su Annalena Tonelli (Missioni Consolata, marzo 2004). Da ottobre dello scorso anno, la sua figura (che avevo conosciuto nel febbraio 1984 a causa del massacro di Wajir, in Kenya), mi «perseguita».
A seguito di quel racconto, con alcuni missionari Fidei donum avevo scritto una lettera di protesta a mons. Ndingi, allora presidente della Conferenza episcopale kenyana per il silenzio dei vescovi.
Annalena, che incontravo talvolta a Nairobi, mi dava la carica. Ringrazio Dio di averla conosciuta.
don Piero Gallo
Torino

Missionaria laica in Kenya e Somalia per 33 anni, Annalena Tonelli fu assassinata a Borama (Somaliland) il 5 ottobre 2003. Una martire vera.

don Piero Gallo




Uniti si vince

Caro direttore,
partendo da Missioni Consolata, ottobre 2003 (contro le guerre) e dal numero di gennaio 2004 (Iraq in guerra), entrambi ottimi, vorrei sottoporle alcuni rilievi.
1. Noi cattolici non crediamo alla pubblicità, al suo «potere». Altrimenti, perché non inviare il numero contro le guerre ai governanti, a cominciare da Berlusconi, che hanno appoggiato moralmente (e stanno appoggiando direttamente) l’azione (mi astengo dal definirla) di Bush e Blair? Perché non inviare quel servizio perfetto ai giornali (e giornalisti), a cominciare da Libero di V. Feltri, che hanno umiliato e offeso i milioni di cattolici e non, i quali hanno manifestato coraggiosamente contro Bush e la guerra?
2. Noi cattolici siamo divisi, dispersi. La rivista La Civiltà Cattolica, 3 gennaio 2004, scrive: «Già nel 1965 Lazzati riconosceva che, quantitativamente, l’editoria giornalistica cattolica era notevole (circa 2.000 testate), ma notava amaramente che incideva ben poco sull’opinione pubblica. Purtroppo la diagnosi è corretta…». L’articolista concludeva: «Se vogliamo ricompattare il laicato, dobbiamo iniziare a superare la frammentazione del giornalismo cattolico».
Noto che Missioni Consolata, Nigrizia e Missione Oggi si equivalgono (sotto molti aspetti) per chiarezza di linguaggio (parresia, secondo san Paolo e «parlar chiaro» secondo Thomas Merton), per coraggio e impostazione di tematiche. Dico solo: uniti si vince (divide et impera, ci insegnano i Romani, cioè vince chi riesce a dividere l’avversario).
Nota bene. C’è anche il problema di costi. Personalmente, per fare un esempio (tratto dalle Edizioni Paoline), dovrei abbonarmi a Famiglia Cristiana, Letture e Jesus. Si tratta di una suddivisione che non sta in piedi, dato che il prodotto è di un unico «proprietario». Non ci vuole un granché per capire che L’Espresso o Panorama incidono di più.
Ambrogio Vismara
Cuggiono (MI)

Il nostro parere «personale» collima con il suo, signor Ambrogio. Il mondo editoriale missionario, tuttavia, sta camminando verso l’unità con qualche buon esito: ad esempio con l’EMI (editrice missionaria italiana) e la MISNA (agenzia di informazione missionaria). EMI e Misna sono della CIMI (conferenza degli istituti missionari in Italia).

Ambrogio Vismara




Kosovo: fermiamo l’orrore

Attraverso Enrico Vigna, presidente dell’Associazione SOS Jugoslavia, è giunto in Italia il seguente appello:
«Agli amici del popolo del Kosovo Metohija e del popolo serbo, alle associazioni come la vostra, conosciuta e stimata per quanto fatto finora per la nostra gente, vi giunga l’appello da questa terra martoriata, dove in questi giorni il sangue e la guerra sono nuovamente parte della nostra già difficile quotidianità di questi terribili e duri cinque anni trascorsi dai bombardamenti della Nato e dalla conseguente espulsione e pulizia etnica di centinaia di migliaia di nostri fratelli e sorelle dalle proprie case e campi, dalle proprie radici millenarie e molte migliaia anche strappati alla vita e all’affetto delle loro famiglie, mediante assassinii e rapimenti.
Vi chiediamo di attivarvi in qualsiasi modo e forma per contribuire a cercare di fermare l’orrore e il bagno di sangue, causati da forze terroristiche che distruggono, incendiano, uccidono e lapidano uomini e donne che da sempre vivono qui.
Vi chiediamo di informare correttamente quali sono le verità e la realtà di quanto sta accadendo, di chiedere a tutte le persone oneste e che credono nei diritti umani nel vostro paese di aiutare il nostro popolo a non subire un vero e proprio genocidio. Distruggono anche gli ultimi cimiteri, monumenti e monasteri della cultura ortodossa che non avevano distrutto in questi anni.

Siamo stanchi di vedere i nostri campi e le nostre case bruciate, di essere vessati, uccisi, perseguitati con la sola colpa di essere serbi e di voler continuare a vivere dove da centinaia di anni abbiamo sempre vissuto. In una terra per la cui difesa dalle aggressioni e dalle occupazioni degli stranieri invasori, nella storia, sempre abbiamo versato fiumi del nostro sangue. Siamo stanchi ma non consegneremo ad assassini e terroristi estremisti la nostra terra, le nostre vite, le nostre radici, la nostra dignità. Dovranno ucciderci tutti, anche i nostri figli e le nostre mogli. È un nostro diritto.
Le chiediamo di divulgare queste parole, di dare voce a noi, semplici cittadini, stranieri a casa propria, di un popolo senza voce, senza televisioni, senza neanche più la forza per urlare la nostra indignazione e le nostre ragioni. Ma determinati a non cedere.

Nel nostro ospedale di Kosovska Mitrovica non ci sono più posti liberi, non ci sono sufficienti medicinali, né sufficiente sangue per colmare quello versato dagli estremisti albanesi; da ogni angolo di questo Kosovo crocefisso, questo è l’ultimo lembo di terra dove confluiscono i nostri fratelli e sorelle scacciati dalle bande assassine, che dopo averli terrorizzati e incendiato le case, non sono riusciti ad assassinare.
Nelle nostre case scarseggia tutto, i nostri figli non hanno più nulla che non sia paura e angoscia. Aiutateci a fermarli, che la gente onesta e buona si alzi per gridare basta, la nostra amicizia e fratellanza sarà eterna.
Noi siamo ancora in piedi e fermi nella volontà di fermarli, di resistere, ma siamo soli con i nostri fratelli della Serbia. Ci dicono gli inteazionali di qui, perché siamo serbi.
Sappiamo che voi e le vostre associazioni non la pensate così, per questo confidiamo sulla vostra amicizia e impegno. Ma fate presto.
Con rispetto e tanta amicizia».

