RWANDAQual machete che nessuno fermò’

Un milione di morti sotto gli occhi
del mondo. Cosa causò quella tragedia? Conflitti etnici, retaggi della dominazione coloniale o altro? A 10 anni di distanza ancora ci si interroga. Mentre
la situazione nella regione dei «Grandi laghi» rimane altamente instabile.

Dieci anni fa il cuore dell’Africa sanguinava per la tragedia del Rwanda. Circa un milione di tutsi (ma anche molti hutu moderati) furono trucidati a colpi di machete in tre mesi, tra aprile e luglio del 1994. L’odio etnico, che da sempre ha strutturato i rapporti sociali tra i due maggiori gruppi etnici, ha raggiunto un atroce parossismo con la «soluzione finale» teorizzata e meticolosamente messa in pratica dagli estremisti dell’hutu power. In Africa e nella regione dei Grandi laghi tornavano a materializzarsi le peggiori previsioni degli «afropessimisti» che scommettevano sull’inevitabile deriva del continente. Il genocidio era un evento traumatico, un dramma storico che segnava uno spartiacque tra l’Africa di prima e quella del dopo genocidio.
La tragedia rwandese del 1994 è stata un’opera di sterminio tra le peggiori avvenute nel secondo dopoguerra. È quindi doveroso interrogarsi su come si sia arrivati ad una simile esplosione di violenza.
Il ruolo del colonialismo nella definizione delle identità etniche è ormai ampiamente accertato. Le autorità coloniali della Germania prima e del Belgio poi non hanno favorito sempre gli stessi gruppi sociali od «etnici».
In un primo tempo, le autorità coloniali avevano individuato nei tutsi i propri referenti di fiducia. Successivamente, negli anni Cinquanta, vennero invece preferiti gli hutu. Il momento di svolta nella scelta degli europei del proprio personale politico ed amministrativo di fiducia coincide con un mutamento nell’atteggiamento della chiesa cattolica. E con la scomparsa di una forte personalità e di un capace organizzatore come monsignor Classe (esponente di rilievo del movimento missionario francese del primo Novecento): «La morte di monsignor Classe, avvenuta nel gennaio del 1945, aveva concluso l’esperienza di una generazione di missionari “monarchici” cresciuti nel quadro del cattolicesimo francese del XIX secolo, rigido e conservatore». La nuova generazione di missionari, vicini al cristianesimo sociale belga, vedeva gli hutu come gli oppressi da aiutare. Così, «una contro-élite hutu si formò nelle scuole cattoliche e nei seminari» ed assunse ben presto ruoli politici, emarginando definitivamente i tutsi con la «rivoluzione sociale» del 1959. Il regime rwandese divenne sempre più autoritario ed oppressivo, mentre i tutsi emigrati all’estero per sfuggire alle persecuzioni costituivano le proprie organizzazioni politiche e militari per rientrare in Rwanda. Si arriva così all’epilogo del massacro nel 1994, ultimo capitolo dell’agire genocidario, esito di una sequela di avvenimenti storici e non più inspiegabile esplosione di violenza.
La «questione etnica» in Rwanda parte dalla comprensione del formarsi dei contrasti tra hutu e tutsi. I nodi della questione sono fondamentalmente tre: se sia più corretto affermare che si tratti di contrasti etnici o di contrasti socio-politici, e come ha agito il colonialismo sulla società rwandese nel definire le identità etniche.
