BOLIVIA – incontro con il presidente Carlos Mesa: «Se i popoli tornano proprietari»

INCONTRO CON IL PRESIDENTE CARLOS MESA

A chi appartengono le risorse naturali? In Argentina, hanno venduto tutto
ai tempi di Menem. In Venezuela, se lo stato non fosse il padrone delle risorse petrolifere, non si sa cosa sarebbe successo. In Bolivia, le rivolte popolari hanno mandato a casa un presidente che voleva svendere le ricchezze del paese, calpestando i diritti dei legittimi proprietari. Il sostituto, Carlos Mesa Gisbert, sta cercando di arginare l’arroganza e la voracità delle multinazionali petrolifere. Ma non è facile. Lo abbiamo incontrato a La Paz, capitale del paese latinoamericano.

LA PAZ – Nell’accogliente Plaza Pedro Domingo Murillo si trova tutto: la cattedrale metropolitana, il Congresso, il palazzo presidenziale. L’appuntamento è in quest’ultimo, per mezzogiorno. Alto ed elegante, il presidente boliviano Carlos Mesa ci accoglie nel suo studio con puntualità svizzera.
Pare una persona gentile e disponibile, forse memore di essere stato un giornalista televisivo e quindi abituato ai rituali delle interviste (1).

Presidente Mesa, dal 18 ottobre 2003 lei è alla guida della Bolivia. Perché ha accettato? Non ha timore di rimanere travolto dai tanti problemi di questo paese?
«Ho accettato perché mi ritengo una persona che ha preso un reale impegno verso il paese. Sono consapevole che essere presidente della Bolivia è un compito gravoso, perché si è continuamente sottoposti a pressioni enormi, ricatti, minacce. E poi ci sono una serie di domande che si sono storicamente accumulate e rispondere a queste è realmente molto difficile. Allora – lei mi chiede – perché ho accettato la candidatura alla presidenza? Perché ho pensato che, dopo il governo di Sánchez De Lozada, potevo contribuire a ridare prestigio a questa carica, aiutato dal fatto che io non ho mai fatto politica».

Lei non ha mai fatto politica… Infatti, non ha un partito politico alle spalle, né una chiara maggioranza parlamentare che lo sostenga…
«Questo è un dato di fatto. D’altra parte, il paese ha assistito alla crisi dei partiti politici, soprattutto per quanto riguarda la loro credibilità. Quindi, era impossibile affidarsi ad essi, in particolare nella prima fase. Certamente, sul lungo periodo un governo senza partiti non riesce ad avere un orizzonte davanti a sé. L’importante è analizzare con chiarezza le cose».

In Italia si è parlato molto della Bolivia nei mesi passati a causa del problema del gas. Potrebbe spiegarci, in poche parole, i termini della questione?
«La Bolivia è un produttore molto importante di gas. La capitalizzazione (2), iniziata nel 1994, ha permesso di aumentare enormemente la quantità prodotta. C’è quindi un grande orizzonte economico di esportazione e trasformazione del gas. Quali sono i problemi? Primo una difficoltà storica iniziale, dovuta alla rivendicazione della Bolivia di avere un proprio accesso al mare. Al momento l’esportazione avviene attraverso un porto cileno senza sovranità e questa è una questione che metterò in agenda. In secondo luogo, la maggioranza del popolo boliviano non vorrebbe vendere il gas al Cile, finché questo paese non darà una risposta favorevole alla questione di un nostro sbocco al mare. Questo fatto crea problemi per l’esportazione di gas verso il Messico e verso gli Stati Uniti. Più facile è esportare gas in Argentina e in Brasile, al quale già lo vendiamo.
Oltre a parlare di esportazioni, dobbiamo iniziare a beneficiare direttamente del nostro gas, utilizzandolo come fonte energetica domestica e sostituendo le macchine a benzina con macchine a gas. Tutto ciò significa incentivare una trasformazione e industrializzazione del gas in loco».

Concretamente, cosa sta facendo il suo governo?
«Stiamo studiando una nuova legge degli idrocarburi che aumenti le imposte delle imprese transnazionali in modo che la Bolivia possa beneficiare di maggiori entrate. Ripeto: è necessaria una nuova politica energetica globale per il nostro paese. Questo significa che vogliamo esportare il gas, ma anche industrializzarlo e darlo ai boliviani come fonte energetica».

