VENEZUELA 2004 Tra Bolivar e Chávez (quarta puntata)

VENEZUELA 2004 (quarta puntata)

Abbiamo visitato tre quartieri popolari (molto popolari) di Caracas:  La Dolorita, 23 de Enero, El Manicomio. Le persone incontrate ci hanno parlato di miserie umane (disoccupazione, violenza, droga, omicidi), ma anche di speranza in un futuro diverso.

«POVERI DI DENARO,
MA RICCHI DI CUORE E DI MENTE»

Nessuno nega i problemi, ma è bello vedere negli occhi il luccichio della speranza.

Caracas, «23 de Enero». All’uscita della metropolitana ti compare dinanzi uno di quei «bloques». È talmente grande, anzi incombente, che sembra ti debba cadere addosso da un momento all’altro. Non sono belli questi condomini di cemento armato, geometrici come alveari, ma non differiscono molto da quelli che popolano le nostre città. Caracas, «23 de Enero». All’uscita della metropolitana ti compare dinanzi uno di quei «bloques». È talmente grande, anzi incombente, che sembra ti debba cadere addosso da un momento all’altro. Non sono belli questi condomini di cemento armato, geometrici come alveari, ma non differiscono molto da quelli che popolano le nostre città.
«Ci abitano migliaia di persone», ci spiega Ramón Castillo, mentre su una vecchia auto raggiungiamo il cuore del «23 de Enero», un quartiere (qui si dice parroquia, a sua volta divisa in barrios e sectores) che conta circa 300 mila abitanti.

Il «23 di Gennaio» gode di una gran brutta reputazione. Anche per questo la gente che vi abita si è organizzata. Sono nati vari organismi di autogestione: le cornoperative di consumo e di trasporto, i periodici comunitari, i comitati di autodifesa, i gruppi sportivi e culturali, le comunità dei condomini (juntas de condominio), le associazioni dei vicini (asociaciones o asambleas de vecinos).

UN PRESENTE
DI DISOCCUPAZIONE

Con Ricardo, Cesar e Ramón saliamo ai piani alti di un condominio. La gente ci accoglie con una cortesia che non ha nulla di formale. Ci mettiamo a parlare su un balcone, dal quale si vede bene quanto il «23 di Gennaio» si estenda su questo cerro (collina) della capitale.

Chiediamo come funzionino le associazioni di vicini. «Sono organizzazioni – risponde Ramón – nate per risolvere i problemi di una comunità: l’acqua che non arriva, la strada da sistemare, il lavoro che non c’è. Il problema della disoccupazione è gravissimo. Il governo ha fatto qualche sforzo, ma il capitale privato non vuole contribuire a creare un nuovo Venezuela. Questa mancanza di lavoro colpisce soprattutto i giovani che, per questo, diventano facile preda di chi promette loro rapidi guadagni».

Ramón si riferisce alla piaga del narcotraffico che, pur se meno rispetto ad un recente passato, continua a fare vittime.

«Le organizzazioni di vicini cercano di fare in modo che la vita e la sicurezza delle persone estranee alle attività illegali siano garantite. Anche per questo favoriscono le attività di svago, culturali e sportive. Oggi, per esempio, c’è una festa…».
Con la mano ci indica il luogo, dove si sta svolgendo una festa con musica e partite di pallavolo e baseball. Lasciamo il condominio e ci incamminiamo verso la festa.

UN PASSATO
DI VIOLENZA E DROGA

Al centro sportivo incontriamo Alexis Pinto Valera, uno dei responsabili del Frente de resistencia popular Tupamaro.

«Ma – ci interrompe – sono anche membro dell’Asociación Civil Amigos de los Niños de Monte Piedad, un’organizzazione che come recita il nome si occupa di bambini. Noi pensiamo che ci siano delle attività che portano a migliorare lo spazio dove si abita. Ad esempio, il lavoro culturale, sportivo ed educativo con i membri più piccoli della nostra comunità».
Chiediamo perché il «23 di Gennaio» sia noto soprattutto per i problemi di droga.