Cittadini e cittadine di Kosovska Mitrovica,
Associazioni dei Profughi in Serbia

(Per contatti o maggiori informazioni:
enricoto@iname.com; oppure: 328/7366501)

Autori vari




VENEZUELA 2004 Tra Bolivar e Chávez (prima puntata)

Introduzione
VENEZUELA 2004
(e la maledizione del petrolio)

Sono molte le immagini che si sono
impresse nella mente durante il mio viaggio in Venezuela. Dire che il
paese è diviso in due parti antitetiche e contrapposte può sembrare
semplicistico, ma l’affermazione non si discosta troppo dalla realtà.
Ricordo le lacrime silenziose della ministra dell’ambiente, Ana Elisa
Osorio, medico, quando raccontava delle «amiche» che l’hanno ripudiata
perché lei è entrata nel governo dell’odiato Hugo Chávez Frias. Ricordo
la faccia triste dell’ex ministro della pianificazione, Jorge Giordani,
ingegnere laureato a Bologna, quando ci raccontava il comportamento dei
suoi vicini di casa: costoro ogni sera, per mesi, avevano inscenato
rumorose ed offensive proteste davanti ai cancelli della sua abitazione
perché lui e la sua famiglia se ne andassero dalla zona. Ricordo gli
occhi pieni di felicità di Maylin Rodriguez Beltran, giovane mamma del
barrio Sucre, a Caracas, quando ci mostrava l’atto di proprietà della
propria casa (già abusiva), appena ricevuto dal governo.

Ricordo
il racconto di padre Agostinho, missionario della Consolata: «Le
divisioni tra chavisti e anti-chavisti si manifestano anche nella mia
chiesa. Qualche tempo fa, una signora durante una messa ha chiesto agli
altri fedeli di pregare perché Chávez se ne vada. Davanti a questi
fatti io, prete, come debbo comportarmi?». Ricordo l’accorato
comunicato di un gruppo di suore favorevoli a Chávez (chiamato «hermano
Presidente»), che si concludeva così: «Noi gridiamo che vale la pena di
vivere in Venezuela: oggi, qui ed ora».

Il Venezuela è uno dei
maggiori esportatori mondiali di petrolio. In America Latina è il primo
produttore. La «Petróleos de Venezuela» (Pdvsa, detta Pedevesa nel
linguaggio corrente), la compagnia petrolifera di proprietà pubblica,
ha sempre generato enormi profitti, che però invece di arrivare nelle
casse dello stato in larga parte sono andati a gonfiare conti bancari
privati, in patria come all’estero. Forse per questo i dirigenti di
Pedevesa si sono apertamente schierati con la «Coordinadora
democratica» (l’eterogenea alleanza che raggruppa gli anti-chavisti).
Poco importerebbe se essi non fossero riusciti a bloccare per mesi
(attraverso uno sciopero, ma anche con autentici atti di sabotaggio) la
produzione di greggio, portando il paese ad un passo dalla bancarotta.
Difficile fare previsioni sul futuro del Venezuela. Il presidente
Chávez (ammesso che resista) indirà le elezioni nel prossimo agosto? Se
sì, i contendenti accetteranno il successivo responso delle ue? Un
eventuale ritorno dell’opposizione al governo, comporterà anche un
ritorno ad un modello economico dove l’80 per cento dei venezuelani è
costretto a vivere nella miseria?

Pa.Mo.


VOCI DA PIAZZA ALTAMIRA:
«NOI TORNEREMO»

Dicono
che il presidente Hugo Chávez Frias sia un dittatore, legato a Fidel
Castro e al comunismo internazionale. Ma non parlano da un carcere o
dall’esilio. I militari ribelli hanno il loro quartiere generale in un
albergo che si affaccia su piazza Altamira, luogo simbolo
dell’opposizione venezuelana, situato nella parte est di Caracas, il
quartiere delle classi ricche. Abbiamo incontrato uno dei comandanti
ammutinati, il generale Néstor Gonzáles Gonzáles. Ecco le sue risposte
e i suoi giudizi sulla situazione venezuelana e sul futuro.

