All’interno dell’enclave serba di Gorazdevac permane il sentimento di essere vittime della parte albanese. Anche la fiducia nei confronti delle organizzazioni inteazionali, in particolare della Kfor, non esiste più. All’indomani dell’incidente del 13 agosto 2003 le stesse autorità politiche e religiose serbe avevano dichiarato e chiesto a Kfor di abbandonare il paese, vista la loro incapacità nel difendere la popolazione serba dagli attacchi dei «terroristi albanesi». Le parole precise furono: «Grazie di tutto ma ora andate via; noi ci difenderemo da soli». Il messaggio era chiaro: voler avere, come da tempo stanno chiedendo, la propria polizia a difesa delle enclave.
Dopo un primo momento di smarrimento, alcuni ragazzi dell’enclave e, in particolare, i gruppi che avevano partecipato ai progetti del centro Zoom, ci hanno manifestato, a livello privato e confidenziale, la volontà di uscire da quella situazione di isolamento assoluto. Lentamente la tensione tra i due gruppi andava nuovamente allentandosi, ma nuovi incidenti hanno interrotto ancora il cammino verso il dialogo.
A marzo 2004 l’annegamento di due bambini albanesi nei pressi di Mitrovica ha infatti dato il pretesto per la violenza. Pare che i due bambini si fossero buttati nel fiume Ibar, perché inseguiti da alcuni civili serbi, che avevano sguinzagliato i cani. Gli scontri sono iniziati a Mitrovica, città simbolo della divisione (a nord ci stanno i serbi e a sud gli albanesi), ma la violenza è dilagata in tutto il Kossovo. Il risultato è stato una forte protesta contro l’amministrazione internazionale Unmik e contro i serbi che ormai da anni vivono chiusi in enclave. Perché si è arrivati a tutto questo?
La situazione sul territorio negli ultimi 8 mesi è stata mutevole, e i disordini di marzo non hanno fatto altro che mettere alla luce l’empasse internazionale. L’instabilità potrebbe avere come cause scatenanti tre fattori che sono strettamente legati fra loro.
Giustizia: oltre alla difficoltà della polizia locale Kps ad arrestare i delinquenti comuni, vi è una difficoltà di fondo a fermare la grossa malavita e ad arrestare gli assassini. Questo va ad aggiungersi alla mancanza di giustizia rispetto ai crimini del ’99; basti pensare che molte salme di kossovari albanesi sono ancora in Serbia in attesa di essere trasportate in Kossovo. La popolazione kossovaro-albanese in una certa parte accusa l’amministrazione internazionale Unmik di rallentare il rientro delle salme per paura delle reazioni locali. Dall’altra parte, anche i kossovari-serbi recriminano il fatto che di molte persone scomparse nel ’99, all’entrata della Nato, non si sappia più nulla.
Status: la non definizione dello status, la non chiarezza sugli standard per l’indipendenza e la freddezza di alcuni ambienti della politica internazionale sull’idea di indipendenza del Kossovo creano una tensione latente nella popolazione, oltre che negli ambienti più estremisti. C’è da dire che una soluzione che sancirebbe l’indipendenza non sarebbe per nulla gradita alla minoranza serba e alla Serbia, mentre un’ipotesi contraria con il ritorno alla sovranità della Serbia troverebbe una fortissima opposizione da parte di tutta la popolazione albanese.
Economia: l’elemento economico è strettamente legato agli altri due, è una causa e una conseguenza. Nei primi anni, dopo il conflitto in Kossovo, si era creata un’economia legata alla ricostruzione e al lavoro delle organizzazioni umanitarie. La drastica riduzione degli investimenti inteazionali e la conseguente diminuzione delle organizzazioni (governative e non) presenti ha messo in crisi questa economia falsa. L’instabilità e la non chiarezza sul futuro status non stimolano investimenti economici e il processo di liberalizzazione è pressoché bloccato dai contrasti tra l’amministrazione locale e quella internazionale, accusata di avere una politica filo-serba. In Kossovo si può parlare di una percentuale di disoccupazione dell’80% e le uniche attività economiche sono per lo più rivolte al commercio.
Nell’area di Peja-Pec la situazione ha rispecchiato quella più generale che si vive in tutta la regione, dopo l’estate la situazione fra l’enclave di Gorazdevac e la città andava migliorando anche se i contatti ufficiali con l’altra parte non erano frequenti. Nell’area si era proceduto alla ricostruzione di 25 case serbe nell’area di Bijelo Polje. Il progetto di rientro di 90 famiglie nella zona di Siga e Brestovic’ procedeva. Le manifestazioni del 17 marzo 2004 hanno però notevolmente deteriorato la situazione anche se nell’area di Peja-Pec sono durate solo un giorno. Le strade della città sono state bloccate dai manifestanti nel primo pomeriggio ed il palazzo sede dell’amministrazione Unmik è stato «assediato»; alcune auto Un sono state date alle fiamme, dopo di che la massa è andata verso l’abitato di Bijelo Polje dove i 32 abitanti e ospiti serbi sono stati evacuati dai soldati della Kfor non senza difficoltà. Il bilancio a fine giornata era pesante: un manifestante kossovaro-albanese ucciso dalle forze di polizia internazionale, 12 kossovari-serbi feriti, numerosi manifestanti feriti, 25 case ricostruite danneggiate e bruciate, tre auto U.N. bruciate.
La parte albanese ha riconosciuto gli incidenti come un grosso passo indietro nel processo di pacificazione dell’area, incidenti che, a loro dire, penalizzano maggiormente gli albanesi. Gli organi di informazione poi hanno contribuito a confondere ancor di più le idee. In questo marasma, l’idea dei ragazzi del centro Zoom e, in generale, dei ragazzi della città è stata quella di non tornare indietro e non cancellare i passi in avanti che sono stati fatti nel percorso di riconciliazione. Molti di loro sono consapevoli che il Kossovo non può avere futuro senza considerare la presenza serba sul territorio.
Da parte serba è andato però accentuandosi il sentimento di appartenenza: nell’enclave la moneta è ancora il dinaro e si scrive in cirillico. Il rischio per chi, all’interno dell’enclave, non manifesta questa appartenenza e tenta di integrarsi nella nuova situazione o comunica con gli albanesi, è quello di venire escluso dalla comunità e dal villaggio, di essere visto come un traditore.
In conclusione, la catena che si era creata, anche grazie ai progetti portati avanti dal «Tavolo Trentino con il Kossovo-Operazione Colomba», si è spezzata. Riusciremo a tornare a ricoprire il nostro ruolo di anello di congiunzione tra le due parti in conflitto?
Mauro Barisone
(cornordinatore «Tavolo Trentino
con il Kossovo»)
Mauro Barisone