«È vero – ammette Alexis -: negli anni ’90 abbiamo avuto una forte presenza del narcotraffico all’interno della nostra zona. Ma è qualcosa che ci hanno portato da fuori, per distrarre un po’ i gruppi sociali che si stavano consolidando. Guarda caso, il consumo e la vendita di droga iniziarono sotto il governo di Carlos André Perez.

Prima arrivò la marijuana, poi cocaina ed eroina; in questo momento c’è il crack, basuko o la piedra, droghe che uccidono soprattutto tra i giovani».
Molte persone del «23 di Gennaio» sono cadute in questo giro perverso. Tra queste anche Martin, fratello del nostro interlocutore, ucciso dai narcotrafficanti.
«Nel periodo peggiore – racconta – nel bloque dove abito su 150 appartamenti almeno 40 avevano un consumatore di droga. Questa situazione creava un ambiente di grande insicurezza ed aggressività con furti, sequestri, rapine all’interno della nostra comunità.
In molti luoghi c’era anche il cobro de peaje, cioè un gruppo di giovani bloccavano l’accesso e tu dovevi pagare per passare di lì.

Spesso la violenza non era soltanto per la strada, ma anche in casa. C’erano famiglie con gravi problemi, perché avevano 2 o 3 consumatori di droga; altre che avevano avuto i figli uccisi da armi da fuoco in scontri tra bande».

Com’è oggi la situazione?, chiediamo. «Ora siamo riusciti a minimizzare il fenomeno. Siamo riusciti a sanare molte zone, a volte scontrandoci noi stessi con i venditori di droga».

Che tipo di scontri? «A volte scontri armati… Questi trafficanti, avendo molto denaro, hanno la possibilità di pagarsi guardaspalle, sistemi di comunicazione sofisticati. Ma con il coinvolgimento della comunità siamo riusciti a respingerli e adesso possiamo dire che li controlliamo».

MAYLIN,
UNA STORIA ESEMPLARE

Lasciamo la festa, per dirigerci a piedi verso una zona residenziale diversa. I condomini lasciano il posto ad abitazioni con due o tre piani. Le strade si restringono fino a farsi vicoli. Seduti attorno ad un tavolino, alcuni uomini giocano a domino.

I nostri accompagnatori salutano tutti quelli che incrociamo. Ed ogni volta fanno le presentazioni. «Salite, salite a bere una birra» ci dicono alcuni giovani da un balcone. Una scala estea ci porta al primo piano. L’interno è essenziale: al posto delle porte ci sono tende, i mobili sono ridotti al minimo, ma i locali sono puliti e dignitosi.

Maylin è una bella ragazza di 25 anni, caagione caffelatte, capelli neri raccolti a coda di cavallo. E una grinta invidiabile.
«La nuova situazione politica – ci spiega sorridente – ha permesso alle donne di prendere coscienza e partecipare di più alle decisioni della comunità. Oggi abbiamo realmente maggiori opportunità. Io ho una figlia e questo mi spinge ancora di più a partecipare.
Le donne oggi svolgono un ruolo molto importante: sono uscite dal guscio nel quale erano relegate, costrette a pulire la casa e avere cura dell’uomo. Ora ci siamo rese conto che possiamo partecipare, a fianco degli uomini, a qualsiasi lotta. Credo che ci siano molte donne che la pensano come me».

Maylin parla con un entusiasmo contagioso. Sembra scortese farle domande critiche. Per esempio, su questi organismi di autogestione che affronterebbero di petto qualsiasi problema.

«Sì, è vero. Ci organizziamo di fronte a qualsiasi problema. Se c’è qualcuno che vende droga, che causa comunque un turbamento nella comunità, noi ci riuniamo e convochiamo la persona che sta commettendo lo sbaglio e cerchiamo di farla recedere dall’errore. Se non collabora, allora ricorriamo all’azione legale. Siamo molto forti come cittadini, come famiglie che si impegnano nella comunità; se non ci piace qualcosa che sta succedendo, interveniamo, anche per il bene dei nostri figli. Non abbiamo ancora dovuto ricorrere alle vie legali: la soluzione l’abbiamo sempre trovata come comunità».
Comunità, una parola ripetuta continuamente in questo quartiere e dai chavisti in generale.