Caracas.
Alle spalle della piazza si alza il monte Avila, che per la sua altezza
svolge una funzione di orientamento per chiunque non conosca Caracas.
La piazza si chiama Francia, ma è comunemente conosciuta come Altamira.
Costituisce il fulcro di Chacao, il municipio più ricco di Caracas,
dove ci sono le maggiori entrate fiscali, dove le strade sono ordinate
e dove il colore della pelle delle persone è tendenzialmente sul
bianco… Il sindaco di Chacao si chiama Leopoldo Lopez e, con il suo
movimento Primero justicia, è uno dei leader emergenti dell’opposizione
venezuelana.
La piazza Altamira è diventata famosa in tempi recenti.
Tutta circondata da palazzi modei e posta in leggera salita, negli
ultimi due anni essa si è trasformata in una sorta di santuario del
movimento che si oppone al presidente Hugo Chávez. In senso simbolico,
ma anche effettivo.
Sotto l’obelisco che sta al centro della
piazza è stato eretto una specie di altare con una grande statua della
Madonna e sotto di essa altre di dimensioni minori. Attoo grandi
casse acustiche, microfoni, un palco per le riprese televisive, un
orologio che scandisce ore e minuti trascorsi dall’inizio
dell’occupazione della piazza. E ancora striscioni contro Chávez
(«rinuncia subito ») e in favore del generale Martinez; cartelli con il
sito internet e il numero di conto corrente bancario dei «militari
democratici». Il tutto è infiocchettato da drappi gialli, azzurri,
rossi, i colori del Venezuela.
Stiamo per scattare qualche foto,
quando alcune persone si avvicinano per consigliarci di andare a
chiedere il permesso. «Il permesso?» chiediamo stupiti.
– È meglio. Potrebbero confondervi per spie chaviste.
– E a chi dovremmo chiedere questo permesso?
– Entrate nell’hotel.
L’hotel è il «Four Seasons», moderno e mai entrato in funzione. Da mesi
divenuto una sorta di quartier generale dell’opposizione e, in
particolare, degli ufficiali che hanno lasciato Chávez. Sono qui dallo
scorso 22 ottobre e con una buona dose di enfasi hanno dichiarato
piazza Altamira «territorio liberato». Alcune persone ci indirizzano
dal generale. Con un basco sulla testa rasata a zero e un giubbotto
antiproiettile che sbuca dalla giacca d’ordinanza carica di lustrini
militari, l’ufficiale non può passare inosservato neppure agli occhi di
persone totalmente estranee al mondo militare. Dimentichiamo subito il
motivo per cui siamo entrati. L’occasione è troppo ghiotta: chiediamo
di avere una breve intervista. Ci dice di aspettare un attimo. Ritorna
dopo pochi minuti, impettito come si conviene a un generale, stringendo
tra le mani il bastone del comando.
Generale, cominciamo con una breve autopresentazione.
«Sono Néstor Gonzáles Gonzáles, generale di brigata dell’esercito
venezuelano. Sono uscito dall’accademia militare nel 1974. Ho 28 anni e
mezzo di servizio attivo, più quattro anni all’accademia».
Dunque, lei ha quasi 33 anni di vita militare alle spalle. Con quali incarichi?
«Ho avuto incarichi di comando della truppa in tutta la mia carriera e sono
stato anche istruttore per tutte le armi. Sono stato comandante dei
reparti di artiglieria, vicecomandante del reggimento della guardia
d’onore durante i governi di Carlos Andrés Pérez (1989-1993) e di
Rafael Caldera (1994-1998) in una situazione sommamente critica. Questo
le da un’idea di quanto siamo democratici e del fatto che non siamo
golpisti. Sono stato secondo comandante della 31° brigata di fanteria;
direttore della scuola di artiglieria dell’esercito; comandante della
brigata cacciatori dell’esercito; comandante del teatro di operazione
numero 2.
Il mio ultimo incarico è come direttore del personale dell’esercito e comandante di tutte le scuole dell’esercito».
Un curriculum di tutto rispetto per un ufficiale. Ora, però, le chiediamo: che ci fa in questa piazza?
«Questa è una situazione che molte persone non capiscono. Bisogna sapere che
prima di arrivare a ciò sono state fatte tutte le denunce attraverso i
canali legali per far sì che il presidente rispettasse la costituzione».
In cosa Chávez non avrebbe rispettato la costituzione?
«Per esempio, il tradimento della patria con la consegna del territorio
venezuelano alla guerriglia colombiana. Ho manifestato pubblicamente e
attraverso tutti i canali ufficiali (dell’esercito, del ministro della
difesa e della presidenza della repubblica) il mio scontento e la mia
indisposizione ad accettare che la politica fosse introdotta
all’interno dei quadri dell’esercito. Sostenevo che questa
politicizzazione delle forze armate avrebbe portato a problemi di
divisione, di leadership e di operatività. Tutte queste mie
osservazioni non sono state prese in considerazione. Poi sono avvenuti
i fatti dell’11 aprile 2002 (vedere cronologia, ndr). Io ho fermato le
truppe e i tanks perché non uscissero per strada a massacrare il popolo
venezuelano, che chiedeva la rinuncia del presidente. L’intento di
Chávez era proprio quello di usare le truppe per sequestrare il popolo
venezuelano e imporre un progetto comunista di tipo totalitario,
diretto da Fidel Castro e dalla sinistra internazionale. Una volta che
è successo tutto questo, io ed altri ufficiali democratici abbiamo
ritenuto che non esistesse più uno stato di diritto all’interno del
nostro paese e siamo scesi in piazza Altamira a denunciare quello che
stava succedendo. Era il 22 ottobre 2002. Siamo ancora qui, perché lo
stato di diritto non è stato ripristinato e non esiste neppure un luogo
dove presentare le nostre denunce, dato che tutti i poteri dello stato
hanno un atteggiamento ostile nei nostri confronti.
Per tutto questo abbiamo deciso di ritirarci dall’esercito e venire in questa
piazza per denunciare all’opinione pubblica nazionale e internazionale
quello che sta facendo il presidente Hugo Chávez contro il popolo
venezuelano. Questa persona ha permesso a elementi stranieri di entrare
nel nostro paese per reprimere la rivolta popolare; ha distrutto tutte
le istituzioni e sfrutta la miseria per portare avanti un progetto di
sinistra con lo scopo di destabilizzare tutto il continente
latinoamericano e probabilmente la pace e la tranquillità del mondo».
Quante persone condividono la vostra ribellione?
«All’interno
del territorio liberato di piazza Altamira ci sono 126 militari. Ma non
tutti vivono qui. Alcuni vanno ai loro luoghi di residenza, altri
invece dormono sempre in case diverse per motivi di sicurezza. C’è
repressione contro di noi, contro le nostre famiglie».
Lei parla di repressione. Però, è molto originale che ci sia un gruppo di ufficiali
che si sono ammutinati e non riconoscono questo governo e che tuttavia
non vengono arrestati…
«In questo momento abbiamo 9 ufficiali
con ordini di cattura. Gli altri no. Nemmeno io, che continuo ad essere
militare attivo delle forze armate venezuelane. Siamo 4 generali. Gli
altri sono stati abbassati di grado senza nessuna giustificazione,
senza nessun diritto alla difesa, senza il processo che si deve seguire
in questi casi.
Abbiamo un generale detenuto nella sua residenza
per motivi politici, il generale Alfonso Martinez. Inoltre, a parte
noi, ci sono molti generali che sono a casa o senza incarichi o che si
sono ritirati dal servizio, che lavorano per ottenere l’abbandono della
presidenza da parte di Hugo Chávez».
Lei ovviamente sta parlando di un’uscita pacifica, giusto?
«Qualsiasi uscita! Perché quando si vende la patria, quando si tradisce un popolo
per imporre un regime alieno, che non si identifica con il benessere,
la tranquillità e la pace della gente, si deve arrivare alla libertà a
qualsiasi costo.
Abbiamo iniziato pacificamente, ma se dovremo
ricorrere ad altri metodi lo faremo. Dobbiamo recuperare la libertà di
una nazione e di un popolo che sta soffrendo. Purtroppo, la comunità
internazionale non ha inteso totalmente la nostra situazione».
Perché non avrebbe inteso la situazione? I media hanno parlato molto del Venezuela…
«Semplicemente perché il governo ha manipolato l’informazione. Con molto denaro ha
costruito una lobby internazionale a cui mostra continuamente una
costituzione che non rispetta. Hugo Chávez vuole dimostrare che è un
democratico, mentre in realtà è un dittatore che tenta di imporre un
regime comunista e fondamentalista».
Parliamo di numeri. Secondo lei, quanta gente sta con Chávez?
«Calcoliamo
che ha una popolarità “dura” tra il 12% e il 15%. Poi c’è un altro 15%
che, per così dire, è chavista light, molti anche all’interno delle
forze armate, perché sono pagati, corrotti. Chávez ha comprato la
dignità e la coscienza della maggior parte delle persone che lavorano
con lui, ma quando il denaro finirà queste lo lasceranno perché non si
identificano con lui».
Se solo il 30% della popolazione sta con
Chávez, questo significa che il presidente è stato abbandonato anche da
gran parte della gente povera…
«Molti pensano che gli abitanti
dei barrios poveri stiano dalla sua parte, ma non è così. Ad esempio,
durante il firmazo (raccolta di firme contro il presidente indetta
dall’opposizione, ndr), molta gente è scesa a Caracas per manifestare
la propria volontà di smettere di soffrire».
E le forze armate da che parte stanno?
«Chi
crede che le forze armate stiano con il presidente si sbaglia! Proprio
perché non è così, Chávez ha portato tanti stranieri sul territorio
venezuelano: gruppi della guerriglia colombiana pronti ad intervenire
con le armi; cubani mascherati da istruttori sportivi, ma ugualmente
armati. Poi, con la scusa di difendere la rivoluzione, ha armato anche
parte della popolazione».
Lei si riferisce ai cosiddetti circoli bolivariani?
«Certo!
Lui ha organizzato questi circoli perché sa che le forze armate non
stanno dalla sua parte, che hanno una posizione istituzionalista e che
un giorno si uniranno assieme al popolo per cacciarlo».
E cosa pensa della cornordinadora democratica?
«Un
elemento della politica di Hugo Chávez è cercare di dividere
l’opposizione. La cornordinadora democratica non è sfuggita a questo
tentativo. Così si sono create divisioni tra i politici che si
oppongono a Chávez per interessi personali, economici o di partito.
Queste persone vengono automaticamente messe da parte quando ci si
accorge che esse non si identificano con l’interesse generale del
popolo venezuelano».
E quali vie d’uscita propone la cornordinadora democratica?
«Chávez
disprezza qualsiasi opzione democratica e si burla costantemente di
ogni soluzione proposta dal popolo, perché se è vero che il presidente
gode ancora di un 25-30% di supporto popolare, è anche vero che ha un
70% di rifiuto che viene espresso regolarmente nelle strade di Caracas
e non solo in piazza Altamira.
Questo non era mai successo con
nessun presidente venezuelano, nemmeno con Caldera che arrivò ad avere
un 15% di popolarità, ma il restante 85% della popolazione rimaneva
indifferente e viveva la vita così come veniva. Tutto restava confinato
all’interno di un contesto democratico, senza creare in nessun momento
divisioni tra ricchi e poveri o tra bianchi e neri, come cerca di fare
in questo momento Chávez».
Generale Gonzáles, che cosa pensa per il futuro immediato?
«Il
futuro immediato impone al popolo venezuelano di continuare a scendere
in piazza per far capire alla comunità internazionale che la nostra
lotta è giusta. La pace, la libertà, la tranquillità e il futuro del
Venezuela significano molto non soltanto all’interno del continente
sudamericano, ma anche nel contesto occidentale e mondiale. Non può
essere che un gruppo minoritario sequestri la libertà e la tranquillità
di un paese. Pertanto dobbiamo continuare ad andare avanti. A qualsiasi
costo».