Per quanto riguarda la prima questione, alcuni studiosi sostengono la tesi che la divisione hutu-tutsi sia essenzialmente sociale, riprendendo le analisi di Claudine Vidal secondo cui l’ubuhake (il contratto di vassallaggio feudale secondo il quale un proprietario di bestiame prestava alcuni capi ad una persona che così assumeva nei suoi confronti obblighi servili), «contrariamente a quanto affermato dalla visione “classica”, non si concludeva esclusivamente fra tutsi ricchi e hutu poveri ma, verosimilmente, fra due lignaggi tutsi di differente livello socio-economico». Inteso in questo senso, come afferma l’abbé Alexis Kagame, si può definire «tutsi chiunque possiede più capi di grosso bestiame anche se non di razza hamita».
Una lettura del conflitto come sociale anziché razziale è fondamentale, ma difficile da accertare con sicurezza, basandosi su fonti orali raccolte all’inizio dell’epoca coloniale. Molto più convincente invece l’analisi del secondo importante nodo della questione, ovvero l’impatto del colonialismo nella definizione delle etnie. Per analizzare tale problematica si può infatti ricorrere ai classici metodi dell’indagine storica, disponendo di numerose prove documentarie: gli archivi coloniali, i diari degli amministratori e dei missionari, ogni sorta di documenti riguardanti l’azione delle autorità coloniali. «Lo scopo principale delle milizie armate nel passato era proteggere Kigali dall’assedio del Fronte patriottico rwandese. Da quando è arrivata l’Unamir, gli è stato ordinato di censire tutti i tutsi che vivono a Kigali. Il nostro informatore sospetta che ciò venga fatto in previsione del loro sterminio».
L’11 gennaio 1994, con una nota riservata, il capo canadese dei Caschi blu inviati in Rwanda, generale Roméo Dallaire, avvertì l’Onu di quanto stava per accadere nel paese africano. Nessuno si mosse. Tre mesi dopo, il 6 aprile 1994, l’omicidio di Juvenal Habyarimana, capo di stato rwandese di etnia hutu, diede il via allo sterminio dell’etnia tutsi: stando a prove documentali, i morti furono 937 mila.
È necessario ripartire dalla storia del colonialismo e l’indipendenza del Rwanda, raccontando la salita al potere di Habyarimana e i primi scontri tra le due diverse etnie in cui si divide il paese: la maggioranza hutu e la minoranza tutsi.
Nel suo saggio Daniele Scaglione narra l’intervento delle forze di interposizione dell’Unamir e l’esplodere delle violenze. Infine, descrive i tentativi di ricostruire il paese e di consegnare gli autori dell’eccidio alla giustizia. Particolarmente drammatica risulta l’analisi del modo inadeguato con cui l’Onu preparò la missione dei 2.500 soldati dell’Unamir. Il generale Dallaire si trovò a gestire una truppa i cui uomini provenivano da 20 paesi differenti, tra cui Bangladesh, Ghana e Belgio. Per motivi di bilancio e per la sottovalutazione della situazione, i soldati furono male equipaggiati: la dotazione si limitò a veicoli leggeri di fabbricazione russa e a segnalatori luminosi privi di batterie, mentre mancò del tutto l’artiglieria. Inoltre, il generale dovette affrontare il difficile rapporto con Jacques Roger Booh, rappresentante dell’Onu in Rwanda, la cui tendenza era a minimizzare quanto stava avvenendo. Scaglione, nel suo lavoro, afferma: «Sul Rwanda l’Onu ha completamente fallito per responsabilità personale di funzionari, dirigenti e responsabili di governo. Se il Consiglio di sicurezza non è stato adeguatamente informato di ciò che accadeva è perché Boutros Ghali, Kofi Annan e i loro collaboratori hanno liberamente scelto di non farlo». L’insuccesso della missione fu vissuto da Dallaire anche come una sconfitta personale. Dalla narrazione emerge l’umanità del generale che, dopo l’ordine da New York di abbandonare il paese, scelse di restare con pochi soldati fidati. «Roméo Dallaire si è ammalato e a distanza di ormai quasi nove anni ancora non è del tutto guarito. Il suo corpo, la sua mente, non hanno saputo accettare quello che ha vissuto».