«Che cosa vogliamo? Qualcosa di pulito: una repubblica che permetta la partecipazione di tutti i venezuelani, senza discriminazioni. E, comunque, vogliamo garantire un futuro ai nostri figli, pulendo tutto quello che per anni i politici avevano sporcato».

«FINALMENTE,
ORA TOCCA A NOI»

I cambiamenti non sono mai facili, soprattutto quando sono bruschi e non graduali. Com’è successo in Venezuela, con la «rivoluzione bolivariana» di Hugo Chávez. Che ha portato il paese sull’orlo della guerra civile.

«Perché stupirsi? – si chiede Maylin -. Non per tutti è facile accettare che ci troviamo in un processo di transizione, nel quale ci sono molti cambiamenti che talvolta non piacciono ad una classe sociale e sono, invece, bene accolti da un’altra. Però il paese aveva bisogno di cambiare».

L’opposizione dice che il presidente Hugo Chávez è un dittatore e che i suoi seguaci vogliono eliminare i nemici…
«La mia percezione è che quelli dell’opposizione hanno paura di confrontarsi con una massa tanto grande di persone. Noi siamo poveri economicamente, ma di cuore e di mente siamo molto ricchi e questo fa paura, anche alla Coordinatrice Democratica che sta sobillando odio per giustificare le proprie azioni.

La verità è che noi abbiamo dovuto sopportare sacrifici per molti anni; durante i governi passati abbiamo dovuto rinunciare finanche al nostro pane quotidiano. Oggi rivendichiamo partecipazione ed uguaglianza. Io dico all’opposizione: voi avete sempre avuto tutto, permetteteci di avere anche noi qualcosa.
Noi non cerchiamo di dividere il paese. Al contrario, vogliamo più unione. Tutti debbono essere partecipi dei sacrifici e tutti dovranno essere beneficiari dei risultati».

Come molte altre persone con cui abbiamo discusso, anche Maylin parla con una competenza giuridica inusuale.

Spiega: «È merito di questo governo che ci ha permesso di conoscere quali sono i nostri diritti e i nostri doveri. Molte volte dicevamo: ho diritto a… ma quali erano i nostri doveri come cittadino per poi avere dei diritti? Non lo sapevamo. L’abbiamo imparato ora, grazie alla costituzione bolivariana».

IL SOGNO DI UNA VITA

Ne ha parlato l’economista peruviano Heando de Soto, ci sta lavorando il Brasile di Lula; nel Venezuela di Hugo Chávez è già una realtà.

Si chiama «Ley especial de regularización de la tenencia de la tierra en los asentamientos urbanos populares»: è l’attribuzione legale della terra occupata abusivamente nelle sterminate periferie urbane. Anche molte case del «23 di Gennaio» rientrano nella casistica. Gli inquilini dell’abitazione in cui siamo ospiti (Maylin e la sua famiglia più altre due) hanno ottenuto i certificati di proprietà da pochi giorni.

Curiosi, chiediamo di poter vedere le carte dell’assegnazione. Maylin va a prenderle. Quando torna, ha la figlioletta in braccio e alcuni fogli in mano.
«Ecco, questo è il documento dell’assegnazione». La sua felicità non ha segreti: si manifesta in un sorriso totale e coinvolgente.

«Questo è un passo veramente importante per il nostro futuro. Mia nonna ci raccontava che, quando tirò su la casa, qui non c’era nulla. All’inizio la sua abitazione fu una baracca con 4 pareti e un tetto di lastre di zinco. Queste case non vengono mai edificate secondo un progetto prestabilito, ma si ingrandiscono a poco a poco.

