TURCHIASotto i baffi di Cevat

In Turchia, fondata come stato laico da Ataturk,
avanza l’integralismo islamico, specie nella regione sud-orientale,
dove resistono sparute comunità cristiane,
eredi di un glorioso passato missionario.
Il nazionalismo turco ha ridotto l’Armenia,
primo stato cristiano della storia, a un cumulo di macerie.

Per accompagnarci nel sud-est della Turchia, Cevat, la nostra guida, si è fatto crescere i baffi. Dice che un uomo senza baffi non è preso in considerazione da quelle parti, fino a cinque anni fa teatro di feroci scontri tra l’esercito turco e il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan). Da quando il loro leader Ocalan è stato imprigionato, ci si può muovere con una certa libertà nel territorio, abitato prevalentemente da curdi; ma un pizzico di prudenza non guasta.
Nella prima escursione si unisce a noi Jussuf, guida curda con una coppia di giapponesi: profilo affilato, eleganza innata, anche lui mostra due grossi baffi neri come il carbone.

TRA IL TIGRI E L’EUFRATE

Partiamo da Gaziantep, città in pieno boom economico, prossima al confine siriano. Il faraonico e contestato progetto Gap (Guneydogu Anadolu Projesi), che prevede la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche per lo sfruttamento delle acque del Tigri e dell’Eufrate, sta cambiando l’aspetto e l’economia della regione, un tempo arida e povera terra di emigrazione.
Una gigantesca diga frena il corso dell’Eufrate, creando un enorme bacino che presto sarà collegato alle acque del Tigri da un condotto, il più grande al mondo. Intanto i territori della Mesopotamia siriana e irachena hanno già perso il 30% della loro preziosissima acqua.
Questa terra «tra i due fiumi» è terra biblica: ad Harran sarebbe nato Abramo; qui il patriarca avrebbe ricevuto le promesse divine e l’invito a partire per una terra sconosciuta; presso la parentela rimasta ad Harran, Abramo avrebbe mandato a cercare la sposa per il figlio Isacco; scelta caduta su Rebecca.
Nel suo viaggio verso la terra di Canaan, Abramo si sarebbe fermato a Edessa (oggi Urfa o Sanliurfa), dove è venerato anche dai musulmani. La fama della città, però, è legata alla storia del cristianesimo. Eusebio di Cesarea attesta che già al tempo degli apostoli l’intera città e la regione circostante erano state convertite al cristianesimo.
Ben presto Edessa diventò un importante centro culturale, letterario e di diffusione della fede cristiana: da qui i missionari si spinsero al di là dei confini dell’impero romano, verso la Persia e il resto della Mesopotamia.
Nei secoli seguenti, la vivacità della chiesa di Edessa fu funestata prima da persecuzioni, poi da dispute religiose: il rifiuto della dottrina sancita dal Concilio di Calcedonia (451) sulla doppia natura, umana e divina, di Cristo, costò la scomunica al vescovo di Edessa, Giacobbe Baradeus, che fondò la chiesa giacobita o siro-ortodossa.
Altra città storica è Diyarbakir, l’antica Amida, sulle rive del Tigri, cantata nella Genesi come l’Eden per la sua gloriosa vegetazione. Città di frontiera, fu dominata di volta in volta dagli imperi che si affermarono in Mesopotamia: urriti, ittiti, assiri, medi, persiani, seleucidi, romani, sassanidi, bizantini, arabi, mongoli, turcomanni, ottomani.
Di queste antiche civiltà rimane quasi nulla, se si eccettuano la colossale cinta muraria in pietre nere di basalto, di origine romana, e le moschee costruite sotto le varie dinastie islamiche. Ben poco rimane delle numerose chiese della comunità cristiana, che la tradizione fa risalire alla predicazione dell’apostolo Giuda Taddeo.
La chiesa della Vergine Maria è sede dei giacobiti, di cui rimangono solo 15 famiglie. Attraverso un dedalo di viuzze del centro, raggiungiamo la chiesa dei caldei. Ci accoglie il signor Zaki Kasar: parla francese, avendo studiato a Istanbul e lavorato per 30 anni per la Nato. Una volta al mese un prete del monastero di Zafaran viene a celebrare la messa per le 30 famiglie che ancora resistono alle discriminazioni di cui sono vittime.
Sono cristiani in comunione con Roma: proprio a Diyarbakir, in seguito a uno scisma tra i nestoriani, nel 1552, fu eletto patriarca di Babilonia Giovanni Sulaqa, il quale, confermato nella sua carica dal papa Paolo iii diede origine alla chiesa caldea, rimasta in comunione con la chiesa cattolica romana.
Altre memorie cristiane, come la chiesa di Santa Maria e la basilica di San Tommaso sono sepolte sotto le mura e i minareti delle moschee; eppure rimane qualche segno, come colonne, capitelli e pavimentazione che ricordano gli antichi splendori cristiani.
Oggi la città nella «terra tra i due fiumi» è interamente e severamente musulmana: donne velate, uomini vestiti all’antica, folte barbe che fanno rizzare i baffi a Cevat: «Urfa e Diyarbakir non mi piacciono – confessa -. Vi vedo il regresso del mio paese sotto l’avanzata dell’islam più integralista».

