VENEZUELA 2005
UN PIENO DI VOTI E DI PETROLIO
Il presidente Hugo Chávez Frias ha vinto anche il referendum del 15 agosto.Oggi gli alti prezzi del petrolio lo aiutano a governare e a resistere ad un’opposizione disposta a tutto pur di cacciarlo.
Dopo il referendum del 15 agosto, lo scrittore Eduardo Galeano ha detto: «Strano dittatore, questo Hugo Chávez. Masochista e suicida: ha messo in piedi una costituzione che consente al popolo di cacciarlo, e ha corso il rischio che questo succedesse in un referendum revocatorio che il Venezuela ha realizzato per la prima volta nella storia universale. Il castigo non c’è stato. E questa è stata l’ottava elezione che Chávez ha vinto in 5 anni». Anzi, la nona, considerando le elezioni amministrative dello scorso 31 ottobre.
Anche il «Centro Carter» (la fondazione dell’ex presidente statunitense Jimmy Carter) ha certificato la regolarità del referendum del 15 agosto, ma l’opposizione venezuelana non accetta la sconfitta. Attraverso i media che controlla cerca di far passare (spesso riuscendovi) presso i governi esteri e presso molti media occidentali che il presidente Chávez è un dittatore. Purtroppo per loro questo non è un buon momento, per almeno due motivi.
Il primo è di ordine politico. Viviamo in un periodo storico in cui un personaggio quantomeno ambiguo, il colonnello libico Gheddafi, è stato più che riabilitato, nonostante sia al potere dal 1969 e non abbia un curriculum vitae invidiabile… Abbracciare Gheddafi e nel contempo affossare Chávez è, allo stato delle cose, un’impresa difficile anche per poteri tanto forti come quelli in gioco. Sarà questa la «ragion di stato» di cui parlò il nostro Machiavelli?
Il secondo motivo è prettamente economico. Caracas è il quinto esportatore mondiale di petrolio e il secondo fornitore degli Stati Uniti (coprendo il 15 per cento delle importazioni Usa). L’importanza strategica del paese latinoamericano sta tutta in questi numeri.
Sullo sfondo rimangono comunque le contumelie della comunità internazionale, in particolare degli economisti neoliberisti e della folta schiera dei media allineati alla filosofia dominante. Per costoro le entrate derivanti dal petrolio venezuelano costituiscono un grave cruccio. Il perché è presto spiegato.
Il governo Chávez utilizza gran parte delle cospicue entrate petrolifere per finanziare programmi sociali (come le misiones), indispensabili in un Venezuela abituato ad avere una classe dominante (non più del 20% della popolazione) a cui era concesso ogni privilegio. Economisti e politici neoliberisti dicono che così non va bene, perché questo è populismo, termine che, a dispetto del suo significato etimologico, in politica è un insulto grave, utilizzato alla bisogna, soprattutto quando non si sa che altro dire.
Dare medici e ambulatori a chi non può permettersi una sanità privata (missione Barrio Adentro), scuole ed insegnanti a chi non ha potuto avere un’istruzione (missione Robinson), la possibilità di completare gli studi secondari a chi li ha interrotti (missione Ribas), alimenti a prezzi inferiori a chi non ha risorse (missione Mercal), è populismo?
Se lo è, allora ben venga il populismo, se serve per avere finalmente un po’ di giustizia.
Anche il «Centro Carter» (la fondazione dell’ex presidente statunitense Jimmy Carter) ha certificato la regolarità del referendum del 15 agosto, ma l’opposizione venezuelana non accetta la sconfitta. Attraverso i media che controlla cerca di far passare (spesso riuscendovi) presso i governi esteri e presso molti media occidentali che il presidente Chávez è un dittatore. Purtroppo per loro questo non è un buon momento, per almeno due motivi.
Il primo è di ordine politico. Viviamo in un periodo storico in cui un personaggio quantomeno ambiguo, il colonnello libico Gheddafi, è stato più che riabilitato, nonostante sia al potere dal 1969 e non abbia un curriculum vitae invidiabile… Abbracciare Gheddafi e nel contempo affossare Chávez è, allo stato delle cose, un’impresa difficile anche per poteri tanto forti come quelli in gioco. Sarà questa la «ragion di stato» di cui parlò il nostro Machiavelli?
Il secondo motivo è prettamente economico. Caracas è il quinto esportatore mondiale di petrolio e il secondo fornitore degli Stati Uniti (coprendo il 15 per cento delle importazioni Usa). L’importanza strategica del paese latinoamericano sta tutta in questi numeri.
Sullo sfondo rimangono comunque le contumelie della comunità internazionale, in particolare degli economisti neoliberisti e della folta schiera dei media allineati alla filosofia dominante. Per costoro le entrate derivanti dal petrolio venezuelano costituiscono un grave cruccio. Il perché è presto spiegato.
Il governo Chávez utilizza gran parte delle cospicue entrate petrolifere per finanziare programmi sociali (come le misiones), indispensabili in un Venezuela abituato ad avere una classe dominante (non più del 20% della popolazione) a cui era concesso ogni privilegio. Economisti e politici neoliberisti dicono che così non va bene, perché questo è populismo, termine che, a dispetto del suo significato etimologico, in politica è un insulto grave, utilizzato alla bisogna, soprattutto quando non si sa che altro dire.
Dare medici e ambulatori a chi non può permettersi una sanità privata (missione Barrio Adentro), scuole ed insegnanti a chi non ha potuto avere un’istruzione (missione Robinson), la possibilità di completare gli studi secondari a chi li ha interrotti (missione Ribas), alimenti a prezzi inferiori a chi non ha risorse (missione Mercal), è populismo?
Se lo è, allora ben venga il populismo, se serve per avere finalmente un po’ di giustizia.
Paolo Moiola
Paolo Moiola