In una «enclave» serba
Emozioni e sentimenti di una volontaria
che sente sulla propria pelle la disperazione
di non riuscire a fare abbastanza.
Toare in Kossovo è stato emozionante. Rivedere persone e luoghi a cui mi ero affezionata è stato importante e bello, ma è stato molto duro accettare l’evidenza della staticità della situazione, che sembra non lasciare spazio ad una evoluzione positiva.
La morte dei due giovani serbi di Gorazdevac, l’estate scorsa (13 agosto 2003), ne è la prova più triste ed evidente.
Erano andati a fare il bagno al fiume, e qualcuno ha cominciato a sparare, uccidendo a sangue freddo un ragazzo di 19 anni, un altro di 12 e ferendone altri. Il diciannovenne Ivan (si legga, più avanti, il toccante racconto di Fabrizio) era uno dei ragazzi serbi che si dava più da fare per dialogare e creare un contatto positivo con i giovani albanesi di Peja-Pec, uno di quelli che «ci stava» a mollare un po’ di pregiudizi e di condizionamenti politici per cominciare a vivere, a guardare avanti, oltre il check-point.
Così mi sono ritrovata a vivere a Gorazdevac, minuscola enclave serba, alle porte di Pec (o Peja, come viene chiamata dagli albanesi), a condividere con questi serbi rimasti in Kossovo, un mese della mia vita. Troppo poco per sentirmi utile, abbastanza per farmi aprire gli occhi e il cuore su quanto lontano sia l’orizzonte della pace nel cuore della gente, a 5 anni dalla fine della guerra «ufficialmente dichiarata».
Le giornate, in questa parte di Kossovo, trascorrono come ovattate, in sordina, uguali le une alle altre, scandite dal canto del gallo che quasi non sembra riconoscere il giorno dalla notte.
La gente semplicemente si sveglia, beve il suo kafa, la sua rakia, taglia la legna per il fuoco; le donne rassettano la casa, lavano i panni, preparano il pane, accolgono gli ospiti che passano a salutare, cucinano, lavorano a maglia. Pochi hanno la fortuna di lavorare e di poter contare su uno stipendio sicuro (nel senso di fisso, non certo nel senso di sufficiente al proprio sostentamento). I più si dedicano a coltivare il loro fazzoletto di terra e ad allevare le poche bestie che danno loro il latte, le uova e la carne che mangiano. Molti vivono grazie all’aiuto economico di parenti lontani che riescono a mandare loro qualcosa ogni mese.
Sono pochi quelli che si sono rimboccati le maniche e hanno iniziato minuscole attività commerciali (piccole rivendite di generi alimentari) che bastano a guadagnare lo stretto necessario per sopravvivere, o poco di più. Il futuro è qualcosa di intangibile: è come se il tempo si fosse fermato. I giovani, i bambini e gli anziani condividono alla stessa maniera la loro tragica condizione di prigionia, trattando il futuro, o le proprie aspirazioni, come sogni irrealizzabili o troppo lontani (almeno quanto il confine con la Serbia) per poterli anche solo immaginare. Ogni giorno è uguale a quello precedente e a quello successivo…nulla scalfisce il senso di staticità di cui sono intrise le giornate di Gorazdevac.
Le feste del calendario ortodosso e i compleanni sono le uniche occasioni utili ad organizzare qualcosa di nuovo, a creare momenti di aggregazione dal sapore fresco (ma comunque sempre conditi da fiumi di alcornol). Tutto il resto è oblio.
I discorsi girano intorno ai ricordi del passato, alla politica e ai racconti di guerra, a episodi di violenza occorsi tra serbi e albanesi prima e dopo il 1999, a episodi della vita quotidiana che hanno come protagonisti gli stessi abitanti del villaggio o qualche raro «forestiero» capitato lì per sbaglio…
Quello che si respira da queste parti è un senso di impotenza che appesantisce l’animo, deprime l’umore, spezza le gambe.
La possibilità di una convivenza con la popolazione albanese è molto lontana: per loro una eventualità non presa in considerazione, neanche (anzi soprattutto) dai giovani; per noi che cerchiamo un «gancio» per la pace è un miraggio . Il sogno della «Grande Serbia» rappresenta nello stesso tempo lo stimolo a sopravvivere e il grande errore che non farà mai guadagnare agli abitanti di Gorazdevac (e tutti i serbi presenti sul territorio) ad una convivenza serena col resto del Kossovo.