(Fine 1a. puntata)

BOX
SCHEDA VENEZUELA

Superficie: 915.000 Kmq (circa 3 volte l’Italia)
Popolazione: 23.706.000 (1999)
Gruppi etnici: meticci (67%), bianchi (21%), neri (10%), amerindi (2%)
Capitale: Caracas
Religione: cattolici (92,7%)
Tasso alfabetizzazione: 91%
Ordinamento politico: repubblica presidenziale guidata da Hugo Chávez Frias, il cui mandato scade nel 2006
Economia:
si fonda sull’industria estrattiva di petrolio e gas naturale (laguna
di Maracaibo, Golfo di Paria, ecc.); l’agricoltura (caffè, cacao, canna
da zucchero, tabacco) non copre le necessità intee
Lavoro: secondo alcune inchieste, il 53% della popolazione economicamente attiva ha un lavoro di tipo «informale»
Sotto
la soglia di povertà: le cifre non sono concordi; tuttavia, non si
sbaglia di molto dicendo che l’80% della popolazione vive in povertà,
il 50% in estrema povertà

Cronologia essenziale
DALL’ASCESA DI HUGO CHÁVEZ AL FEBBRAIO 2003

1989-2001, DAL CARCERE ALLA PRESIDENZA
27 FEBBRAIO 1989: SOLLEVAZIONE POPOLARE
A
Caracas esplode la protesta di vasti settori della popolazione. La
manifestazione si tramuta in insurrezione violenta con saccheggi e
devastazioni. La rivolta si estende anche in altre città del Venezuela.
Il presidente Carlos Andrés Pérez manda contro la folla l’esercito che
apre il fuoco. I morti sono migliaia.
4 FEBBRAIO 1992: SOLLEVAZIONE MILITARE
Il
tenente colonnello Hugo Chávez e altri quattro comandanti tentano un
golpe contro Carlos Andrés Pérez. La sollevazione fallisce.
MARZO 1994: FUORI DAL CARCERE
Il nuovo presidente Rafael Caldera libera Chávez.
1997: NASCE IL PARTITO DI CHÁVEZ
Chávez fonda il «Movimento V (Quinta) Repubblica», partito con il quale si candida alla presidenza del paese.
6 DICEMBRE 1998: VITTORIA
Chávez viene eletto presidente del Venezuela con il 56,49% dei voti.
2 FEBBRAIO 1999: GIURAMENTO
Al momento del giuramento, il neo-presidente afferma di prestare giuramento sopra una «costituzione moribonda».
APRILE – DICEMBRE 1999: NUOVA COSTITUZIONE
La
maggioranza dei venezuelani approva la proposta di convocare
un’assemblea costituente per redigere una nuova costituzione (25
aprile). Il raggruppamento di Chávez conquista 122 seggi su 131
all’interno della costituente (25 luglio). Il 15 dicembre un referendum
approva la nuova costituzione «bolivariana».
30 LUGLIO 2000: NUOVA VITTORIA DI CHÁVEZ
Chávez ottiene il 59% dei voti nelle elezioni indette in conformità alla nuova costituzione.
13 NOVEMBRE 2001: LE 49 LEGGI
Sulla
base di una deroga di legge (la cosiddetta «ley habilitante »), il
governo di Chávez approva per decreto 49 leggi di grande impatto
economico e sociale (sono comprese materie come la proprietà della
terra, l’imprenditorialità, la pesca). Le associazioni degli
imprenditori contestano le nuove norme.

2002, L’ANNO DEL GOLPE
5 MARZO 2002: ALLEANZA TRA OPPOSITORI
La
principale organizzazione imprenditoriale, «Fedecámaras», e la
corrottissima «Confederación de trabajadores de Venezuela» (Ctv) si
alleano per trovare un’uscita alla crisi del paese. Il governo non
viene neppure interpellato.
11 APRILE: LA RIVOLTA DEGLI «ANTI-CHAVISTI»
L’opposizione
convoca una marcia fino al palazzo presidenziale di Miraflores per
chiedere la rinuncia di Chávez. Ci sono scontri con i simpatizzanti del
presidente. Sul terreno rimangono almeno 12 morti e centinaia di
feriti.
12 APRILE: RINUNCIA DI CHÁVEZ?
Ore convulse. Viene
annunciato che il presidente è stato portato via da Caracas e che ha
rinunciato all’incarico. L’opposizione nomina l’imprenditore Pedro
Carmona, presidente di «Fedecámaras», capo di un governo di
transizione. Gli Stati Uniti dichiarano il proprio appoggio al golpe.
13 APRILE: LA RIVOLTA DEI «CHAVISTI»
Un
decreto del governo transitorio azzera l’Assemblea nazionale. Le strade
di Caracas iniziano a riempirsi di gente che reclama il ritorno del
presidente Chávez.
14 APRILE: IL RITORNO DI CHÁVEZ
La mattina
di domenica Hugo Chávez torna nel palazzo presidenziale di Miraflores.
Il golpe dell’opposizione è durato soltanto 48 ore.
22 OTTOBRE: I COMANDANTI DI PIAZZA ALTAMIRA
Quattordici
alti ufficiali dell’esercito venezuelano si ammutinano. Approntano il
loro «quartier generale» in piazza Altamira, (nella parte est di
Caracas), dichiarandola «territorio liberato».
28 OTTOBRE: MEDIAZIONE
Cesare
Gaviria, segretario generale dell’«Organizzazione degli stati
americani» (Oea), comincia una difficile mediazione tra governo ed
opposizione.
2 DICEMBRE: SCIOPERO GENERALE
L’opposizione,
guidata da «Fedecámaras» e dalla «Confederación de trabajadores de
Venezuela» (Ctv), e sostenuta dai principali mezzi di comunicazione,
proclama uno sciopero generale (paro civico nacional). Obiettivo
primario è la paralisi dell’industria petrolifera (Pdvsa), la
principale fonte di ricchezza del paese.