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BUTARE CHIAMA, GENOVA RISPONDE

A seguito degli avvenimenti del 1994, un notevole numero di artigiani dell’area di Butare (a circa 3 ore d’auto dalla capitale Kigali), che facevano riferimento al «Centro dei mestieri», creato nel 1990 dalla cooperazione tedesca, non risultavano più essere attivi. I motivi principali di ciò dipendevano dal loro essersi rifugiati nei paesi limitrofi, oppure di essere scomparsi (morti o imprigionati). Senza contare che il Centro, luogo fisico di attività e identità degli artigiani, era andato distrutto.
Per rilanciare l’attività degli artigiani dell’area nel settembre 1996 è sorto un progetto sostenuto dalla Gtz (Cooperazione Tecnica Tedesca) che ha permesso la costituzione, nell’agosto del 1997, della Copabu (Cooperativa dei produttori artigianali di Butare), con i seguenti obiettivi:
• promuovere la vendita dei prodotti artigianali dei suoi membri
• fare conoscere i diversi mestieri presenti sull’area
• sostenere gli artigiani affinché venga fissato il miglior prezzo possibile alle loro merci
• organizzare fiere periodiche.
La Copabu è attualmente il riferimento locale per 954 artigiani della prefettura di Butare, 324 uomini e 630 donne. Di questi 99 sono soci individuali, mentre gli altri sono associati alla Copabu attraverso 35 associazioni di villaggio. A loro volta queste associazioni sono distinguibili perché esclusivamente femminili (sono 19 quelle associate alla Copabu), o maschili (7) o ancora miste (9).

Il gemellaggio
Dopo il genocidio, la Caritas Italiana era intervenuta in Rwanda con un programma d’urgenza che ha permesso di riabilitare quasi il 50% del settore sanitario. Un’équipe di operatori fino a tutto il 1999 è stata presente nel paese per sostenere attività in favore dei bambini di strada, dei carcerati (oltre 130.000) e piccoli progetti agricoli, d’allevamento e di costruzione di case. Nel 1998, grazie alla presenza a Kigali di Maurizio Marmo, referente del «Programma Grandi Laghi» della Caritas Italiana ed esponente del mondo del commercio equo e solidale, è stato possibile avviare il contatto che si sarebbe poi concretizzato nel progetto di gemellaggio.
Una prima missione nel febbraio del 1999, grazie anche al contributo del Comune di Genova, ha reso possibile la conoscenza reciproca tra La Bottega Solidale di Genova e la Copabu di Butare e la stesura di un primo documento d’accordo finalizzato a facilitare l’accesso ad un nuovo mercato estero per i prodotti degli artigiani e delle artigiane della Prefettura. Nell’ottobre 1999: arriva il primo container di prodotti rwandesi, reso possibile dalle prenotazioni di circa 70 botteghe del mondo di tutta Italia. Per la Copabu un aumento di fatturato del 60% rispetto all’anno precedente, per i consumatori delle botteghe una nuova opportunità di acquisto di prodotti africani e di informazione attraverso il materiale informativo che accompagna gli oggetti.
Ci sembra importante richiamare, nelle motivazioni del progetto, quanto scritto dalla giornalista Colette Braeckman: «Ogni volta che hutu e tutsi lavorano fianco a fianco, facendo sorgere dalla terra un’altra casa, è anche il nuovo Rwanda che si costruisce». E ancora, tratto da uno scritto di André Sibomana, sacerdote direttore della rivista Kinyamateka, scomparso nel marzo 2004: «Dobbiamo riapprendere a vivere insieme. Alcuni diplomatici – pensando senza dubbio che non saremo mai più capaci di coabitare – hanno suggerito la creazione di un Hutuland e di un Tutsiland. Questa idea non è soltanto stupida; è assai nefasta. Al di là del fatto che questa divisione dei rwandesi sarebbe una magnifica vittoria degli apostoli del razzismo, credo che non sia dividendo o spostando i problemi che li si risolve. Al contrario».
Il progetto ha anche questa ambizione: sostenere la sfida voluta dagli artigiani di Copabu e da coloro che si impegnano a livello locale per promuovere incontri tra le vedove del genocidio e le donne i cui mariti sono incarcerati. Una sfida difficile, ma possibile.
L.Rolandi

Luca Rolandi

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