Si può frenare l’invadenza e l’arroganza delle imprese petrolifere? Non è facile credo, no?
«Non è facile, perché le industrie petrolifere hanno firmato dei contratti quando vigeva la legge che noi ci stiamo apprestando a cambiare e ora pretendono che noi rispettiamo quegli impegni».

Quali sono i fondamenti sui quali volete costruire la nuova legge per gli idrocarburi?
«Quello che noi vorremmo è un sistema di imposte più giusto. Questo passa anche attraverso la sicurezza e la stabilità politica della Bolivia. Se non riusciamo a raggiungere un equilibrio, non sarà facile dimostrare alle imprese transnazionali che i contratti precedenti non erano giusti né per i boliviani, né per loro.
Stiamo presentando le nostre proposte di modifica sia alle compagnie petrolifere che al parlamento. Lavoriamo su una proposta di legge, che vuole combinare una garanzia di sicurezza per chi investe (le imprese) e un ritorno economico per il nostro paese. È una contrattazione aperta».

Le province dove si estrae il gas vogliono contare di più. Esiste un pericolo separatista in Bolivia o sono invenzioni?
«Non credo che siano tutte fantasie, ma non credo neppure che esista un vero progetto separatista. Credo invece che ci sia una forte domanda di autonomia di quei dipartimenti in modo che possano amministrare le proprie risorse, gestire le proprie politiche senza con questo rompere con lo stato boliviano. Insomma, la logica non è separatista, ma c’è un’esigenza molto forte di autonomia».

Lei non nega il problema dell’accesso al mare e la storica controversia con il Cile. È possibile risolvere questo problema? Esiste una soluzione concretamente fattibile?
«Certo che esiste una soluzione! Ed è anche molto più semplice di quello che si vuole far credere. Prima però si deve far capire al mondo che il problema esiste ed è reale. La Bolivia ha posto questo problema a livello internazionale, poiché il Cile sostiene che la questione non esiste e non ci sono rivendicazioni pendenti. Invece è un dato di fatto storico che ci siano rivendicazioni pendenti e che esista un problema di sovranità. Esiste d’altra parte la nostra volontà di arrivare a un negoziato con il Cile ed anche con il Perù, perché la Bolivia crede che debba aver un accesso libero, diretto e sovrano all’Oceano Pacifico.
D’altra parte, noi non stiamo chiedendo di avere indietro tutti i 400 Km di costa che abbiamo perso nel 1879. Semplicemente vogliamo avere un porto dal quale poter esportare i nostri idrocarburi, qualora ce ne fosse bisogno. Il tema, pertanto, si riduce ad una piccola porzione del territorio cileno. Tra l’altro, in base agli accordi del 1955, su questo tema anche il Perù ha qualcosa da dire. In conclusione, la Bolivia è disposta a dialogare e ritiene anzi che la sua pretesa attuale sia molto più modesta di quella che invece fu la reale perdita storica».

Lei gode di un buon appoggio popolare. Ora però deve affrontare una situazione economica grave, con un deficit pubblico che è quasi al 9%. Come si può risolvere questo problema senza colpire nuovamente i più poveri?
«Noi abbiamo proposto una redistribuzione della tassazione il cui obiettivo è proprio quello di non toccare i più poveri e colpire invece il settore delle transazioni finanziarie, delle banche e degli istituti di credito. In Bolivia, l’accesso alla finanza è ristretto alla classe media e a quella alta. La gente povera non ha accesso al sistema finanziario e quindi non può venire colpita in nessun modo da queste misure.
Insomma, tutte le nostre misure economiche evidenziano una forte attenzione nei confronti della popolazione più povera. Quanto al nostro deficit, contiamo anche sull’appoggio internazionale per riuscire a colmarlo».