2003, CROLLANO LE ENTRATE DELLO STATO
15 GENNAIO 2003: GRUPPO DEI «PAESI AMICI»
A
Quito, in Ecuador, si costituisce il «gruppo dei paesi amici del
Venezuela». È formato da 6 stati: Brasile, Cile, Messico, Spagna,
Portogallo e Stati Uniti. L’idea, nata da una proposta del presidente
brasiliano Lula, inizialmente non prevedeva la presenza di Washington.
2 FEBBRAIO: TERMINA LO SCIOPERO
L’opposizione
decide di revocare lo sciopero che dura da 63 giorni. Ma la fermata del
settore petrolifero ha determinato un crollo verticale delle entrate
fiscali. Il governo riuscirà a sopravvivere anche con le casse vuote?

Paolo Moiola




Lavorare da morire


Il rapporto dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil)

Lavorare da morire

Per molti avere un lavoro è un miraggio. Per altri può divenire una fonte di pericolo: le cifre degli incidenti e delle malattie professionali sono impressionanti. Se poi la collettività non si fa carico (come suggeriscono i teorici del libero mercato) dei danni patiti, allora per il lavoratore e la sua famiglia la vita può diventare un autentico calvario.

Tre anni fa, Nolberto, il mio amico peruviano, ha avuto un incidente d’auto mentre lavorava. A Villa El Salvador, in Perù, una sera come tante, la sua vita è precipitata. Un pullman, guidato da un ubriaco, ha superato un’auto e, nonostante il tentativo di buttarsi fuori strada, l’ha preso in pieno.
L’auto sulla quale Nolberto viaggiava è andata distrutta: lui e due altri passeggeri sono stati portati in ospedale.
Dopo le prime cure, i medici hanno fatto la lista della spesa e l’hanno passata ai parenti. C’è bisogno di tante sacche di sangue, di tanti donatori, di chiodi per sistemare il femore, fili e aghi da sutura, medicine, esami di laboratorio, radiografie, il vitto, la riabilitazione e così via.
Per fortuna, Nolberto non è uno che si perde d’animo. Ha chiamato a raccolta gli amici; gli amici hanno chiamato altri amici e così si è formata la fila per donare il sangue, hanno raccolto i primi soldi per le cose più urgenti. Lui ha dovuto vendere lo scassato pullmino, che era non solo il suo orgoglio, ma anche e soprattutto lo strumento del suo lavoro, quello che gli permetteva di mantenere la moglie e i tre figli.
Nolberto è sopravvissuto. Gli hanno impiantato un chiodo dopo averlo messo in trazione, ma non aveva i soldi per l’operazione definitiva e la riabilitazione l’ha fatta da solo. Per questo è rimasto zoppo; comunque sia, dopo 6 mesi ne è uscito.
No, non era disperato. Mi ha semplicemente spiegato che, per sopravvivere in quei 6 mesi, si era «mangiato» tutto quello che per anni aveva investito nel pullmino, ma che per fortuna aveva salvato la casa. E poi ha ricominciato. Ha ricominciato da zero. Ha affittato un’auto ed ha iniziato a fare il taxista. Io ho la sua stessa età e non so se sarei in grado di ricominciare da zero.
Mi ha detto che è stato fortunato. Che lui aveva già informato i suoi figli che non avrebbe lasciato loro niente, perché la sua casa è una baracca e il suo lavoro è appeso a un filo che ogni tanto si può spezzare. Ha spiegato loro che la cosa importante era lo studio: questa era l’unica cosa che poteva lasciare loro insieme al suo cognome.

IL RAPPORTO OIL: UN BOLLETTINO DI GUERRA

Nolberto è solo una delle 270 milioni di persone che ogni anno nel mondo subiscono un infortunio sul lavoro e che si sommano ad altri 160 milioni di lavoratori che, sempre in un anno, contraggono una malattia professionale.
Si muore soprattutto di cancro (32% dei decessi, 640 mila morti all’anno), per malattie all’apparato circolatorio (23%), incidenti (19%) e per aver contratto malattie contagiose (17%). L’amianto, da solo, causa ogni anno 100 mila morti. Ogni anno, poi, muoiono 12 mila minori sul lavoro.
È il rapporto dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil) del 2003, che getta sulle nostre coscienze queste spaventose cifre. Ha avuto la sfortuna di essere pubblicato durante la guerra dell’Iraq ed è passato praticamente sotto silenzio.
Tra i settori più pericolosi spicca l’agricoltura, che occupa più della metà dei lavoratori nel mondo e conta più del 50% di incidenti e morti sul lavoro. La maggior parte delle vittime appartiene ai paesi in via di sviluppo, dove si concentrano le attività del settore primario: l’agricoltura, la pesca, l’estrazione mineraria e la silvicoltura. Ad ogni modo l’Oil rileva che, in generale, in tutto il mondo è carente l’informazione sulle precauzioni da adottare sul lavoro per evitare di contrarre malattie o di rimanere vittime di infortuni.
Secondo l’Oil circa l’80% degli infortuni e delle morti bianche potrebbe essere prevenuto se tutti gli stati membri dell’Organizzazione internazionale del lavoro ricorressero alle migliori e più comuni strategie di prevenzione e sicurezza.
Definire il rapporto Oil un bollettino di guerra è riduttivo perché le vittime del lavoro sono più del doppio di quelle provocate dai conflitti, superano di molte lunghezze quelle causate dall’alcornol e dalla droga. Dei 250 milioni d’infortuni che si verificano ogni anno molti hanno conseguenze permanenti, menomazioni della salute, handicap, perdita del lavoro, povertà.
Alcune cifre: nel mondo, un morto ogni 15 secondi, 5.470 al giorno, 2 milioni all’anno; in Italia, 1.360 morti in un anno.
Il costo degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali è pari al 4% del prodotto interno lordo del pianeta, supera di venti volte il totale degli aiuti ai paesi sottosviluppati. «Tutti gli incidenti sono prevedibili e prevenibili», afferma il rapporto dell’Oil che indica l’agricoltura, l’edilizia e le miniere come i settori più mortiferi, sia nei paesi avanzati che in quelli emergenti.
La media dei morti per infortuni sul lavoro è di 14 decessi per 100 mila lavoratori. Nei paesi ricchi (Nord America, Europa occidentale, Au-stralia, Giappone), il rapporto scende a 5,3; è 11 nei paesi ex socialisti, Cina e India; 13 in America Latina. Il tasso sale a 21 morti per 100 mila lavoratori in Africa subsahariana, 22,5 nel Medio Oriente e tocca il massimo – 23,1 – in Asia, dove, escludendo Cina, Giappone e India, nel ’98 si sono verificati 80.600 incidenti mortali.
Oltre a ciò, vanno aggiunte le vittime della violenza sul lavoro. Secondo stime della Confederazione internazionale dei sindacati (Icftu), nel 2001 sono stati uccisi o fatti scomparire 209 sindacalisti (+50% sul 2000), 8.500 sono stati arrestati, 3 mila sono stati feriti. Circa 20 mila lavoratori sono stati licenziati per la loro attività sindacale.
Il direttore dell’Infocus programme dell’Oil, Jukka Takala, dichiara: «Si riscontra un forte calo dei feriti gravi nei paesi industriali. Questo miglioramento è imputabile sia ai cambiamenti strutturali (diminuzione del numero di lavoratori impegnati nelle attività pericolose del settore agricolo, industriale, minerario e della costruzione) che alle misure concrete d’igiene e sicurezza sul lavoro».
Tanto per cambiare, nei paesi in via di sviluppo (Pvs) la tendenza è ancora meno favorevole. La migrazione delle popolazioni verso le città, l’apparizione di nuove industrie, il ricorso a lavoratori inesperti nel settore industriale imposto dalla globalizzazione, il crescente fabbisogno di nuovi alloggi, l’intensificarsi del traffico stradale, la meccanizzazione dell’agricoltura sono altrettante cause dell’aumento del tasso di malattie e incidenti nei Pvs. Solo nell’Africa subsahariana, si stimano ogni anno 125 mila decessi riconducibili all’attività lavorativa.
Non dimentichiamo che l’indennizzo per le malattie e incidenti legati al lavoro è praticamente inesistente nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo. Soltanto 23 stati hanno ratificato la Convenzione n° 121 sugli indennizzi e riconoscimenti in caso di incidenti sul lavoro o di malattie professionali, adottata nel 1964 e dove sono elencate le malattie che devono essere oggetto di risarcimento.
Bisogna intraprendere, poi, azioni urgenti contro l’Aids. Le ultime valutazioni segnalano 23 milioni di lavoratori che soffrono di questa malattia, con 17,5 milioni in soli 43 paesi africani, tanto da generare una condizione di emergenza che non può essere ignorata.
Per l’Oil, infine, i sindacati non devono mai abbassare la guardia. Imprenditori e lavoratori potrebbero pensare che «capita soltanto agli altri». Non dimentichiamo che per ogni incidente mortale avvengono 1.200 incidenti meno seri, all’origine di una sospensione di lavoro per almeno tre giorni, 5 mila feriti necessitano di una cura e 70 mila incidenti lievi. Per evitare un incidente mortale occorre quindi agire sull’insieme degli altri elementi che sono spesso all’origine di un decesso sul lavoro.
E poi ci sono i bambini, i minori.