C’è gente che dal ’99 non è mai uscita dai due check-point che delimitano i confini del villaggio. Andare a Peja-Pec, è semplicemente un tabù di fatto. Dopo la morte dei due ragazzi poi, la paura di uscire da Gorazdevac è molto forte, anche per chi viene scortato dalla Kfor. Sono veramente pochi i coraggiosi che si avventurano fuori del villaggio senza scorta e lo fanno quasi esclusivamente per business (come dire che, al solito, sono i soldi il magico «minimo comune denominatore» che unisce uomini di popoli, etnie, religioni, ideologie diverse, nel sacro vincolo del guadagno).
Il convoglio che parte da Gorazdevac per destinazioni serbe, attraversa (scortato dalle camionette della Kfor) le località kossovare senza fermarsi prima del confine, come una meternora con una destinazione prestabilita.
Toare in Kossovo è stato emozionante. Rivedere persone e luoghi a cui mi ero affezionata è stato importante e bello, ma è stato molto duro accettare l’evidenza della staticità della situazione, che sembra non lasciare spazio ad una evoluzione positiva.
La morte dei due giovani serbi di Gorazdevac, l’estate scorsa (13 agosto 2003), ne è la prova più triste ed evidente.
Erano andati a fare il bagno al fiume, e qualcuno ha cominciato a sparare, uccidendo a sangue freddo un ragazzo di 19 anni, un altro di 12 e ferendone altri. Il diciannovenne Ivan (si legga, più avanti, il toccante racconto di Fabrizio) era uno dei ragazzi serbi che si dava più da fare per dialogare e creare un contatto positivo con i giovani albanesi di Peja-Pec, uno di quelli che «ci stava» a mollare un po’ di pregiudizi e di condizionamenti politici per cominciare a vivere, a guardare avanti, oltre il check-point.
Così mi sono ritrovata a vivere a Gorazdevac, minuscola enclave serba, alle porte di Pec (o Peja, come viene chiamata dagli albanesi), a condividere con questi serbi rimasti in Kossovo, un mese della mia vita. Troppo poco per sentirmi utile, abbastanza per farmi aprire gli occhi e il cuore su quanto lontano sia l’orizzonte della pace nel cuore della gente, a 5 anni dalla fine della guerra «ufficialmente dichiarata».
Le giornate, in questa parte di Kossovo, trascorrono come ovattate, in sordina, uguali le une alle altre, scandite dal canto del gallo che quasi non sembra riconoscere il giorno dalla notte.
La gente semplicemente si sveglia, beve il suo kafa, la sua rakia, taglia la legna per il fuoco; le donne rassettano la casa, lavano i panni, preparano il pane, accolgono gli ospiti che passano a salutare, cucinano, lavorano a maglia. Pochi hanno la fortuna di lavorare e di poter contare su uno stipendio sicuro (nel senso di fisso, non certo nel senso di sufficiente al proprio sostentamento). I più si dedicano a coltivare il loro fazzoletto di terra e ad allevare le poche bestie che danno loro il latte, le uova e la carne che mangiano. Molti vivono grazie all’aiuto economico di parenti lontani che riescono a mandare loro qualcosa ogni mese.
Sono pochi quelli che si sono rimboccati le maniche e hanno iniziato minuscole attività commerciali (piccole rivendite di generi alimentari) che bastano a guadagnare lo stretto necessario per sopravvivere, o poco di più. Il futuro è qualcosa di intangibile: è come se il tempo si fosse fermato. I giovani, i bambini e gli anziani condividono alla stessa maniera la loro tragica condizione di prigionia, trattando il futuro, o le proprie aspirazioni, come sogni irrealizzabili o troppo lontani (almeno quanto il confine con la Serbia) per poterli anche solo immaginare. Ogni giorno è uguale a quello precedente e a quello successivo…nulla scalfisce il senso di staticità di cui sono intrise le giornate di Gorazdevac.
Le feste del calendario ortodosso e i compleanni sono le uniche occasioni utili ad organizzare qualcosa di nuovo, a creare momenti di aggregazione dal sapore fresco (ma comunque sempre conditi da fiumi di alcornol). Tutto il resto è oblio.
