Perché vogliamo, io e te, risalire il cammino del sole, cerchiamo di attirare verso di noi il giorno del passato, sentiamo che siamo troppo leggeri sotto quel peso; e per riempire la nostra presenza siamo troppo vuoti in questa assenza, in questo oblio; sì, la nostra presenza nel mondo; una parola troppo grossa per noi.
(Édouard Glissant, Il quarto secolo).
Come si sente una persona che sa per certo di discendere direttamente dagli antichi schiavi africani? Le ferite profonde, causate dallo sradicamento violento dall’Africa e dalla vita disumana sulla nuova terra, si sono rimarginate o popolano ancora l’immaginario collettivo dei popoli delle Antille francesi? Con toni poetici lo racconta Édouard Glissant, scrittore della Martinica anche lui discendente di schiavi, nel suo affascinante romanzo Il quarto secolo, premiato in giugno dal Grinzane Cavour.
Nato nel 1928 a Sainte-Marie in Martinica, Édouard Glissant, dopo aver frequentato, grazie a una borsa di studio, il liceo Schoelcher di Fort-de-France, nel 1946 parte per Parigi, dove prosegue gli studi filosofici ed etnologici alla Sorbona e al prestigioso Musée de l’homme.
Con una solida preparazione culturale, inizia la sua collaborazione con riviste letterarie come poeta e saggista. Nel 1958 ottiene il premio letterario Renaudot per il suo primo romanzo La Lézarde e inizia la sua attività politica per il diritto della disobbedienza nella guerra di Algeria, che lo vedrà perseguitato e anche arrestato.
Il quarto secolo, l’unico romanzo tradotto finora in italiano, esce nel 1964. L’anno dopo Glissant rientra in Martinica dove insegna filosofia al liceo e fonda una rivista letteraria e un istituto di studi su tradizioni e cultura della sua isola.
Tornato a Parigi nel 1980 scrive saggi, poesie, romanzi e diviene redattore capo della rivista Le Courrier de l’Unesco. Negli anni ’90 ottiene riconoscimenti inteazionali in molte università. Attualmente è titolare della cattedra di Letteratura francese alla City University di New York e presidente onorario del Parlamento internazionale degli scrittori.
«Terra, schiavi, magazzini, rum» furono, secondo Glissant, le «manie» dei bianchi dominatori delle Antille francesi, forse nobili o criminali fuggiaschi dalla Francia, che per quasi tre secoli si arricchirono con il lavoro degli schiavi, cioè dal 1635, anno di annessione della Martinica alla Francia, sino al 1848, anno in cui fu abolita la schiavitù.
Sulla storia travagliata della Martinica, filtrata dall’insolito sguardo degli «schiavi», si snoda la trama de Il quarto secolo. Nel 1935 iniziano, infatti, gli incontri regolari tra i due protagonisti del romanzo: l’anziano papà Longoué, stregone e chiaroveggente, e il quattordicenne Mathieu, un ragazzino sveglio e curioso di conoscere il perché della loro presenza sull’isola.
Papà Longoué racconta come nel 1789 arrivarono sull’isola il primo Longoué e il primo Béluse, antenato di Mathieu, sulla nave negriera Rose-Marie capitanata dal francese Lapointe. Persino la madre Africa, terra di provenienza del macabro traffico, era stata infettata da tanto squallore. Con occhio disincantato e spietato Glissant rievoca: «Quando il capitano arrivava c’era già il carico… L’intero paese era stato drogato, le madri avevano venduto i figli, gli uomini i fratelli, i re i sudditi, l’amico vendeva l’amico per il rum senza canna. E così compravano la morte con la moneta della morte, per potersi tuffare nella morte del rum».
Con ironia denuncia poi i cinici calcoli dei negrieri: «Il capitano era un uomo umano e organizzato. A che cosa serviva mettee 800 nelle stive e arrivare con 200, quando si poteva tranquillamente allineae seicento fra i ponti e arrivare con quattrocento?». La traversata fu terribile e disumana, ma ancora più terribile fu l’arrivo nella nuova terra sconosciuta, dove arroganti e beffardi «bianchi» si spartivano il carico.