ILLEGALE, MA DIFFUSO

Oggi nel mondo un bambino su sei è vittima del lavoro minorile ed è sottoposto a lavori nocivi per la sua salute mentale e fisica o per il suo sviluppo emozionale.
Questi bambini lavorano in vari settori dell’industria in diverse parti del mondo, soprattutto nell’agricoltura dove sono esposti a prodotti chimici e a macchinari pericolosi. Altri bambini lavorano per strada come venditori ambulanti o come fattorini; altri ancora sono lavoratori domestici, operai o sono costretti a prostituirsi. A nessuno di loro vengono offerte reali possibilità di vivere una infanzia normale, di ricevere una vera educazione o di aspirare a delle condizioni di vita migliori.
Dal lavoro di questi bambini dipende la loro sopravvivenza nonché quella delle loro famiglie. Anche se è stato dichiarato illegale, il lavoro minorile persiste tuttora, avvolto spesso da un muro di silenzio, di indifferenza e di apatia.
Inizia tuttavia a sgretolarsi il muro del silenzio. Se l’eliminazione totale del lavoro minorile rimane un obiettivo di lungo periodo per numerosi paesi, alcune forme di esso vanno però fronteggiate senza indugio. Poco meno di 3/4 dei bambini che lavorano operano in attività universalmente riconosciute come forme peggiori di lavoro minorile: traffico di esseri umani, conflitti armati, schiavitù, sfruttamento sessuale, lavori pericolosi. L’abolizione effettiva del lavoro minorile costituisce una delle sfide più urgenti del nostro tempo.

LÀ DOVE TUTTO È UN LUSSO

Quando per un periodo ho lavorato nella zona industriale di Villa El Salvador per impiantare le basi di un programma di medicina del lavoro, i piccoli impresari e artigiani mi dicevano che loro prima di tutto volevano lavorare e che la sicurezza era un lusso.
È proprio così: i maggiori disastri ambientali, le più grandi tragedie del trasporto, i più tremendi incendi nei luoghi pubblici, gli effetti più disastrosi dei fenomeni naturali (terremoti, uragani, inondazioni, ecc.), avvengono nei paesi in via di sviluppo. In quei paesi la prevenzione è un lusso, l’attenzione all’ambiente un altro lusso; è lusso anche avere un lavoro fisso, magari di 12 ore al giorno, senza protezione sociale, senza regole, senza controlli, senza sicurezza.
In quei paesi, al contrario del nostro immaginario collettivo, si lavora tanto, ma proprio tanto: lavorano tanto gli uomini, lavorano tanto le donne, lavorano tanto i bambini. In quei paesi si lavora tanto da morire.

Organizzazione internazionale del lavoro (Oil):
numero di morti per 100.000 lavoratori

America del Nord, Europa Occidentale, Australia, Giappone 5,3
Paesi ex socialisti, Cina e India 11,0
America Latina 13,0
Africa Sub-sahariana 21,0
Medio Oriente 22,5
Asia (escluso India, Cina e Giappone) 23,1Media mondiale 14,0

DATI STATISTICI SUL LAVORO MINORILE

• 246 milioni di bambini sono costretti a lavorare.
• 73 milioni dei quali hanno meno di 10 anni.
• Nessun paese ne è immune: si stimano in 2,5 milioni i bambini che lavorano nei paesi sviluppati e in 2,5 milioni quelli che lavorano nei paesi in transizione, come gli stati dell’ex Unione Sovietica.
• Muoiono ogni anno 12 mila bambini a causa di incidenti sul lavoro.
• La maggior parte (circa 127 milioni) dei bambini di età inferiore ai 14 anni costretti a lavorare, vive nella regione dell’Asia e del Pacifico.
• La proporzione più alta di bambini costretti a lavorare si osserva nell’Africa subsahariana: quasi un terzo (48 milioni) di bambini di età inferiore ai 14 anni.
• Nel mondo, la maggior parte dei bambini che lavorano sono impiegati nel settore informale, dove non sono tutelati da alcuna protezione legale o regolamentare:
• il 70% è attivo nell’agricoltura, caccia e pesca industriali o industria del legno;
• l’8% lavora nelle industrie manifatturiere;
• l’8% è attivo nel commercio all’ingrosso e al dettaglio, ristorazione e settore alberghiero;
• il 7% lavora nei servizi comunitari, sociali e personali, come i lavori domestici;
• 8,4 milioni di bambini sono nella trappola della schiavitù, traffico di esseri umani, asservimento dei figli per ripagare i debiti, prostituzione, pornografia o altre attività illecite;
• tra questi ultimi, sono 1,2 milioni i bambini vittime del traffico di esseri umani.
Guido Sattin



All’ombra dei faraoni

Fuori dai grandi circuiti turistici,
la vita di gente semplice e povera.
Sempre in bilico
tra rivalità religiose,
sforzo di accoglienza e qualche… dispetto.