I discorsi girano intorno ai ricordi del passato, alla politica e ai racconti di guerra, a episodi di violenza occorsi tra serbi e albanesi prima e dopo il 1999, a episodi della vita quotidiana che hanno come protagonisti gli stessi abitanti del villaggio o qualche raro «forestiero» capitato lì per sbaglio…
Quello che si respira da queste parti è un senso di impotenza che appesantisce l’animo, deprime l’umore, spezza le gambe.
La possibilità di una convivenza con la popolazione albanese è molto lontana: per loro una eventualità non presa in considerazione, neanche (anzi soprattutto) dai giovani; per noi che cerchiamo un «gancio» per la pace è un miraggio . Il sogno della «Grande Serbia» rappresenta nello stesso tempo lo stimolo a sopravvivere e il grande errore che non farà mai guadagnare agli abitanti di Gorazdevac (e tutti i serbi presenti sul territorio) ad una convivenza serena col resto del Kossovo.
C’è gente che dal ’99 non è mai uscita dai due check-point che delimitano i confini del villaggio. Andare a Peja-Pec, è semplicemente un tabù di fatto. Dopo la morte dei due ragazzi poi, la paura di uscire da Gorazdevac è molto forte, anche per chi viene scortato dalla Kfor. Sono veramente pochi i coraggiosi che si avventurano fuori del villaggio senza scorta e lo fanno quasi esclusivamente per business (come dire che, al solito, sono i soldi il magico «minimo comune denominatore» che unisce uomini di popoli, etnie, religioni, ideologie diverse, nel sacro vincolo del guadagno).
Il convoglio che parte da Gorazdevac per destinazioni serbe, attraversa (scortato dalle camionette della Kfor) le località kossovare senza fermarsi prima del confine, come una meternora con una destinazione prestabilita.
IL DIPLOMA SPARITO
Al baretto dove si incontrano i ragazzi di Gorazdevac, si può bere birra, succo di frutta, e poco altro. Non ci sono tavoli e sedie: si sta in piedi chiacchierando del più e del meno. A volte (soprattutto il sabato sera) si improvvisano danze di gruppo al ritmo di qualche balcanica ballata. E si fumano centinaia di sigarette, che rendono l’ambiente irrespirabile. Al baretto, la notte del capodanno serbo (tra il 12 e il 13 gennaio) abbiamo festeggiato la mezzanotte insieme ai ragazzi del villaggio. Ho chiacchierato a lungo con V. e R., due giovani in gamba e di cuore, che nella loro vita hanno solo avuto la sfortuna di nascere e vivere a Gorazdevac, e di dover subire le conseguenze di una guerra assurda. Ad un certo punto ho detto: «Adesso basta! Non parliamo più di guerra e di cose tristi. È capodanno, proviamo a divertirci!».
La risposta di R. mi ha scosso profondamente: «Ma io voglio parlare con te, Barbara! Qui non si può mai parlare di queste cose con qualcuno che ci faccia riflettere in un altro modo!».
V. è diplomato presso un istituto tecnico ad indirizzo elettronico. Il suo sogno è di fare l’avvocato. «Voglio fare l’avvocato, perché qui a Gorazdevac non c’è nessuno che fa bene questo mestiere, che difende i diritti di questa gente. Chi lo fa, lo fa per interesse. Chiede molti soldi a chi non ce li ha. Io voglio aiutare queste persone».
V. non può iscriversi all’Università, perché il suo diploma è sparito dopo la guerra. È andato a Pristina 3 o 4 volte (rischiando anche la vita), nella sede centrale della sua scuola, per avere informazioni sul suo diploma. Niente da fare: appena capivano che era serbo, gli albanesi in servizio negli uffici, gli dicevano che la persona competente non c’era e che avrebbe dovuto tornare un’altra volta… A nulla è servito l’intervento di Ong inteazionali per recuperarlo. V. ha persino accettato di pagare 100 euro ad un albanese che lavorava nella sua scuola, ma che alla fine si è tirato indietro (per timore della pressione sociale).