Era una situazione molto precaria, dato che chiunque poteva reclamare quella terra, magari per farci passare una strada. Oggi, invece, abbiamo il nostro certificato di proprietà. Abbiamo fatto molti sacrifici per comperare mattone su mattone, adesso però possiamo dire: questo è mio, questo mi appartiene. Lo stato non sta regalando la terra; la vende, anche se la cifra che paghiamo è irrisoria, quasi simbolica».

Le procedure di assegnazione della terra richiedono una organizzazione comunitaria. Al «23 de Enero» (come in altri quartieri popolari) sono stati organizzati i «Comitati per la terra urbana». Ogni richiedente deve attestare da quanti anni vive sulla terra di cui chiede la proprietà.

Interviene anche Pedro Armando: «Mia madre e mia zia sono morte entrambe quando non avevano neppure 50 anni. Erano due grandi lavoratrici, ma non ebbero mai la possibilità di risparmiare qualcosa per noi. Oggi sarebbero molto felici di vedere che noi siamo diventati padroni della terra su cui avevano edificato la loro casa.
Non importa il valore in denaro di questa casa; per me ha un enorme valore sentimentale, perché io sono cresciuto come individuo dentro di essa. Sfortunatamente ci sono persone che non sono d’accordo con questo; chiaro che ognuno ha il proprio punto di vista, ma questo governo ci ha permesso di soddisfare il sogno di una vita».

«LA NOSTRA ARMA
È LA COSTITUZIONE»

Il Venezuela ha perso gran parte della propria classe media,
mentre grossi gruppi industriali agiscono come partiti politici.
La rinascita del paese passa
attraverso la nuova Costituzione bolivariana.

Caracas, «El Manicomio». Nonostante la scarsa illuminazione, sul muro di cinta la targa si legge ancora: «Scuola bolivariana Giovanni Battista Alberti».
La Giovanni Battista Alberti è una di quelle scuole che vennero chiuse lo scorso dicembre dal sindaco metropolitano Alfredo Peña, noto avversario del presidente Chávez. Ma la comunità del quartiere riuscì a riaprirla. «Ci siamo appellati all’articolo 102 della Costituzione, che dichiara l’educazione un diritto umano fondamentale e quindi intangibile come il diritto alla vita».

A parlare è Carlos Parra, già professore di matematica all’Università Simón Bolívar, oggi responsabile dell’Editorial Galac, una piccola ma quotatissima casa editrice. «Però – precisa subito -, tutto il tempo che mi resta lo dedico a promuovere il processo rivoluzionario, a farlo conoscere alla gente. Per esempio, nell’assemblea di questa sera dobbiamo informare la comunità di una serie di iniziative a livello urbano».

«POLAR» E «CISNEROS»:
DALLA BIRRA ALLA POLITICA

La riunione avviene nell’aula magna della scuola. Ci sono molte donne e qualche bambino che scorrazza attorno al palco. La serata è riempita con tanti discorsi dai toni pacati.

All’uscita assumiamo l’antipatico ruolo dei guastatori e facciamo notare ai nostri accompagnatori che forse non bastano delle riunioni con la gente per risolvere una situazione economica fattasi molto preoccupante.
«Il fatto è – ci spiega Carlos con una pazienza da insegnante – che, negli ultimi 25 anni, questo paese è stato distrutto. Ma, se noi riuscissimo a coinvolgere i milioni di venezuelani che hanno a cuore lo sviluppo, l’educazione, la qualità della vita, tutto il paese ne guadagnerebbe».

Le statistiche dicono che in Venezuela la classe alta si mantiene attorno al 5% della popolazione, mentre la percentuale della classe media è in continua regressione: tra il 1983 e il 1998 è passata dal 27% al 17%. Questo ha significato il contemporaneo aumento della massa dei poveri.