Continuiamo a parlare di povertà, presidente Mesa. La Bolivia è un paese potenzialmente ricco, ma nelle classifiche inteazionali è immediatamente dopo Haiti nell’elenco dei paesi più poveri. Esiste una soluzione a breve?
«Una precisazione: quando si usano le statistiche, è meglio avere dati aggioati. I suoi sono un po’ vecchi, dottor Moiola. Adesso siamo davanti al Nicaragua, all’Honduras e alla pari con il Guatemala: non che questo sia un motivo di vanto, ma è giusto essere precisi.
Dunque, come implementare una politica di lotta alla povertà? Innanzitutto con il dialogo nazionale a partire dalla base, dal livello dei municipi, sviluppando il dialogo sociale. Perché la soluzione non venga solamente dal governo, ma sia il frutto della proposta di un’intera società. Il tema che è strettamente legato a questo è quello di riuscire a ridurre il peso del deficit dovuto al debito estero».

Può darci un esempio di lotta concreta alla povertà?
«Per esempio, stiamo lavorando all’implementazione del “Servizio unico materno-infantile” (Sumi), con il quale si vuole garantire alla madre e ai bambini un’assistenza minima per i primi 5 anni di vita. Stiamo lavorando a strategie di lotta alla povertà nelle aree rurali, che è il punto veramente critico. Oltre ai nostri investimenti abbiamo l’aiuto della cooperazione internazionale, che è molto importante ed apprezzabile, ma che, d’altra parte, genera una certa dipendenza. Per questo cerchiamo di orientare i loro investimenti sull’obiettivo di fomentare la produzione, perché crediamo che l’aumento della produttività possa essere una soluzione al problema».

Da anni, in tutto il mondo, si assiste ad un processo di privatizzazione portato avanti secondo i rigidi dettami del neoliberismo. Anche la Bolivia ha seguito questa strada per molti settori produttivi. Com’è andata, presidente Mesa?
«Innanzitutto bisogna precisare che la Bolivia non ha lavorato nelle privatizzazioni sulla stessa linea del Perù o dell’Argentina. Il nostro è stato piuttosto un processo di “capitalizzazione”.
In secondo luogo, il lavoro è stato fatto su 5 grandi imprese nazionali (petrolio, energia elettrica, telecomunicazioni, ferrovie, trasporto aereo) con esiti molto diversi. Nel settore aereo, è stato un disastro e siamo arrivati sull’orlo del fallimento. Nel settore delle ferrovie, il risultato è stato buono dal punto di vista economico, soprattutto per la ferrovia dell’oriente, mentre è stato negativo sotto l’aspetto dell’offerta, in quanto alcune linee sono state chiuse e quindi la gente è stata privata del servizio di trasporto, come accaduto per la ferrovia di Potosì. Bisogna quindi ricalibrare un po’ le priorità, perché in questo settore non c’è solo un aspetto economico da considerare, ma anche un aspetto sociale. Infine, nel settore delle telecomunicazioni, la capitalizzazione è stata addirittura spettacolare: la Bolivia è cresciuta in modo impressionante in questo settore. Basti un dato: avevamo circa 300.000 linee telefoniche, adesso ne abbiamo 1,7 milioni».

Il partner di Entel, la compagnia boliviana, è Telecom Italia, giusto?
«Sì, proprio Telecom Italia. È stato realmente un risultato straordinario, considerando che si è arrivati alla copertura telefonica anche di piccoli paesi dell’area rurale. All’inizio c’è stata una salita dei prezzi, ma adesso stanno scendendo e si sta aprendo anche alla concorrenza. Per quello che riguarda l’elettricità ci sono state luci ed ombre: ci sono imprese che hanno funzionato bene, altre meno. Nel caso degli idrocarburi, l’aspetto positivo è stato di moltiplicare per 10 la quantità di petrolio estratto, ma in quanto alle entrate per lo stato la capitalizzazione non ha reso per niente. Stiamo investigando per capire cosa non abbia funzionato».

Se ho ben capito, la strada della «capitalizzazione», scelta dalla Bolivia, è uno strumento neoliberista che, al contrario delle privatizzazioni, ha funzionato. È così?
«In generale, direi che ha funzionato. Anche se, a voler essere precisi, non possiamo definirlo uno strumento neoliberalista in senso stretto. Un altro aspetto positivo è il capitale che lo stato ha incassato. Con esso abbiamo potuto costituire un fondo di assistenza per tutte le persone maggiori di 65 anni, che in base ad esso hanno diritto ad una rendita annuale» (3).