La sua carriera è bloccata. Cinque anni di vita, dal 1999 ad oggi, in cui i suoi sogni sono parcheggiati su un pezzo di carta seppellito tra altri, chissà dove. «Ti rendi conto Barbara? Un pezzo di carta… per loro non è niente, per me è tutto! Cosa gli costa spostarlo da là a qui? Cosa se ne fanno loro del mio diploma? Con esso potrei studiare, potrei costruire qualcosa per il mio futuro, ma è questo quello che non vogliono loro!». E poi aggiunge: «Sai, sono stanco di combattere, perché so che quel diploma non lo vedrò mai più».
V. è un ragazzo d’oro, con un grande cuore. Non ha mai torto un capello a nessuno, non ha bruciato case, non le ha saccheggiate.
Mentre V. mi parlava del suo diploma, del suo futuro mozzato dall’odio etnico, mi sono salite le lacrime agli occhi. Cercavo disperatamente dentro di me, qualcosa che potesse trasmettergli un po’ di energia, un po’ di ottimismo, ma niente.
Alla fine, abbiamo alzato i nostri bicchieri di birra e con un sorriso intenso e triste, abbiamo brindato all’amicizia, all’amore, al futuro.
Perché sognare è un diritto di tutti, anche dei giovani serbi di Gorazdevac.
COSA FACCIO QUI?
Il mio stare qui, a volte mi è incomprensibile e mi succede di essere presa da un senso di inutilità che mi paralizza. Non conoscere la lingua (il serbo) mi dispiace davvero tanto, anche se con qualche ragazzo posso comunicare in italiano, inglese e perfino in spagnolo. Con la maggior parte degli abitanti del villaggio cerco di comunicare a gesti, con piccole frasi in serbo che cerco di costruire a poco a poco («Dobar Dan!», «Kako si?», «Sutra idemo u Pec»), ma soprattutto comunico con lo sguardo. Allora il valore della mia presenza qui, mi diventa un po’ più chiaro. Se non altro potrei rappresentare, costituire un possibile «altro» con cui comunicare, essere lo specchio di un mondo che, al di là del check-point, continua ad andare avanti, che non si è fermato nel 1999.
Potrei essere voce di chi, albanese, nonostante il grande dolore per le morti, sarebbe disposto a comunicare con gli abitanti di Gorazdevac, rendendosi conto della assurdità di questa loro prigionia, che coinvolge giovani, anziani, bambini, esseri umani, esattamente uguali a loro, costretti a soffocare tra due check-point la propria vita, a reprimere i propri sogni e il proprio futuro.
Potrei essere un canale di comunicazione per quei giovani serbi che vorrebbero uscire dal circolo vizioso della pressione sociale, che ti obbliga ad evitare ogni contatto con gli albanesi (pena l’essere considerato una spia o un traditore dai tuoi stessi vicini di casa).
Potrei, ma troppe volte prevale il mio senso di impotenza. A volte, quello che riesco a fare è solo piangere insieme alle persone che incontro e che mi fanno partecipe delle loro piccole, grandi difficoltà quotidiane.
Al baretto dove si incontrano i ragazzi di Gorazdevac, si può bere birra, succo di frutta, e poco altro. Non ci sono tavoli e sedie: si sta in piedi chiacchierando del più e del meno. A volte (soprattutto il sabato sera) si improvvisano danze di gruppo al ritmo di qualche balcanica ballata. E si fumano centinaia di sigarette, che rendono l’ambiente irrespirabile. Al baretto, la notte del capodanno serbo (tra il 12 e il 13 gennaio) abbiamo festeggiato la mezzanotte insieme ai ragazzi del villaggio. Ho chiacchierato a lungo con V. e R., due giovani in gamba e di cuore, che nella loro vita hanno solo avuto la sfortuna di nascere e vivere a Gorazdevac, e di dover subire le conseguenze di una guerra assurda. Ad un certo punto ho detto: «Adesso basta! Non parliamo più di guerra e di cose tristi. È capodanno, proviamo a divertirci!».
La risposta di R. mi ha scosso profondamente: «Ma io voglio parlare con te, Barbara! Qui non si può mai parlare di queste cose con qualcuno che ci faccia riflettere in un altro modo!».
V. è diplomato presso un istituto tecnico ad indirizzo elettronico. Il suo sogno è di fare l’avvocato. «Voglio fare l’avvocato, perché qui a Gorazdevac non c’è nessuno che fa bene questo mestiere, che difende i diritti di questa gente. Chi lo fa, lo fa per interesse. Chiede molti soldi a chi non ce li ha. Io voglio aiutare queste persone».