«Uno dei nostri obiettivi di politica economica – spiega Parra – è proprio l’accrescimento della classe media. Come ha detto il presidente Chávez: un paese con una importante classe media agevolerebbe la trasformazione di un modello economico che oggi è basato su una monoproduzione (di petrolio) ed è dominato da alcuni grandi gruppi monopolistici».
In Venezuela i gruppi industriali più potenti sono due: Polar e Cisneros. Il primo produce l’omonima birra (la più venduta del paese), nonché tutta una serie di prodotti alimentari, dal burro alla pasta. Il secondo produce un’altra birra, ma soprattutto è a capo di un impero televisivo (Venevision).

Questi gruppi hanno capeggiato gli scioperi degli scorsi mesi e poi il lungo (e costosissimo) stop a Pedevesa, l’industria petrolifera di stato. E non è tutto. Secondo il settimanale statunitense Newsweek, il magnate Gustavo Cisneros, amico dell’ex presidente George Bush, fu a capo del fallito golpe dell’11 aprile 2002.

LE «ARMI»
DEI CIRCOLI BOLIVARIANI

La scuola Giovanni Battista Alberti è stata riaperta grazie al locale Circolo bolivariano.
I circoli sono diffusi in tutti i quartieri popolari. La spiegazione che ne viene data è soprattutto di ordine pratico.

«I circoli bolivariani – ci spiega Rafael – sono associazioni di persone che volontariamente si incaricano di lavorare per la comunità, cercando di risolvee i problemi: dalla rete fognaria agli altri servizi urbani». Ma c’è anche una loro definizione più politica.
«Sono cellule molto importanti del processo rivoluzionario, che hanno la loro base ideologica nella costituzione, dato che questa promuove la democrazia partecipativa».

A proposito dei circoli, giornali e televisioni hanno scritto e detto di tutto: che sono organizzazioni sovversive, che nascondono armi, che i loro membri vanno alle manifestazioni dell’opposizione per creare disordini.

«Noi – ci spiega Rafael – siamo proprio il contrario di quello che dicono. Non solo non abbiamo armi, ma la maggioranza di noi non le sa neppure utilizzare. Per capire l’assurdità delle accuse è sufficiente visitare qualche circolo: chiunque si rende immediatamente conto che gli iscritti sono gente normalissima».
«La verità è molto semplice: la nostra sola arma è la Costituzione, l’arma più efficace che sia mai esistita in questo paese».

«È di questa che l’opposizione ha paura», chiosa Carlos, mentre saliamo sul suo vecchissimo fuoristrada.

«LA RIVOLUZIONE
NON PUO’ DIMENTICARE L’EDUCAZIONE»

Troppi giovani, riuniti in bande contrapposte, si perdono
in un’esistenza segnata dalla violenza.
Un gruppo di docenti reclama una scuola (pubblica) di qualità
come uscita da una vita senza futuro.

Caracas, «La Dolorita». Partiamo da Petare con un vecchio autobus stipato all’inverosimile. Il mezzo procede lentamente lungo la ripida strada. Quando raggiungiamo la destinazione, alla fermata delle corriere, nei pressi della piazza, sono ad attenderci alcune persone: Héctor, Omar, Julio, Cristian, Luis e Carmen, tutti membri del locale circolo bolivariano «Patria Buena».

A prima vista, La Dolorita si merita il proprio nome. Il quartiere appare dimesso, molto diverso da quelli visitati in precedenza. La maggioranza delle case sono incomplete; le strette vie che si inerpicano per la collina sono costellate da troppe immondizie.

La casa dove siamo ospiti sta in posizione panoramica. Dalla terrazza si vede La Dolorita con al centro due grandi edifici. «Sono – ci viene spiegato – la scuola elementare Jermán Ubaldo Lira e il liceo Mariscal». Ovvero l’oggetto della discussione di oggi.
Julio, Héctor, Carmen sono docenti, tutti preoccupati ed arrabbiati per la situazione in cui versa l’educazione scolastica in questo quartiere dimenticato. «Ma – precisano – La Dolorita non è altro che un esempio di quello che sta succedendo a livello nazionale».

