MONGOLIA (3)Tra “Ethos” e “Daimon”

Come dialogare con i buddisti in Mongolia?
Da dove cominciare? Con quale linguaggio? Senza dubbio: con il linguaggio dell’amore e della carità.

La chiesa cattolica si prepara per estendere la sua azione fuori della capitale. «C’è molto da lavorare qui in Mongolia – dice il padre congolese Pierre Kasemuana, missionario di Scheut – e la tolleranza tra cattolici e buddisti è fondamentale per ottenere risultati concreti».
La presenza dei cattolici in Mongolia è numericamente esigua, ma molto apprezzata, anche dai buddisti lamaisti, che costituiscono il 90% della popolazione. Un obiettivo comune unisce le due fedi: dare un futuro alla nazione mongola, cominciando dai suoi abitanti più giovani.
Potremmo cominciare il dialogo leggendo insieme un testo, come il Canone buddista, che contiene molti brani condivisibili dai cristiani. Oppure potremmo scegliere la lettera di san Giacomo, che lo stesso Dalai Lama, per esempio, ha letto ed elogiato.
Questa lettera, in realtà, presenta varie somiglianze con alcuni testi della tradizione buddista, in particolare con quelli di scuola lojong (lett.: dimostrare la mente), i quali parlano, per esempio, di «tre livelli della fede» da conquistare successivamente e del dovere di tradurla in azione, dell’importanza dell’ascolto, «in contrapposizione al parlare», del controllo delle «emozioni negative», come l’ira.
È necessario dialogare per vincere fondamentalismi e intolleranze, che negano all’altro il diritto di essere differente e che, oggi, servono di pretesto per guerre e conflitti. Il teologo Hans Küng afferma: «L’umanità non sopravviverà senza una etica mondiale. Nel mondo, non ci sarà la pace senza dialogo fra le religioni».

DA DOVE COMINCIARE?
Il dialogo potrebbe cominciare da due parole dell’antica Grecia, quindi né cristiane né buddiste, ma che contengono concetti universali: ethos e daimon.
Il primo termine, ethos, richiama subito alla mente il concetto di «etica» (legge morale universale); ma il suo significato originario è piuttosto quello di dimora, abitazione umana. Non si tratta dei muri e tetto della casa; l’ethos indica quel complesso di relazioni che l’essere umano stabilisce con l’ambiente, da cui ritaglia lo spazio per la sua dimora, con i familiari per essere cornoperativi e pacifici, con un piccolo luogo sacro, dove si conservano le memorie più care, e con i vicini, perché ci sia mutua collaborazione e cortesia. In altre parole, l’ethos è il luogo dove l’uomo dà dignità alla sua esistenza.
Alla partenza da Roma, nel luglio del 2003, ci domandavamo come e dove sarebbe stata la nostra abitazione in Ulaanbaatar. Sapevamo che il vescovo aveva già affittato due appartamenti, uno per le suore e l’altro per noi padri. Ci aspettavamo di essere alloggiati almeno a un chilometro di distanza; invece ci siamo ritrovati nello stesso stabile, in due appartamenti sovrapposti. Ci troviamo bene: abbiamo scelto il luogo sacro comune (la cappella) e avviato il nostro ethos, cioè il nostro modo di essere missionari.
Per ogni missionario l’ethos è il mondo intero; nella pratica, però, diventa un luogo specifico, che per noi è la Mongolia. Essendo all’inizio, il complesso di relazioni con i mongoli è ancora complicato, ma non sarà difficile, poiché abbiamo già sperimentato che essi sono molto simpatici e aperti agli stranieri.
Ciò che fa della casa un ethos, cioè una dimora umana, un insieme di relazioni, è il daimon, che nel greco classico non è il demonio, ma il contrario: l’angelo buono, genio protettore. Socrate, per esempio, si lasciava orientare dal suo «demone»: lo chiamava «voce profetica dentro di me, proveniente da un potere superiore», o «segnale di Dio».
In ultima analisi, il daimon si identifica con la nostra coscienza, con quella voce interiore che suggerisce i nostri comportamenti, guida, dissuade o incoraggia altri elementi fondamentali del nostro essere: desideri, intelligenza, amore o potere.
Ancora prima di Socrate, il geniale filosofo Eraclito (500 a.C.) aveva unito i due concetti nell’aforisma 119: ethos anthrópo daimon, letteralmente: ethos all’uomo (è) daimon. Le interpretazioni di questo frammento sibillino sono molte. Nei tempi più recenti, il filosofo Martin Heidegger lo ha tradotto così: «L’uomo, in quanto uomo, ha la sua dimora in Dio»; invertendo i termini si può anche dire che «Dio è la dimora dell’uomo».
La fedeltà a questo angelo buono fa sì che abitiamo bene nella casa, quella individuale, nella città, nel paese e sul pianeta terra, la casa comune. Tutto ciò che facciamo perché si possa vivere bene insieme (felicità) è etico e buono; ciò che è contrario alla convivenza è anti-etico, cioè cattivo.