V. non può iscriversi all’Università, perché il suo diploma è sparito dopo la guerra. È andato a Pristina 3 o 4 volte (rischiando anche la vita), nella sede centrale della sua scuola, per avere informazioni sul suo diploma. Niente da fare: appena capivano che era serbo, gli albanesi in servizio negli uffici, gli dicevano che la persona competente non c’era e che avrebbe dovuto tornare un’altra volta… A nulla è servito l’intervento di Ong inteazionali per recuperarlo. V. ha persino accettato di pagare 100 euro ad un albanese che lavorava nella sua scuola, ma che alla fine si è tirato indietro (per timore della pressione sociale).
La sua carriera è bloccata. Cinque anni di vita, dal 1999 ad oggi, in cui i suoi sogni sono parcheggiati su un pezzo di carta seppellito tra altri, chissà dove. «Ti rendi conto Barbara? Un pezzo di carta… per loro non è niente, per me è tutto! Cosa gli costa spostarlo da là a qui? Cosa se ne fanno loro del mio diploma? Con esso potrei studiare, potrei costruire qualcosa per il mio futuro, ma è questo quello che non vogliono loro!». E poi aggiunge: «Sai, sono stanco di combattere, perché so che quel diploma non lo vedrò mai più».
V. è un ragazzo d’oro, con un grande cuore. Non ha mai torto un capello a nessuno, non ha bruciato case, non le ha saccheggiate.
Mentre V. mi parlava del suo diploma, del suo futuro mozzato dall’odio etnico, mi sono salite le lacrime agli occhi. Cercavo disperatamente dentro di me, qualcosa che potesse trasmettergli un po’ di energia, un po’ di ottimismo, ma niente.
Alla fine, abbiamo alzato i nostri bicchieri di birra e con un sorriso intenso e triste, abbiamo brindato all’amicizia, all’amore, al futuro.
Perché sognare è un diritto di tutti, anche dei giovani serbi di Gorazdevac.
COSA FACCIO QUI?
Il mio stare qui, a volte mi è incomprensibile e mi succede di essere presa da un senso di inutilità che mi paralizza. Non conoscere la lingua (il serbo) mi dispiace davvero tanto, anche se con qualche ragazzo posso comunicare in italiano, inglese e perfino in spagnolo. Con la maggior parte degli abitanti del villaggio cerco di comunicare a gesti, con piccole frasi in serbo che cerco di costruire a poco a poco («Dobar Dan!», «Kako si?», «Sutra idemo u Pec»), ma soprattutto comunico con lo sguardo. Allora il valore della mia presenza qui, mi diventa un po’ più chiaro. Se non altro potrei rappresentare, costituire un possibile «altro» con cui comunicare, essere lo specchio di un mondo che, al di là del check-point, continua ad andare avanti, che non si è fermato nel 1999.
Potrei essere voce di chi, albanese, nonostante il grande dolore per le morti, sarebbe disposto a comunicare con gli abitanti di Gorazdevac, rendendosi conto della assurdità di questa loro prigionia, che coinvolge giovani, anziani, bambini, esseri umani, esattamente uguali a loro, costretti a soffocare tra due check-point la propria vita, a reprimere i propri sogni e il proprio futuro.
Potrei essere un canale di comunicazione per quei giovani serbi che vorrebbero uscire dal circolo vizioso della pressione sociale, che ti obbliga ad evitare ogni contatto con gli albanesi (pena l’essere considerato una spia o un traditore dai tuoi stessi vicini di casa).
Potrei, ma troppe volte prevale il mio senso di impotenza. A volte, quello che riesco a fare è solo piangere insieme alle persone che incontro e che mi fanno partecipe delle loro piccole, grandi difficoltà quotidiane.
BOX 1
L’ultimo tuffo di Ivan
«Jebenti Federica», aspettando sotto il sole che Federica arrivi per portare altri ragazzi al centro giovanile «Zoom», che sta in città, mi scappa questa imprecazione colorita più per attaccare discorso che per dir male di lei. Una voce mi corregge dal sedile posteriore della jeep: «Jebenti Federicu».