A parte la capitalizzazione, lei che cosa ne pensa della filosofia neoliberista?
«Il neoliberismo nel suo concetto ortodosso ha fallito. Questo lo si può vedere in tutta l’America Latina e la Bolivia ne è un esempio ulteriore. Siamo nel 2004 e sono 18 anni che stiamo chiedendo sacrifici ai boliviani: la gente non crede più a questo modello economico. Si tratta allora di reinserire lo stato nel ruolo di gestore dell’economia. Non solo nel senso di favorire una maggiore produttività, ma anche per lottare contro la povertà e sviluppare l’educazione».

Presidente, ci dica qualcosa sulle relazioni inteazionali della Bolivia, in particolare con gli Stati Uniti e con l’Europa.
«La relazione con gli Stati Uniti è molto importante per la Bolivia, come del resto per tutti i paesi latinoamericani dal momento che siamo nella loro area di influenza. Per gli Stati Uniti è fondamentale il tema dello sradicamento delle piantagioni di coca. Questo è un tema certamente importante, ma per noi è una problematica che ha costi economici e sociali molto elevati, perché sono molte le famiglie boliviane la cui sopravvivenza quotidiana è legata alla produzione della coca (4). Gli Stati Uniti ci appoggiano nell’aspetto economico, creando un forte legame di dipendenza, ma la problematica della coca è molto più complessa.
Per quanto riguarda l’Unione europea e l’Europa in generale dobbiamo invece approfondire i nostri legami e riuscire ad instaurare relazioni più stabili, anche per riequilibrare le nostre relazioni inteazionali».

Toiamo alla politica intea, presidente. Come sono i suoi rapporti con il gruppo di Evo Morales (Mas) e Felipe Quispe (Mip)?
«Sono due relazioni assolutamente distinte dal punto di vista politico. Felipe Quispe è una persona che rappresenta un gruppo di persone molto preciso ed identificabile che proviene dall’area dell’altopiano, ha posizioni molto radicali e poco flessibili. Credo che il massimalismo sia la sua logica e, pertanto, non vedo come si possa negoziare con lui in un contesto democratico.
Evo Morales è una persona diversa. Ha una prospettiva elettorale molto ampia, vuole arrivare al governo e per questo si è inserito all’interno di un dibattito democratico. Negli ultimi mesi, ha contribuito alla gestione del governo, con un atteggiamento razionale e ragionevole. Ultimamente, in verità, mi sembra stia prendendo posizioni molto critiche rispetto alla nuova legge sugli idrocarburi. È cioè molto vicino a posizioni simili alla nazionalizzazione, creando una serie di problemi nelle relazioni inteazionali, con la cooperazione, con la stessa industria petrolifera con cui ci sono contratti firmati. In tutto questo Morales ha però mantenuto una posizione legittima, all’interno di un dibattito democratico».

Lei sembra una persona ottimista. Significa che pensa di arrivare alla fine del suo mandato presidenziale, prevista per il 6 agosto del 2007?
«Questo è quello che mi propongo. Si deve vedere, se il popolo boliviano continuerà ad appoggiare un governo che ha cercato di gestire le cose in maniera trasparente. Sicuramente affronteremo momenti difficili e la tensione sociale potrebbe aumentare un po’. Credo che il popolo però capisca che non si può chiedere tutto a un governo nato da una crisi così grave».

BOX 1

MA ALLA FINE CHI HA VINTO?

Le multinazionali petrolifere? Il governo Mesa? I boliviani?
Il risultato è incerto e la partita non è finita.