D opo giorni roventi e afosi, ha piovuto. Una bufera di vento, seguita da enormi goccioloni, presto assorbiti dalla terra. Oggi il cielo è rosato e il mare blu. Una brezza leggera s’infila nei vicoli, dove nessuno si è mai curato di rimuovere mucchi di rifiuti.
Siamo a El Quseir, porto abbandonato sul mar Rosso, da dove solevano partire i pellegrini per La Mecca. Restano le barche in secca e qualche bell’edificio in stile arabo-turco sul lungomare. Un signore svedese si è invaghito di questo posto e vi ha fondato un centro per scambi culturali tra insegnanti.
due santini
Incontro Peter e Alex, due giovani svedesi che stanno finendo il loro stage di sei mesi, entusiasti dell’esperienza, anche se ammettono di avere trovato qualche difficoltà di ambientamento. L’unica ragazza è già ritornata a casa, non ce la faceva più.
Per arrivare quaggiù, dal Cairo, ci sono volute quasi dieci ore di pullman, comprese le fermate: la prima, dopo Suez, lungo la costa arida e vuota; la seconda, per il cambio autista, a Hurghada. Siamo arrivati che era buio, dopo le dieci, ma chi continuava il viaggio fino in Sudan sarebbe giunto alle cinque del mattino.
Sono passata da Teresa, per salutare la famiglia. Il marito era in un angolo, accovacciato sulla sedia. Una gran febbre (forse la polio), da bambino, lo ha lasciato handicappato; ora si sposta solo con una moto speciale, datagli dallo stato. Così può anche andare a lavorare all’ufficio postale; ma oggi è a casa. Una stanzetta sul vicolo, dove parcheggia la moto, e altre due sul retro, tutte dipinte in un bel colore azzurro, per la moglie e due bambine.
Per sposarsi, Edel era andato a Esna, vicino a Luxor, dove c’è una comunità cristiana. Ha trovato Teresa, una ragazza povera, ma bella e molto dolce. Le bambine sono sagge, per la loro età. Marsa e Mariam mi mostrano le immagini incoiciate della Vergine e santa Barbara. Poi Edel mi regala due santini: la Madonna e san Giorgio, che qui chiamano Mar Girgis e venerano molto. Giù nel vicolo ci sono le botteghe del sarto e del ciabattino. Sono tutti cristiani copti. Loro lavorano fino a sera tardi, mentre il resto del paese bighellona tra fumerie e caffè.
La fabbrica italiana di fosfati è chiusa e gli italiani se ne sono andati da molti anni. Restano le case per i tecnici sul lungomare e il complesso di palazzine e capannoni, con la chiesetta. Tutto del 1920, in stile italiano dell’epoca. I camion arrugginiti e il piazzale vuoto mettono malinconia, ma la chiesa è stata ceduta a due abuna copti, che vivono nella casa accanto, con le loro famiglie.
In tutto ci saranno una trentina di famiglie copte in paese, che hanno ottimi rapporti con il resto della comunità. Le tensioni del Cairo e delle città sul Nilo qui sembrano smorzate dalla brezza del mare. Un mare bellissimo, ricco di pesci e meraviglie, ma che rischia di venire sfruttato: tra qualche mese si aprirà un nuovo aeroporto e, forse, questa cittadina perderà l’atmosfera antica.
seduzione… occidentale
Il padre di Nasser, El Sudany, lavorava nella miniera di fosfati. Beduino del Sinai, anche se il nome tradisce un’origine sudanese, ora deve fare molti chilometri per raggiungere l’impianto di Safaga, l’unico ancora in funzione. Nasser, invece, fa il guardiano alla centrale, ma stasera ci ha invitato a casa sua: la moglie preparerà il pesce.
Il matrimonio è stato combinato dalle famiglie, come d’uso, ma Nasser è inquieto e vorrebbe cambiare stile di vita. Lo stato gli ha dato in affitto un appartamento in periferia e lui l’ha arredato con mobili vistosi e lucidi, comprati con i soldi di due stagioni da tassista a Hurghada.
La moglie dovrebbe essere felice, con le due belle bambine, visto il relativo benessere della famigliola. Ma Nasser non è più lo stesso, da quando ha visto la vita degli occidentali. «Le russe sono bellissime», mi dice; ma poi aggiunge: «Hanno uomini mafiosi, sono gelide, cattive». E preferisce gli italiani e, appena può, scende in paese a cercarli.
Lasciamo il mar Rosso con Nasser che, per accompagnarci, si è fatto prestare un’auto quasi nuova. A Safaga ci uniamo al convoglio scortato dalla polizia e andiamo veloci, attraverso le montagne e il deserto.
Prima di Qena, si scatena il finimondo. I grossi pullman pieni di turisti fanno a gara per arrivare primi, superandosi con manovre rischiose, a più di 100 all’ora, senza rispettare le distanze. Questa, per loro, è la gita a Luxor, un breve intervallo culturale durante la vacanza. Molti gli italiani, francesi, tedeschi e russi. Ho notato che le donne sono spesso vestite in modo indecente, con calzoni corti e maglie scollate. Mi pare offensivo e pericoloso, in un paese islamico tradizionalista. Un motivo in più per farsi odiare.
La città di Luxor (antica Tebe, capitale dell’Alto Egitto), con i suoi templi e necropoli, non ha perso il suo fascino, nonostante il turismo di massa. I turisti sono sulle navi da crociera e pochi si avventurano nelle sue strade, piene di vita. La casa di Schiapparelli, il famoso archeologo italiano autore di importanti scoperte, è ora affidata alle suore francescane del Cuore immacolato di Maria. Sono egiziane e alcune di loro giovanissime.
Suor Carmelita è qui da 14 anni, ma è originaria di Malta. Oggi è molto arrabbiata, ma non vuole assolutamente che lo scriva. «La polizia segreta lo verrebbe a sapere e noi passeremmo dei guai. Controllano tutto, chi va e chi viene. Non possiamo fare nulla, neppure dare il bianco in cortile, senza il loro permesso» dice indignata.
Le suore gestiscono una scuola, un dispensario e un piccolo orfanotrofio, dove vengono curati gli orfani dei villaggi cattolici. Ma anche quello è meglio non dirlo. «I villaggi cattolici, sparsi nelle campagne intorno a Luxor, sono molto poveri. Nostro compito è quello di aiutarli a non perdere la fede».
Quello che la scandalizza è lo stile di vita dei musulmani. «Appena hanno due soldi, fanno gli schiavisti: prendono un poveraccio – qui se ne trovano sempre di disgraziati – lo fanno lavorare come una bestia e loro si siedono a far niente!».
una «calda» atmosfera
Accanto alle suore, la chiesa e la casa dei padri. Due i frati, un anziano italiano e l’egiziano padre Cyrillus: un viso da faraone con barba e occhi vivaci dietro le lenti spesse.
Per tanti anni Cyrillus ha vissuto ad Assyut, una città più a nord, sul Nilo, dove c’è una chiesa bellissima e un vescovo che porta il suo stesso nome. Ma è impossibile andarci: la polizia non permette agli stranieri di viaggiare fuori Luxor, eccetto che con un convoglio scortato. Ci sono stati disordini e uccisioni di cristiani, ma Cyrillus minimizza. «Ho sempre avuto un ottimo rapporto con musulmani e polizia. Bisogna fare le cose alla luce del sole. Chiedo, spiego i lavori che intendo fare e loro me lo permettono. Anzi, sono contenti. Noi lavoriamo per la popolazione».