Sbaglio sempre le declinazioni dei nomi quando parlo serbo. Chi mi corregge vive qui a Gorazdevac, ma è nella nostra auto perché è uno di quei ragazzi che, paura e genitori permettendo, frequenta il centro giovanile.
Se fossimo in Italia non ci sarebbe nulla di male, ma qui siamo Peja-Pec e i serbi, quelli che sono rimasti, vivono chiusi nelle enclave e la loro mobilità è vincolata dalle scorte della Kfor. Da un po’ di tempo però c’è chi rompe «l’assedio» dall’una e dall’altra parte della barricata. Sono i ragazzi del centro giovanile «Zoom», che incominciano a conoscersi gli uni e gli altri al di là dell’etnia d’appartenenza. Mauro e Agron, che lavorano per il «Tavolo Trentino con il Kossovo», cercano di stimolare i ragazzi all’incontro dando forza alle spinte che arrivano dai ragazzi stessi.
L’incontro c’è, magari ancora un po’ freddo ma almeno tutti scoprono che quelli dall’altra parte non sono «tutti bestie» come si dice. I pretesti nascono quasi per caso: il corso di teatro, quello di fotografia, l’alpinismo, un corso di giornalismo e poi i momenti ludici come la settimana bianca o i pic-nic al fiume.
Non è facile incontrarsi: per i serbi è difficile andare in zona albanese, è pericoloso; per gli albanesi sono ancora limpidi i ricordi dei giorni di esodo per essere a proprio agio in un’enclave serba. Ma gli incontri ci sono e quando li vedi e ti ricordi come era qui 4 anni fa quasi non ci credi. Il ragazzo che corregge la mia imprecazione si chiama Ivan, ha 18 anni e una passione per la fotografia che sta coltivando con il corso organizzato dal centro «Zoom» e con le capatine al laboratorio fotografico dello stesso. In paese fa il barbiere ma si lamenta che non ha molti clienti (gli abitanti sono un migliaio) e poi fa il barista alle feste che ogni sabato vengono organizzate in un barettino per rompere la monotonia e far sembrare questo paesino, circondato dall’esercito italiano e rumeno, un posto più normale. Ivan è tacituo e forse nasconde la naturale baldanza che uno ha a quell’età. Quando il caldo si fa forte corre al fiume a fare un tuffo.
Ivan ha fatto il suo ultimo tuffo il 13 agosto 2003. Ivan e un altro ragazzino di dodici anni sono stati uccisi da una scarica di proiettili uscita da dietro un cespuglio. Ivan è morto al fiume due ore prima del nostro appuntamento che lo avrebbe portato a seguire il corso di fotografia assieme ad altri ragazzi serbi e albanesi.
Dall’altra parte del fiume c’è un paese albanese che nel ’99 ha subito la perdita di 35 persone uccise dai fucili dei paramilitari serbi. Questo però non giustifica nulla. Non è stata fatta giustizia solo ancora ingiustizia. Conosco la madre e la zia di Ivan: solamente il pensiero del loro dolore mi opprime mi fa sentire per l’ennesima volta impotente di fronte all’ingiustizia. Preferirei non aver conosciuto Ivan, sua madre, sua zia, il suo villaggio e il Kossovo. Vorrei che Ivan fosse solo una notizia, solo un nome. Ma non è così, qui c’è chi ci prova, chi muore e ormai ci sono dentro anch’io, non posso fare finta di nulla. Rimane l’amaro in bocca per aver visto che si poteva e aver scoperto che c’è chi non vuole. A qualcuno l’odio è funzionale.
Cosa dire agli amici serbi e agli amici albanesi? Domani come oggi i serbi mi sputeranno in faccia le parole di convivenza che ho usato con loro in questi anni. Non posso che subire: in questo momento i buoni propositi sono stati spodestati dal dolore. Ma poi quando la gente si sarà un po’ tranquillizzata magari consegneremo loro la lettera di condoglianze scritta dai ragazzi albanesi che frequentano il centro, perché per loro Ivan era Ivan prima di essere serbo.
Agli amici albanesi, quelli che vivono qui, vicino all’enclave cercherò di dire che l’odio sta distruggendo l’anima del loro popolo che non è più quello forte e generoso che ho conosciuto in passato. Spero solo che a qualcuno venga la voglia di ricominciare e che la pace contagi anche chi non ci crede.
Fa.Be.
Barbara Magalotti