IL DIALOGO
Nel corso della storia, il daimon fu dimenticato, sostituito dai filosofi con sistemi etici, proposti come legge universale, e, negli ultimi secoli da ideologie, come marxismo e liberismo, che hanno ridotto l’etica a un affare utilitario, con conseguenze disastrose per la convivenza umana.
La Mongolia ne è un esempio. Per 70 anni satellite dell’Unione sovietica, in omaggio all’ideologia marxista-leninista fu proibita ogni pratica religiosa pubblica, i monasteri buddisti furono chiusi o distrutti, migliaia di monaci assassinati, molti altri perseguitati.
Da poco più di un decennio è ritornata la democrazia: nelle elezioni del 1996, la Coalizione della madrepatria democratica (Cdm) sconfisse il Partito rivoluzionario del popolo della Mongolia (Prpm), al potere nei precedenti 70 anni. Ma il popolo mongolo non sembra avere staccato totalmente il legame col partito comunista: nelle elezioni legislative del 2000 restituì il potere al Prpm e in quelle del giugno scorso ha diviso in parità i deputati mandati in Parlamento.
I governi che si sono succeduti in questi anni hanno abbandonato ogni atteggiamento antireligioso; anzi, hanno aperto le porte alle diverse religioni, pur imponendo certe limitazioni. Le chiese, per esempio, non possono esporre la croce fuori dell’edificio; nelle nostre scuole non possiamo avere segni religiosi; non è consentito fare manifestazioni religiose fuori degli edifici di culto.
Tuttavia, il dialogo con le autorità pubbliche è bene incamminato; le relazioni sono stabili. Senza dubbio, le autorità cominciano a capire chi siamo grazie all’impegno della chiesa verso i più bisognosi. Anche tale testimonianza è una forma di dialogo, fatto di gesti concreti, più eloquenti delle parole.
Quando parliamo dei poveri, ci troviamo in sintonia con i fratelli buddisti; pure i monaci, infatti, hanno opere a favore dei bambini di strada, degli anziani bisognosi, dei carcerati, dei giovani.
Inoltre, in Ulaanbaatar il buddismo asiatico ha la sede della Conferenza continentale per la pace. Anche sotto questo aspetto non è difficile darci la mano per leggere insieme i segni dei tempi e il grande libro della vita, nella ricerca della pace e dell’armonia.