FONDAMENTALISMO

Mentre mi emoziono nel percorrere le strade in terra biblica, Cevat appare nervoso e addita le numerose moschee in costruzione, le donne avvolte da ingombranti mantelli e il viso coperto dal velo nero, segni evidenti del prevalere della cultura araba e l’avanzare del fondamentalismo islamico.
Nato e cresciuto a Istanbul, educato nel prestigioso liceo Galatasaray, Cevat si sente legato all’occidente e, come la maggior parte dei turchi dell’ovest, spera di poter presto entrare nella Comunità europea; per le sue due figlie piccole, sogna una Turchia libera e democratica; ma si rende conto che il paese sta attraversando una situazione delicata.
«Stiamo tornando indietro» spiega Cevat, mentre mi racconta che anche a Istanbul avanza il fondamentalismo: la suocera, che vive con la sua famiglia, è stata contattata da un gruppo integralista e ora segue le direttive imposte alle donne, nell’abbigliamento e nelle preghiere.
«Ataturk aveva severamente proibito il velo: come è potuto succedere? – si domanda preoccupato -. Da tre anni sono state introdotte lezioni di religione nelle scuole di stato; per la prima volta dalla fondazione dello stato laico, si studia il Corano tradotto in turco: prima, chi lo voleva, mandava i figli alla scuola coranica, dove imparavano i versetti a memoria in arabo».
Il fondamentalismo attecchisce e avanza nelle città, gonfiate dall’immigrazione intea, soprattutto nei quartieri dove c’è povertà, disoccupazione, necessità di case. «Il contadino conduce una vita dura, prega, ma non sarà mai integralista – spiega Cevat e avverte -: in questa regione arrivano miliardi di dollari dai paesi arabi, che vengono spesi per diffondere un islam intollerante e severo. Trovare casa o lavoro diventa semplice: basta rivolgersi all’imam. Se una studentessa vuole una borsa di studio, basta che acconsenta di mettersi il velo».

LA LINGUA DI GESU’

Ricca di monumenti musulmani, originali per colori e architettura, Mardin è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio culturale dell’umanità. Fino a pochi anni fa era interdetta agli stranieri, a causa delle tensioni e i sanguinosi scontri tra il governo di Ankara e il Pkk.
Punto di passaggio tra l’alta valle del Tigri e la fertile pianura dell’Eufrate, Marida, così si chiamava anticamente, fu un altro faro d’irradiazione cristiana: nei dintorni sono sparse le vestigia di antiche parrocchie e monasteri, ancora oggi abitati da monaci e varie comunità cristiane.
Scendiamo verso la zona cristiana e bussiamo inutilmente alle porte di due chiese. Finalmente una che si apre: è quella dedicata a San Behram. Padre Gabriele, occhiali e zucchetto nero, ci accoglie cortesemente nella sua chiesa del iv secolo. Ci parla dei suoi fedeli, una comunità di aramei, eredi dell’antica chiesa di Antiochia, che parlano ancora l’aramaico, la lingua che parlava Gesù.
L’interno della piccola chiesa è molto suggestivo. Un quadro, appeso all’ingresso, ricorda il martirio di 40 cristiani in Cappadocia, affogati in un lago gelato, nel iii secolo, per ordine di un comandante romano.
«Vi sentite discriminati, in un mondo tutto islamico?» chiedo a padre Gabriele. «Noi cristiani dobbiamo emanare la luce della nostra fede. Come dice il vangelo, dobbiamo porgere l’altra guancia».
La risposta è diplomatica, ma il senso è chiaro: la vita non è facile per questo drappello di cristiani orientali, ultimi eredi di antiche tradizioni. La piccola comunità di San Behram si compone di 350 persone, il prete è eletto dai parrocchiani e vive con loro, ne è responsabile. Il patriarca abita nel monastero di Zafaran, a pochi chilometri dalla città.
Nella regione tra Mardin e Midyat sono rimasti circa in 5 mila, a causa della forte emigrazione, provocata da discriminazioni, ai limiti della persecuzione. Il resto degli aramei, circa 22 mila, in maggioranza vivono a Istanbul, altri sono emigrati in Europa, specie in Germania, dove mantengono le loro tradizioni: lunghe cerimonie religiose, sempre in aramaico.
Il monastero di Zafaran è una specie di fortezza, isolata sotto la cima rocciosa di un monte punteggiato da eremi in rovina. Anche qui si parla e prega nella lingua di Gesù.