Anche coi copti le cose vanno bene; anzi, sono proprio le suorine copte del monastero di san Taddeo che preparano e ricamano le tonache al padre francescano.
Accompagno padre Cyrillus nel deserto, in un pomeriggio rovente: il termometro supera i 38°. Attraversiamo il nuovo ponte sul Nilo. Il paesaggio è stupendo: i campi rigogliosi sono bordati da palmeti e le fattorie sembrano castelli di fango.
Lasciamo la strada asfaltata che conduce a Medinet Habu, il tempio di Ramses iii, e troviamo con qualche difficoltà la pista che conduce alla bassa costruzione di fango, oata da numerose, piccole cupole.
L’interno del monastero richiama la struttura di un’antica moschea: il cortile è circondato da celle a cupola; la chiesa è un labirinto di archi bassi come tende beduine; i tappeti logori e polverosi sul pavimento di pietra. Suor Anastasia ci apre il portone e madre Eufemia ci accoglie con grandi sorrisi. Hanno abito, tonaca e copricapo neri, col velo che incoicia il volto, stretto al mento. Luce e aria provengono da fori al centro delle cupole; il caldo sfinisce e, nell’attesa, ci viene offerta l’acqua del pozzo, nelle anfore di coccio, fresche e umide. Il padre scherza e l’atmosfera è serena. Non sento la tensione che pare vi sia tra ortodossi e cattolici.
Emil, il tassinaro
La moglie è mancata da pochi mesi e lui si occupa delle bambine. Sono tre, molto carine, bene educate e si chiamano Maryam, Mariana e Madonna. Quest’ultima ha un sorriso grande più di lei, che ha solo 10 anni. Gli occhi sgranati della mamma, quasi spaventati, mi guardano da una foto grande, appesa alla parete del piccolo soggiorno della loro casa, nel centro di Luxor. La povera donna soffriva da alcuni anni, ma solo da pochi mesi avevano scoperto il tumore allo stomaco che l’ha stroncata. Emil è rimasto solo e in casa ha pure mamma e suocera anziane da accudire. Ma è un uomo in gamba, si è fatto tutto da solo. Da niente, ora ha due pullman e tre taxi. I rapporti con la polizia sono ottimi e si fa stimare da tutti.
Emil è cattolico, ma in chiesa nessuno l’ha mai visto. Ci andava sua moglie alla messa, regolarmente, e ci portava le bambine. «Una donna molto pia», mi aveva detto padre Cyrillus. Questa sera sono invitata a cena e le ragazze mi circondano e premono con le loro domande ingenue. Studiano l’inglese, ma è chiaro che non hanno mai fatto una vera conversazione. Il pollo è buonissimo e l’insalata pure; così pure le banane, mature e dolcissime.
Passiamo nella stanza di famiglia, anch’essa decorata con tante foto del padrone di casa. Qui incontro il professore che dà ripetizioni di inglese alle ragazze. Un modo per arrotondare il magro stipendio di insegnante e dare una mano a Emil, che è preoccupato per le figlie e vuole dare loro una buona educazione.
Domani partirò e mi dispiace. Mi sono sentita bene, accolta come amica anche in questo paese. Ho visto cose bellissime. La tomba di Nefertari, la grazia delle immagini della regina e delle divinità, i colori vivi, i templi grandiosi. Ne avrò certamente nostalgia.
la culla dei faraoni
Assuan si trova in Nubia, una regione desertica tra Alto Egitto e Sudan, fino al xv secolo tutta cristiana.
Nel museo della Nubia, da poco inaugurato da Mubarak sulla collina che domina la prima cateratta del Nilo, vi sono le foto dei resti di numerose chiese e monasteri, risalenti ai primi secoli. Il museo è riparatore dell’ultima delle violenze subite da questo popolo fiero e bello. Il lago Nasser, creato con la grande diga, ha costretto gli abitanti delle rive del Nilo a migrare al nord, lasciando gli antichi villaggi di case di fango.
La bellezza della prima cateratta mi era rimasta nel cuore, dalla mia prima visita in Egitto, 15 anni fa. Ora il paesaggio è stato aggredito dalla speculazione edilizia: su una delle preziose isole, dalla vegetazione rara, è stato costruito un enorme albergo a cinque stelle, pare di proprietà del figlio del presidente.
Su una feluca, tradizionale e bella imbarcazione a vela, sospinta dalla brezza del mattino e guidata da due marinai nubiani, risaliremo fino all’isola di Sehel, sotto la vecchia diga. I massi di granito portano i segni dell’acqua che si è ritirata. L’isola, un tempo, era verde e coltivata; ora è un deserto, con le belle case nubiane dipinte di giallo e blu. La gente è povera; i giovani lavorano in città e il villaggio sopravvive come un museo all’aperto.
Sulla via del ritorno, mi fermo sull’isola Elefantina, che si trova nel centro di Assuan. Qui le case nubiane sono ancora più povere e la sporcizia invade le strade polverose. Eppure, è un luogo importante nell’antica storia d’Egitto: da qui vennero i faraoni della quinta dinastia.
la sfida
Oggi sono riuscita a sentire le campane. Mi hanno dato gioia: erano le sei del mattino. Di solito sento solo il richiamo del muezzin, che mi angoscia. Ho dovuto attraversare la città per arrivare nella piccola chiesa dei comboniani, nel cuore della città e del mercato.
È la domenica delle palme e i cristiani li riconosci per via di quelle sottili foglie che da ieri portano sottobraccio. Trovo padre Vittorio assorto, in piedi davanti al portone, sorvegliato da due giovani poliziotti col mitra.
Originario di Padova, dopo un periodo in Libano e 20 anni in Sudan, è approdato qui, in Alto Egitto. Le sue parole sono soffocate dal grido del muezzin. L’altoparlante della moschea vicina è posizionato in direzione della chiesa. «Fanno sempre così: lo fanno apposta, quasi per sfida».
Padre Vittorio è molto polemico e mi invita a entrare nel suo ufficio. Parliamo della guerra dimenticata, in Sudan, dove si continua a bombardare qualsiasi cosa, mandrie e villaggi. «In Sudan sono stati uccisi tre milioni di persone, una vera pulizia etnica. Le cause? Il paese è ricco di petrolio, uranio e altri minerali». Naturalmente sono sempre i cristiani i primi a essere perseguitati. Devono sparire, deve vincere l’islam, come vuole il governo fondamentalista.
Vittorio poi mi indica, accanto alla chiesa cattolica, la scuola tenuta dalle suore. Alcune sono italiane. «I maggiorenti della città iscrivono qui i loro figli e gli allievi sono per metà musulmani. Non ci sono problemi tra i ragazzi; ma l’islam rivela presto il suo lato aggressivo. Una sposa cristiana è molto ambita nelle ricche famiglie islamiche. Ma i figli devono crescere nella fede del padre; anche la sposa finisce poi per perdere i contatti con la chiesa».
Il missionario mi fa anche notare un altro problema. I cristiani sono pochissimi e, non potendosi sposare che tra di loro, rischiano pure di avere generazioni segnate da tare ereditarie. Anche i rapporti con i copti sono difficili, per i cattolici; migliori sono quelli con i musulmani, di cui condividono una certa mentalità. •
(continua)

Claudia Caramanti