PRESENZA DI FEDE E AZIONE
Dio ha piantato la sua gher (la tipica tenda rotonda) in mezzo alla Mongolia dei buddisti, degli sciamanisti, dei musulmani… e di noi cattolici, chiamati a lavorare in questa vigna del Signore nell’ultima ora.
Dice Simone Weil: «Ogni qualvolta una persona ha invocato con cuore puro Osiride, Dioniso, Budda, il Taho, ecc…, il Figlio di Dio ha risposto inviandogli lo Spirito Santo. E lo Spirito Santo ha agito sulla sua anima, non impegnandolo ad abbandonare la sua tradizione religiosa, ma donandogli la luce e, nel migliore dei casi, la pienezza della luce, all’interno di tale tradizione».
Come missionarie e missionari della Consolata in Mongolia, abbiamo bisogno di ascoltare la voce dello Spirito, per liberarci da preconcetti, paura del nuovo, occidentalismo, conservatorismo e da tutto ciò che ci impedisce di aprire le nostre tende e accogliere gli altri.
È lo Spirito che insegna il cammino del dialogo e la ricerca della pace. Tale cammino non può rimanere ristretto alle grandi conferenze, ma deve essere praticato ogni giorno, in casa, nelle relazioni familiari e nella convivenza con i vicini. Dio è amore e ci fa fratelli e sorelle nella ricerca dell’ethos perfetto, della «Terra senza mali», del «paradiso dell’armonia».
Per ora la nostra missione consiste nell’essere comunità di presenza, che si dedica ai lavori domestici (cucinare, lavare, stirare…), partecipa alla vita e alle attività delle comunità locali e, soprattutto, apre il cuore a futuri orizzonti.

BOX 1

IL MONDO RELIGIOSO DEI MONGOLI

Sciamanismo
È la componente più antica della cultura e della vita del popolo mongolo. È sopravvissuto al buddismo, che ne ha assimilato o inculturato vari elementi. Si è rafforzato durante il governo comunista, dal momento che non aveva né libri sacri da bruciare, né templi da distruggere. Oggi è praticato nelle zone rurali più remote.
Lo sciamano, circondato da un’aureola di rispetto e timore, è l’anello di unione tra vita terrena e mondo degli spiriti, grazie alla sua esperienza estatica (trance). Il suo ruolo è per natura benefico e la sua funzione molteplice. Lo sciamano è medico (diagnostica il male mediante il contatto con gli spiriti e lo cura con interventi diretti); è psicologo (con rituali e dialogo agisce sulla psiche del paziente); è sacerdote (offre sacrifici e compie riti sacrali); è divinatore (nell’esperienza estatica, rivela fatti sconosciuti del passato e previene il futuro; fa ritrovare cose o persone smarrite); è psicopompo (accompagna l’anima del defunto nella nuova dimora).
Dialogare con lo sciamanismo è dialogare con la realtà più profonda della persona mongola. Per noi missionari è pure una sfida: ci stimola a scoprire nuovi modi per diventare medici del corpo e dello spirito, per attuare la nostra dimensione sacerdotale e profetica, per essere guide delle anime verso la vita senza fine.

L’antico pantheon
Fino alla seconda metà del xvi secolo, i mongoli praticavano una propria religione, poi soppiantata dal buddismo nella forma lamaista; ma alcuni antichi elementi sono sopravvissuti.
Nelle sconfinate distese della steppa, dove il cielo rappresenta l’unica possibilità di orientamento, la stella polare determinava l’asse terrestre; sotto di essa c’era l’«ombelico» del mondo, dove aveva sede il «Signore dei mongoli».
Al cielo si volge lo sguardo dell’antico cavaliere mongolo: dal cielo scende la pioggia per i pascoli delle mandrie; il cielo è la sede della divinità suprema, Tengri (cielo), raffigurato come un cavaliere con vessillo e invocato come erketu Tengri (potente cielo) o koke mongke Tengri (eterno cielo azzurro).
Questo Essere supremo è alla testa di 99 figure divine, 34 delle quali individuate nella zona orientale della volta celeste e 55 in quella occidentale. A queste 99 figure celesti corrispondono 77 madri della terra, a volte raffigurate complessivamente nella sola Etugen, la madre terra.
Chagan Ebugen (bianco vegliardo), lo spirito delle mandrie e della fertilità, viene ritratto come un vecchio con vesti e capelli bianchi. Accanto alle divinità a cavallo, protettrici dei cavalieri, esistono divinità tutelari della casa, gli «dei di feltro», dal materiale con cui sono riprodotte le loro immagini. All’ingresso delle tende, erano posti gli ongon, spiriti protettori dell’abitazione, ai quali veniva offerto del latte.
Gli sciamani, sia uomini (boge) che donne (idughan), avevano la funzione di stabilire, tramite riti sacrificali ed estatici, un contatto con il mondo di tali spiriti e divinità.
Presso l’ovoo, un cumulo di pietre dove si riteneva si riunissero gli spiriti della natura, pastori nomadi e viaggiatori invocavano la protezione di queste potenze.