BASTA CON
LA SCUOLA«MERCENARIA»

Seduti attorno al tavolino del soggiorno, Julio ci mostra la dettagliata denuncia presentata al ministero. «Una rivoluzione dovrebbe sempre avere nell’educazione uno dei pilastri portanti».

Precisa Carmen: «La nostra preoccupazione deriva dal fatto che la qualità dell’insegnamento è pessima e i nostri bambini partono già svantaggiati. La mancanza di qualità produce un altro grave problema, quello della bassa autostima: “Non riesco, non sono capace”. Occorrerebbe lavorare molto per infondere nei bimbi la consapevolezza che anch’essi possono raggiungere degli obiettivi».

Come quasi sempre accade, una cattiva scuola pubblica significa più spazio per la scuola privata.
«Alla Dolorita – precisa Carmen – esistono 12 scuole private dove la maggior parte dei docenti non sono neppure insegnanti. I bambini sono stipati in 50 in un’aula di 4 metri per 4 metri. Eppure si pagano 60 mila bolivares al mese».

Chiediamo ai nostri interlocutori che ci spieghino cos’è una scuola «bolivariana» e come mai non sia ancora decollata.
«La scuola bolivariana è un tipo di scuola che educa in modo integrale, che promuove la formazione del pensiero nell’ambito della nuova repubblica. È un cambiamento che investe tutto il processo educativo e riguarda anche vari aspetti pratici, come l’ampliamento dell’orario scolastico e la mensa (indispensabile in un paese dove la malnutrizione è molto diffusa).
Lo stato ha investito molto per creare le scuole bolivariane, ma non ha formato gli insegnanti che sono gli stessi di sempre».

Sull’esposto che ci è stato dato si parla delle due grandi scuole statali de La Dolorita, quelle che si vedono dalla casa.

«Il liceo Mariscal – spiega Julio – ha più di 1.500 iscritti, ma non funziona. C’è traffico di droga, di armi; c’è prostituzione. Ogni anno la percentuale di gravidanze tra le ragazzine è altissima, altissima la percentuale di abbandono scolastico per la cattiva conduzione. Quando poi questi giovani escono dalla scuola e provano ad entrare all’università, falliscono perché non sono preparati. Quelli che ce la fanno è perché sono entrati in qualche istituto specifico per colmare le lacune. Ma pochi si possono permettere di prepararsi privatamente, è ovvio.

Risultato? Nelle Università entra un ragazzo nostro ogni 20, tutti provenienti dalla classe media e alta».
Julio, Héctor e Carmen non sono, come si direbbe in Italia, insegnanti di ruolo. «È vero, non lavoriamo per lo stato. Nessuno di noi tre è laureato, ma abbiamo almeno 10 anni di esperienza nel campo dell’educazione elementare e media. E continuiamo a studiare per laurearci.

In ogni caso, siamo convinti che l’educazione debba rispondere agli interessi della comunità, mentre finora è avvenuto esattamente il contrario: l’educazione ha risposto a non si sa quale interesse o forse all’interesse di chi vuole che restiamo somari o al massimo buoni operai manovrabili. Per ora la scuola ha funzionato come ente mercenario della classe dominante. Dopo la vittoria della rivoluzione bolivariana, noi ci battiamo per una scuola che sia pubblica e di qualità».

IL VALORE DELLA VITA

Ci spiegano che ogni zona de La Dolorita ha la sua banda: ci sono 33 zone e quindi 33 bande. Una banda può essere costituita di 5, 10, 15 ragazzi che controllano la «loro» zona e la gente che vi abita.
Le lotte tra queste bande giovanili sono molto frequenti. Per il potere sul territorio o per il controllo del traffico di droga. A La Dolorita ogni settimana ci sono 5-6 morti a causa della delinquenza comune. Le armi di cui essa dispone sono superiori a quelle della (corrottissima) polizia.

«Ogni gruppo per potersi riunire nella propria strada deve essere armato, perché in qualsiasi momento può passare un gruppo antagonista. Nelle sparatorie che ne seguono vengono spesso colpite persone innocenti, come un bambino affacciato alla finestra della propria casa o una persona che si trova a passare».