Nel referendum del 18 luglio, le 5 domande erano ambigue ed alcune di esse troppo lunghe. Comunque, circa il 60 per cento degli aventi diritto (2,7 milioni di boliviani su 4,5) è andato ad esprimere la propria preferenza e la maggioranza di essi ha optato per i «sì».
Dopo la consultazione popolare, si è iniziato a discutere il progetto di nuova legge per gli idrocarburi, progetto presentato dal governo del presidente Mesa. Ma trovare un accordo sarà un’impresa, perché sono troppe le volontà contrapposte.
Ci sono, in primo luogo, le 20 imprese petrolifere presenti nel paese. Attualmente, in Bolivia il costo di produzione è uno dei più bassi tra quelli sostenuti dalle 200 maggiori imprese petrolifere che operano in diverse regioni del mondo. Questo vantaggio si traduce in profitti enormi per le compagnie. Le quali, di conseguenza, non sembrano intenzionate a ridiscutere i contratti (un’ottantina) che hanno sottoscritto prima del referendum, ovvero in base alla legge n. 1689 del 1996. In altri termini, qualsiasi cambiamento dello status quo sarà osteggiato dalle petroleras, come le chiamano i boliviani.
Ci sono poi le diverse posizioni degli 8 partiti rappresentati nel Congresso boliviano. Intanto, il referendum ha diviso il paese, soprattutto a sinistra, considerando che la principale organizzazione sindacale (la Central obrera boliviana, Cob) e il Movimiento indigena pachakuti di Felipe Quispe hanno sostenuto il boicottaggio del referendum. Infine, ci sono le pressioni degli organismi inteazionali, con in prima fila il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale.

Allora la domanda è questa: è cambiato (o potrà cambiare) qualcosa con il referendum del 18 luglio? Lo abbiamo chiesto a due esperti, entrambi molto stimati, ma con posizioni opposte sull’argomento. Secondo Francesco Zaratti, italiano da 31 anni in Bolivia, professore universitario ed ascoltato delegato presidenziale, «il referendum è stato positivo dal punto di vista della democrazia e della stabilità del governo, ma un po’ sterile per quanto riguarda i risultati tecnici e politici».
Molto critico è, invece, Osvaldo Calle Quiñonez, giornalista, specialista in tematiche economiche: «Il referendum del 18 luglio è stato uno dei peggiori processi di consultazione popolare mai organizzati. Tutti i 5 quesiti erano formulati in modo tale che era impossibile rispondere “no”. Ciò è stato possibile perché l’elaborazione delle domande è stata fatta da una équipe che si è basata sulle inchieste commissionate e pagate dalle petroleras, con la Total in testa. Per questo io sostengo che le imprese petrolifere sono il vero vincitore del referendum. Il presidente Mesa è stato il loro strumento ed Evo Morales, pur con qualche reticenza, si è adeguato». Osvaldo Calle ha anche denunciato la pratica delle imprese petrolifere di «comprare la benevolenza» degli esperti governativi (attraverso contratti di consulenza) e dei mezzi di informazione boliviani (attraverso la pubblicità).
Quale sarà l’immediato futuro per la Bolivia? Il professor Zaratti ha in testa un cammino preciso: «Dopo aver varato la nuova legge sugli idrocarburi, eleggeremo un’assemblea costituente che avrà il compito di riformare lo stato. Nel frattempo, con l’aiuto del gas, speriamo di stabilizzare l’economia e di modeizzare lo stato». Intanto, lo scorso 29 settembre il ministro degli esteri del Cile ha destituito il console generale a La Paz, Emilio Ruiz-Tagle, colpevole di essersi espresso a favore della richiesta boliviana di uno sbocco al mare in territorio cileno. Meglio vanno i rapporti con Buenos Aires: il 14 ottobre i presidenti dei due paesi si sono incontrati a Sucre per sottoscrivere un forte incremento delle esportazioni del gas boliviano verso l’Argentina.

Per ora la Bolivia presenta queste cifre: secondo posto, in America Latina (dietro il Venezuela), in fatto di riserve di gas, ma il 70 per cento dei suoi 8,2 milioni di abitanti continua a vivere in povertà o nell’indigenza. Come conferma anche l’ultima classifica Onu sull’indice di sviluppo umano, che colloca il paese latinoamericano al 114.mo posto (su 177 paesi considerati). Il 23 settembre, durante l’assemblea dell’Onu, il presidente Mesa non ha esitato a criticare l’ortodossia neoliberista e a parlare della necessità di combinare le forze del libero mercato con quelle dello stato regolatore. Speriamo sia di parola.


Pa.Mo.

Paolo Moiola