Aspettando Gengis Khan
Depositario di antiche e ricche tradizioni religiose, il popolo mongolo si è sentito investito della missione di creare un impero universale che riunisse tutti i popoli dei «quattro angoli», cioè dei quattro punti cardinali.
Tale credenza è rafforzata da antichi miti, riportati dalla Storia segreta dei mongoli, compilata nel 1240. Tali miti raccontano che i capostipiti del popolo mongolo furono «il lupo blu e la cerva selvatica»; il clan di Gengis Khan ebbe origini celesti; al momento della nascita, Temujin stringeva in pugno un grumo di sangue nero, simbolo di regalità. La leggenda lo presenta come «inviato dal destino», rivestito di poteri derivanti da Tengri, dio del cielo; dopo la morte è diventato una potenza celeste e il più nobile degli antenati.
Temujin (1155-1227), che nel 1206 prese il nome di Gengis Khan (khan oceanico, universale), è il fondatore del più grande impero che la storia ricordi: si estendeva dal Mare della Cina fino ai Balcani e al Golfo Persico.
Col passare dei secoli, nonostante che la Mongolia fosse diventata uno stato teocratico, basato sul buddismo lamaista, la memoria di Gengis Khan rimase radicata a livello popolare, grazie all’influsso degli sciamani. Il ricordo delle sue imprese ha assunto una dimensione mitica, fino a diffondersi la credenza nel suo ritorno e nella rinascita del suo impero. Ancora oggi, visitando le famiglie mongole, vediamo spesso un ritratto o disegno di Gengis Khan posto in bella mostra.

Ritoo a Karakorin
L’antica capitale del regno mongolo, era un grande centro culturale e commerciale in cui varie religioni convivevano in armonia. Secondo la leggenda, la città era il luogo sacro per l’iniziazione e la sede del «Re del mondo».
L’antica Karakorin non esiste più: sulle sue rovine, nel 1500 fu costruito il monastero di Erdene Zuu, il cui tempio è ritenuto la residenza del messia, quando questi farà ritorno sulla terra alla fine del kali yuga, cioè nell’ultima delle quattro ere del ciclo cosmico buddista. Ed è quella attuale, la più tenebrosa e oscura.
Nel secolo scorso, in concomitanza con la condizione di oppressione del popolo mongolo, si diffuse un’aspettativa messianica che prevedeva la riconquista dell’identità nazionale a lungo repressa. Tali speranze furono alimentate dal profeta altaico Chot Chelpan, che nel 1904 fondò un movimento di riscossa nazionale, basato sulle sue visioni: gli sarebbe apparso un cavaliere bianco vestito, che cavalcava un cavallo bianco, annunciandogli il ritorno di Oirot Khan, discendente di Gengis Khan, per porre fine all’oppressione zarista e ripristinare l’antico impero dei mongoli.
Per alcuni mongoli la profezia di Chelpan si è ridotta a una tenue speranza: vedere Karakorin, tra una decina di anni, capitale della Mongolia. Ma mancano i soldi per adattare, modeizzare e trasformare la città.
Speriamo anche noi: un giorno Karakorin potrebbe essere la terra che accoglie i missionari della Consolata.

Juan Carlos Greco