Sapete di qualche morto questo fine settimana?, chiediamo. «Sì, uno di fronte alla chiesa, questa notte. Stava lì, quando è arrivato un tale che gli ha sparato. La settimana scorsa uno si è preso un colpo al petto e tre in faccia, ma non è morto. È stato un ragazzo di 13 anni che ha sparato ad uno di 19».

Obiettiamo: dunque, la rivoluzione bolivariana ha fallito nel campo della sicurezza…
«Ma la delinquenza comune è una conseguenza delle male politiche del passato. Quando poi, lo scorso aprile, ci fu il tentativo di golpe, molti delinquenti furono assoldati dall’opposizione per creare caos».
Purtroppo, di anno in anno l’insicurezza sembra peggiorare e questo è un dato di fatto che ci viene confermato.

«Io ricordo che vent’anni fa, quando ammazzavano una persona, poi per 3-4 mesi non succedeva più nulla. C’era un diverso impatto della morte sulla coscienza individuale. Oggi questi gruppi, se gli si uccide un compagno il venerdì, al sabato sono già riuniti all’angolo della via come se non fosse successo nulla. Non c’è più la paura della morte: il valore dell’esistenza si è perso».

Tutti sembrano condividere l’analisi. «Sta passando una cultura che non valorizza la vita, la quale vita vale pochissimo per una quantità di gente. C’è un problema di stima sociale molto serio. Te ne rendi conto anche quando cammini per strada, in mezzo all’immondizia».
«Noi pensiamo che questo modo di vivere si possa cambiare solo con l’educazione. Ovvero si esce da questa situazione nella misura in cui la gente viene educata, si appropria e si fa carico dei problemi. Per questo stiamo cercando di creare una presa di coscienza da parte delle persone, un coinvolgimento che stimoli il desiderio di migliorare quello che ci sta intorno».
Crisi sociale, crisi economica, crisi educativa: come pensate di uscie? Su questo punto i nostri ospiti rispondono compatti: «Noi investiamo molto sulla rivoluzione per dare soluzione a tutti questi problemi. Abbiamo grandi aspettative al riguardo».

«LA RIVOLUZIONE?
UNA TORCIA NEL BUIO»

Violenti, comunisti, castro-comunisti, addirittura terroristi: gli epiteti affibbiati ai seguaci di Chávez si sprecano.

«La nostra rivoluzione è senza armi; andiamo avanti utilizzando il pensiero di Bolivar e la costituzione bolivariana. Vinceremo anche se non possiamo contare sui mezzi di comunicazione di cui dispone l’opposizione. È come se Chávez avesse acceso una torcia sul buio del Venezuela. Io mi sento realmente rivoluzionario e voglio fare in modo che la rivoluzione prosperi. Siamo persone del popolo che vogliono vivere meglio e progredire assieme alla propria famiglia e al paese».

«Mi danno del comunista? Non sono mai stato un militante comunista, come credo non lo siano i miei compagni di lotta. Le nostre idee sono quelle di Simon Bolivar e di Gesù Cristo. Ma se Gesù Cristo è stato comunista, allora io accetto anche questo termine».
Interviene Carmen. «Come donna – dice – io penso che, nei limiti del possibile, dobbiamo cercare di fare una rivoluzione pacifica. Ho molta fiducia nel mio presidente ed approvo come ha agito fino a questo momento. Mio padre partecipò alla guerra civile in Spagna e quello che mi ha raccontato è orribile: non vorrei che succedesse lo stesso nel mio paese».
«Noi abbiamo molti valori e sono con questi valori che vogliamo affermare la nostra rivoluzione. Non vogliamo una guerra, ma se ci obbligano ad usare altri mezzi lo faremo. In questo processo ci stiamo giocando la vita e il futuro dei nostri figli.

(quarta ed ultima puntata; le precedenti sono state pubblicate in maggio, giugno e luglio-agosto)

Paolo Moiola