GENOCIDIO SCONOSCIUTO

A Van, nella regione montagnosa della Turchia nord-orientale, entriamo nel cuore di quella che una volta costituiva la Grande Armenia: regno antichissimo, indipendente fin dal 93 a.C., abbracciò il cristianesimo e ne fece la religione nazionale, diventando il primo stato cristiano (301).
Sotto la dominazione di selgiuchidi, turcomanni, ottomani, che cercarono di imporre la legge coranica, gli armeni subirono pesanti discriminazioni, ma riuscirono a conservare l’identità culturale e religiosa.
Nella 1a guerra russo-turca (1774), essi accolsero lo zar come liberatore: la parte orientale dell’Armenia fu annessa alla Russia; in quella rimasta sotto il dominio turco vennero eliminati 200 mila armeni.
Alla fine del secolo xix e l’inizio del xx, i nazionalismi turco e armeno raggiunsero il parossismo. Nella speranza di risuscitare la Grande Armenia, durante la 1a guerra mondiale, gli armeni si allearono con i russi contro turchi e curdi. L’illusione affogò in un autentico genocidio: negli anni 1915-18 furono eliminati oltre 1,5 milioni di cristiani armeni; 100 mila bambini furono affidati a famiglie curde, perché cancellassero la loro identità.
I segni di quella tragica illusione sono ancora impressi nelle macerie della vecchia Van: occupata dai russi (1915-17), fu completamente distrutta nel corso della loro ritirata. Ma nei dintorni rimangono anche alcune vestigia dell’antico regno cristiano, come la chiesa di Akdamar, nell’omonima isola nel lago Van. La purezza dell’architettura e il caldo colore della pietra di questa chiesa, sono un incanto. Sulle pareti estee un antico artista ha scolpito storie bibliche e splendidi rilievi, muti testimoni della civiltà e fede di un popolo perseguitato e ignorato.
Il nazionalismo turco è palpabile. «Once vatan» (prima patria), «Che bello essere turchi» e altre scritte del genere capeggiano sulle brulle pendici dei monti delle lande desolate al confine con l’Iran. A scriverle sono i soldati di leva che, oltre a imparare a conoscere tutte le realtà della regione, devono occupare il tempo libero creando enormi scritte patriottiche con pietre e altro materiale, che siano ben visibili dalla strada.
In due giorni di viaggio non ho mai visto tanti militari. Mentre ci avviciniamo a Dogubayazit si moltiplicano i posti di blocco, con relativi controlli e perquisizioni. Siamo a 30 km dal confine iraniano e dobbiamo arrivare in albergo prima delle 19, ora di chiusura delle strade. Anche questa era terra armena, fino al genocidio del 1917.
Appena arrivati a Kars, Cevat si taglia i baffi. Ora lo vedo più disteso, in questo paese aspro di pascoli e foreste. La città mostra i segni lasciati dalla presenza russa nel xix secolo nell’urbanistica e nello stile dei palazzi: anni di incuria e intonaci scrostati non cancellano l’eleganza degli edifici ottocenteschi.
Dominata dalla mole della fortezza di pietra nera c’è una chiesa armena dalla tipica cupola su tamburo ottagonale, chiusa al culto da quando tutti gli armeni se ne sono andati, sotto l’incalzare del genocidio dimenticato.
Più sconvolgente è la visita ad Ani, la splendida capitale medioevale della Grande Armenia, al confine con l’Armenia ex sovietica. Le mura sono in via di restauro; è un buon segno; ma all’interno gli eleganti e raffinati edifici sono ruderi, sparsi in una vasta area diventata prateria. Numerose e straordinarie sono le chiese; una in particolare conserva affreschi che stanno svanendo sotto la furia delle intemperie.
Ani è una «città morta». È proibito fotografare, per non testimoniare il disfacimento di un sito sacro agli armeni di tutto il mondo.

THALATTA! THALATTA!