Eppure, prima di sbarcare, Longoué e Béluse si batterono in un’epica lotta, sotto gli occhi sbalorditi dei loro futuri padroni, La Roche e Senglis. Due rivali che, di solito, usavano gli schiavi anche per le loro sfide personali. Mentre Béluse e la sua discendenza vissero come schiavi nella tenuta di La Roche, Longoué riuscì subito, con una fuga rocambolesca, a seminare cani inferociti nella foresta di acacie, e divenne un negro maron, con una vita libera insieme alla bellissima giovane schiava che, chissà come, aveva compreso un suo gesto tradizionale: gli aveva tagliato le corde e poi era stata rapita dall’audace Longoué mentre scontava l’atroce supplizio della croce.
Glissant racconta le vite parallele in un mondo dove coloro che si credono i «padroni» sono di fatto schiavi di usi e costumi talvolta ridicoli, che mal si adattano all’isola tropicale. Ai loro occhi, però, gli altri abitanti dell’isola sono «schiavi e inesistenti, senza qualità umana, come voleva l’uso della società». Il padrone può fare di tutto: scegliere il nome dello schiavo, farlo accoppiare come ritiene più opportuno, torturarlo (su una croce), seviziarlo, mutilarlo, ucciderlo. Gli schiavi diventano così «un popolo ai margini, soddisfatto di una penombra in cui sopravviveva alla maniera degli animali e che fingeva persino coll’affezionarsi ai padroni». I pochi neri liberi (maron), che vivono nella foresta, si chiedono perché gli altri non fuggano, senza capire che proprio la sottomissione degli altri protegge la loro libertà.
N el 1848 fu decretata la liberazione degli schiavi. Tutti furono registrati con nomi e cognomi di fantasia. Gli abitanti delle foreste scesero a valle, ma, commenta Glissant, «non c’è da stupirsi che questi negri si urlassero addosso e abbiano disprezzato il colore del legno sulla pelle», perché «il paese laggiù era morto per sempre; sì, certo, c’era la nuova terra, ma non la sentivano dentro il loro ventre, non vedevano l’unico cielo sopra di loro, cercavano in lontananza altre stelle, senza contare il loro fiume asciutto e la loro foresta senza radici».
Nasceranno, poi, le città, «il santuario della parola, del gesto, della lotta», si consoliderà la lingua creola, mentre la «gente di colore» si batterà per ottenere posti di lavoro dignitosi e poi – osserva con ironia lo scrittore della Martinica – per «strappare gli altri diritti che ne derivano (il diritto di agitarsi in quanto cittadino che elegge il suo sindaco e il suo deputato… il diritto di aprire bottega e di pavoneggiarsi, il diritto di addobbare la notte con una scintillante ghirlanda di parole)».
Intanto, malgrado fosse terminata la schiavitù ufficiale, l’isola si sarebbe, fino ai giorni nostri, popolata dei nuovi «negrieri», cioè persone che sfruttano gli abitanti locali e agiscono come l’antico capitano Lapointe, ma nel ruolo di «ricchi funzionari con il beneficio di una cospicua indennità di soggiorno».
Anche la religione è stata imposta agli schiavi dai padroni, credenti in un dio «che temevano tanto, ma verso il quale si comportavano in modo disinvolto», e si è perciò rivelata una sequela di feste e vuoti rituali.
Spicca, comunque, la bella figura di Melchior, «un uomo buono con tutta la forza della bontà, quando è fortificata dalla solitudine», nato dal primo Longoué e dalla schiava rapita, che volle mettere al figlio il nome del mitico re, e vissuto libero nella foresta per curare e guarire, lenire le pene, capace di non vendicarsi del male subito (l’uccisione del fratello) e con la sua presenza di far «maturare la forza e la pazienza».
Melchior è il nonno di papà Longoué e ne diviene un maestro da indicare come esempio; infatti, «non lo afflisse con ricette o conoscenze precise; ma, come un uccello che fischia invisibile fra i rami e altrettanto tenue e insistente, gli diede in quella parola frusciante il gusto dell’acqua che si cerca, del ramo che cresce, della roccia che si sgretola, della terra che lavora; di quello che dolcemente si anima e aspetta paziente sotto il sole». •
Silvana Bottignole