In viaggio verso ovest, sostiamo a Erzurum: anche qui un tempo vivevano una fiorente chiesa armena e una consistente comunità cattolica. Se ne sono andati quasi tutti; delle loro belle chiese neppure una traccia.
Ancora due alti passi montani e scendiamo verso Trabzon, sulla costa del mar Nero. Ma prima risaliamo fino a 1.200 metri di altitudine, per visitare il monastero di Sumela.
Inserito nella parete rocciosa a picco su una valle verdissima e fiorita di rododendri, il monastero appare come un sogno tra le nuvole. Per 15 secoli è stato un centro importante del monachesimo orientale (vedi riquadro).
Rifugio ideale per la preghiera e la contemplazione, è raggiungibile solo con una lunga arrampicata, su un sentirnero pietroso e una stretta scala di pietra. Gli affreschi della cappella principale sono stati sfregiati da molto tempo da ignoti e ignobili visitatori, ma la bellezza del luogo è ancora intatta.
Finalmente raggiungiamo Trabzon e possiamo gridare anche noi: «Mare! Mare!», come fecero, nel 400 a.C., Senofonte e i suoi «Diecimila» soldati di ritorno da Babilonia, dopo 3.200 km a piedi, attraverso le montagne e le popolazioni dell’Anatolia orientale.
Antica città greca, fondata da emigranti di Trapezos, in Arcadia, Trebisonda ci è familiare, essendo entrato in un nostro proverbio: perdere la trebisonda. Il suo nome, però, è presente anche nei racconti di missionari e viaggiatori del tardo medioevo: di qui passarono molti francescani e domenicani per evangelizzare le terre del Medio ed Estremo Oriente, fino alla Cina.
La città rimase per alcuni secoli l’ultimo baluardo della civiltà bizantina, finché fu conquistata dai turchi e annessa all’impero ottomano (1461). Fino a questo tempo la chiesa godette di una vitalità che le costruzioni architettoniche di quel tempo ancora attestano.
Il monumento più bello è la chiesa di Santa Sofia, eretta nel xiii secolo da Alessio iii Commeno, a ricordo della più famosa e grande basilica di Costantinopoli. Trasformata in moschea, gli affreschi e i mosaici furono coperti da intonaco, finché i restauri degli anni sessanta li hanno riportati agli antichi splendori e la basilica è stata ridotta a museo. Altre belle chiese invece, come Sant’Anna, Sant’Andrea, Sant’Eugenio, la Vergine dalla testa d’oro, continuano a funzionare come moschee.
A differenza delle città della Turchia orientale, Trabzon appare modea, vivace e cosmopolita. Alla tanta vivacità non sono estranei gli oleodotti che portano il greggio dal Caucaso e dall’Asia Centrale.
Ma il fatto più positivo è che, anche dentro le vecchie mura ottomane, le strade sono affollate di ragazze in jeans e maglietta; pochissime portano il velo islamico: segno che da queste parti l’integralismo islamico non ha ancora affondato le sue radici, con buona pace dell’anima di Ataturk e dei baffi di Cevat.

MONASTERO TRA CIELO E TERRA

Secondo la tradizione, il famoso monastero di Sumela (oggi Maryemana manastiri, monastero della Madre Maria) fu fondato dai monaci ateniesi Baaba e Sofronio, seguito a una visione della Vergine, che chiese loro di costruire un monastero nel Ponto, sul mar Nero. Lasciato il loro eremo nella penisola calcidica in Grecia, portando con sé un’icona della Madonna attribuita a san Luca, raggiunsero questo luogo e si stabilirono nelle grotte di alto roccione, a picco su un torrente ricco d’acqua delle Alpi pontiche. Nella grotta più ampia stabilirono la cappella della Madonna. Era l’anno 385.
La fama del santuario della «Vergine della montagna nera» (in greco Panaghia tou mélas, da cui Sumela) e della loro santità si sparse rapidamente ed aumentò dopo la loro morte, avvenuta nel 412 (nello stesso giorno attesta la tradizione) e attirò pellegrini, offerte e, soprattutto, altri monaci. In poco tempo Sumela divenne uno dei centri più importanti del monachesimo orientale.
La posizione, resa inaccessibile con opportuni accorgimenti, e le fortificazioni costruite resero il monastero inviolabile per secoli, un’oasi di pace in mezzo a un turbinio di guerre e di lotte. Il momento massimo di splendore fu raggiunto tra il 1200 e il 1400, grazie ai favori degli imperatori di Bisanzio, che ne promossero i lavori di ricostruzione, fortificazione e abbellimento mediante gli affreschi.
Con la conquista della regione da parte degli ottomani (1461), il sultano prese il monastero sotto la sua protezione e ne garantì la sopravvivenza pacifica, garantendo ai monaci la proprietà del monastero e dei terreni adiacenti.
I monaci continuarono la loro attività pacifica e spirituale fino agli ultimi anni della prima guerra mondiale, quando abbandonarono il monastero al momento dell’avanzata dell’esercito russo; vi ritornarono poco dopo, ma dovettero andarsene definitivamente nel 1923, alla conclusione della guerra greco-turca.
Ancora oggi, gli edifici conventuali, abbarbicati sul fianco di un ripido dirupo, appaiono dalla valle come sospesi tra cielo e terra. Ma all’interno si vedono subito i segni lasciati da decenni di abbandono, depredazioni e atti vandalici di ogni genere, che hanno ridotto il complesso a poco più di un rudere. Eppure il poco che rimane di affreschi e opere murarie danno ancora un’idea dello splendore di questo monastero.

Claudia Caramanti

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